Ogni anno si ripete l'avvilente rito quasi collettivo.
Con la scusa del caldo, in citta', e' tutto un fiorire di pantaloncini corti, canottiere e infradito. Senza nessuna remora ne' riflessione se il luogo o la decenza lo consentano. Così possiamo "ammirare" persone di tutte le eta' in luoghi Pubblici o negli Ospedali, tranquillamente svestiti e sciabattanti. Si, perché il caldo toglie anche la forza di camminare con un po' di compostezza, alzando un poco la gamba ad ogni passo. Di conseguenza possiamo sentire quelle note offerte dai piedi a strascico. E' un caldo tale che signori con un bello stomaco, frutto della iper-alimentazione (nonostante il caldo...), si mettono la camicia ma solo per lasciarla poi tutta slacciata.
E' la decadenza che avanza e ogni anno e' sempre peggio. Sembra che questo caldo proprio non si sopporti.
Almeno il dubbio della decenza si formasse ogni tanto prima di uscire, pensando al luogo in cui si sta andando. Tutto inutile. La sciatteria e' il destino che ci aspetta. E non migliorerà.
Pensare ad un pantalone leggero di cotone o di Lino, nei colori chiari, con una bella camicia fresca anch'essa negli stessi materiali oppure una dignitosa polo e' uno sforzo troppo faticoso... con questo caldo.
sabato 31 luglio 2010
venerdì 30 luglio 2010
Valori semplici
Considero valore risparmiare acqua,
riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo,
accorrere a un grido,
chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dove e' il nord,
qual'e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Erri de Luca (dal libro "Adesso basta" di Simone Perotti).
riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo,
accorrere a un grido,
chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dove e' il nord,
qual'e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Erri de Luca (dal libro "Adesso basta" di Simone Perotti).
domenica 25 luglio 2010
Realizzazione personale
Raggiungere gli obiettivi in sè non vi renderà mai felici a lungo termine, è chi diventerete che vi può dare il senso più profondo e duraturo di realizzazione.
lunedì 19 luglio 2010
Elica, l'unica azienda italiana della Great Place to Work europea
Una palestra aziendale. Vacanze studio all'estero per i figli dei dipendenti. Bonus per l'acquisto e l'accesso a servizi in strutture e negozi convenzionati. E un accordo integrativo che è valso il Premio etica e impresa nella categoria Responsabilità sociale. Dietro al 28esimo posto raggiunto da Elica nella classifica europea 2010 delle migliori aziende in cui lavorare stilata ogni anno da Great Place to Work, e pubblicata di recente, c'è innanzitutto un saldo legame di fiducia fra vertici e collaboratori che ha saputo reggere anche durante i mesi difficili della crisi appena passata.
La società marchigiana specializzata nella produzione di cappe conta oggi 8 stabilimenti produttivi, di cui tre all'estero, per un totale di oltre duemila dipendenti, 1.200 dei quali in Italia. Con sede a Fabriano, per il terzo anno consecutivo è l'unica azienda al 100% made in Italy della classifica guidata dalle 15 divisioni europee di Microsoft su un totale di 1.300 imprese di 17 Paesi europei.
«Le persone che lavorano per noi sono il vero capitale della società - ha commentato Francesco Casoli, presidente esecutivo del gruppo -. E su questo presupposto sono stati basati gli investimenti fatti nel corso degli anni a favore dei dipendenti e della loro qualità di vita, dentro e fuori l'azienda». Nonostante abbia risentito del difficile momento determinato dalla crisi mondiale, Elica non solo ha continuato a investire sulle persone, ma ha anche aumentato le risorse destinate alle iniziative per chi lavora in azienda.
Da alcuni anni, ogni estate, vengono organizzate vacanze studio all'estero per i figli dei dipendenti per l'apprendimento della lingua inglese, sono previsti bonus per l'acquisto di beni e l'accesso a servizi tramite una card da utilizzare in strutture e negozi convenzionati. Inoltre è stato siglato un accordo integrativo che si caratterizza come un sistema di welfare giudicato particolarmente innovativo e per cui nel 2009 il gruppo ha ricevuto il Premio etica e impresa. «Siamo un'azienda, non una famiglia - ha chiarito il presidente esecutivo del gruppo Francesco Casoli - ma manteniamo alcuni valori per noi importanti».
I tre anni consecutivi sul primo gradino del podio nella classifica italiana non sono stati tuttavia sufficienti a mettere al riparo Elica dalle ripercussioni della crisi, che ha picchiato duro anche su un territorio come il comprensorio di Fabriano un tempo considerato un'isola felice: «Da Merloni in giù - ricorda Andrea Cocco, segretario provinciale della Fim Cisl di Ancona - ovunque la cassaintegrazione si è fatta sentire. La maggior parte dei dipendenti Elica lavora per sei ore al giorno, mentre altre due sono di Cigs».
«Come tutti - ammette Marco Scippa, direttore Hr del gruppo - ci siamo trovati con cali della domanda di oltre 25 punti percentuali e siamo stati costretti a fare mobilità. Ma ci abbiamo messo direttamente la faccia, e questo ha pagato».
Oltre al normale Face to face bimestrale, uno spazio dedicato cioè alla comunicazione diretta fra dipendenti e vertici, Casoli e Scippa hanno organizzato un road show per spiegare direttamente ai lavoratori le contromisure che l'azienda aveva deciso di adottare per difendersi dalla congiuntura: «Abbiamo cercato di spiegare la situazione - prosegue Scippa -, abbiamo cercato di spiegare che eravamo costretti a fare alcuni sacrifici, ma che saremmo rimasti vicino a chi sarebbe stato coinvolto dalla mobilità. Oggi la caduta libera si è arrestata, e stiamo facendo il possibile per fare pesare il meno possibile sui dipendenti le difficoltà di questa lenta ripresa. Il risultato è che fino a oggi non abbiamo avuto una sola ora di sciopero».
Per favorire il miglior rapporto possibile tra dipendenti e il luogo di lavoro, Elica ha investito anche sull'allestimento degli uffici. La ristrutturazione del "quartier generale" di Fabriano, con l'utilizzo dello spazio che fu del primo sito produttivo, successivamente adibito a magazzino, è stata colta come occasione di miglioramento non solo in termini di ottimizzazione dell'organizzazione del lavoro, ma anche della comunicabilità. «Essere fra le migliori 50 aziende europee – conclude Scippa - ci riempie di orgoglio e ci spinge a un continuo miglioramento».
Massimiliano Del Barba
1.300 Le imprese in concorso
Ogni anno la società di consulenza Great Place to Work invita le aziende di 17 paesi europei a confrontarsi sul tema delle politiche dedicate alle risorse umane
28° La prima italiana
La prima azienda 100% made in Italy a posizionarsi nella graduatoria è stata per il terzo anno consecutivo il gruppo Elica di Fabriano
8 Gli stabilimenti produttivi
Il Gruppo Elica oggi è composto da cinque stabilimenti in Italia, quattro dei quali in provincia di Ancona, e tre siti produttivi all'estero.
17% Il mercato
Il gruppo Elica detiene una quota di mercato nel settore delle cappe per cucine pari al 17% a livello mondiale e del 41% a livello europeo
-11% Il fatturato
Nel 2009 il fatturato del gruppo riconducibile al mercato europeo ha subìto un decremento dell'11%, -31% invece sul mercato americano e -11% nel resto del mondo
All'Italia serve un risorgimento digitale
L’Italia sta affrontando in maniera clamorosamente inadeguata la più profonda trasformazione tecnologica e culturale dai tempi di Gutenberg, ovvero, la rivoluzione digitale. Su più livelli. I dati sono eloquenti (Istat e Eurostat, 2009): di venticinque Paesi dell’Unione Europea misurati dalle statistiche, l’Italia è ventiduesima per percentuale di famiglie con accesso a Internet da casa.
I primi della classe, ovvero il Nord Europa, hanno percentuali quasi doppie rispetto alle nostre (il 90% delle famiglie ha accesso Internet), ma anche Francia, Malta e Slovenia ci staccano nettamente. Peggio di noi solo Grecia, Portogallo, Romania e Bulgaria. Guardando al commercio, appena l’8% di italiani compra su Internet, contro il 45% di tedeschi e il 18% di polacchi. Uno stupefacente 41% di piemontesi non ha mai usato un computer - la stessa percentuale del distretto di Bucarest. E così via. Ma non sono solo le famiglie e i singoli ad essere indietro. L’Italia è anche ventesima (su 25) per spese in hardware, software e servizi relativamente al prodotto interno lordo; ciò significa che anche le imprese italiane adottano in media poche tecnologie digitali rispetto alle concorrenti europee, dato confermato anche da diversi altri indicatori relativi all’uso dei tali tecnologie nelle imprese. Infine la Pubblica Amministrazione: in questo ambito l'Italia si colloca sotto la media europea, anche se non di molto, ma con livelli medi di usabilità dei servizi e di monitoraggio della soddisfazione degli utenti molto bassi. Nelle scuole, poi, il numero medio di computer connessi a Internet per alunno è, secondo gli ultimi dati disponibili (2006), tra i più bassi dell’Unione Europea.
A questi dati, duri nella loro oggettività, si affianca qualcosa di più qualitativo, allo stesso tempo sia causa sia effetto dello scenario sopra tratteggiato, ovvero, uno scetticismo, se non una diffidenza, nei confronti di Internet molto più diffuso che in altri Paesi avanzati. Uno scetticismo generico e non ragionato, spesso condiviso da esponenti della classe dirigente, che produce un’evidenziazione sistematica degli aspetti negativi di Internet e un passare altrettanto sistematicamente sotto silenzio gli aspetti positivi, sia quelli già davanti ai nostri occhi sia quelli potenziali - i più sacrificati quando non si vogliano alzare gli occhi da terra.
Senza entrare in giudizi di merito, però, la rivoluzione Internet è tra noi - è un dato di fatto. E' un cambiamento profondo che sta toccando - o si accinge a toccare - praticamente tutti gli aspetti della nostra vita, dal divertimento alla formazione, dalla comunicazione alla politica, dai diritti fondamentali delle persone alle prospettive economiche.
Possiamo snobisticamente ignorare questo dato di realtà, consolandoci - si fa per dire - con la straordinaria diffusione di telefoni cellulari o televisori nel nostro Paese, ma in tal caso è allora doveroso spiegare ai cittadini che così facendo la classe dirigente sta ipotecando un altro pezzo del nostro futuro. Saranno, infatti, altri i Paesi a godere appieno del vantaggio competitivo, economico e sociale, derivante da una rapida e ragionata adozione delle tecnologie digitali.
Oppure possiamo abbracciare il cambiamento e cercare di dargli la forma che più si adatta alle priorità e alle attitudini dell’Italia. In tal senso, si possono identificare tre principali pilastri per sostenere un potenziale risorgimento digitale italiano. Il primo pilastro è alzare il livello di scolarizzazione del Paese. E’ inutile, infatti, sperare di portare percentuali nord-europee di italiani su Internet in presenza di sacche di neo-analfabetismo che, come ricorda Tullio De Mauro, riguardano oltre un terzo della popolazione.
Il secondo pilastro è abbattere le barriere culturali ed economiche che privano di computer e di accesso a Internet una larga parte della popolazione, in particolare - come si evince dai dati Istat 2009 - le famiglie di lavoratori non qualificati e chi abita fuori dai centri urbani. Occorre, da una parte, far capire, con una sorta di «150 ore» del XXI secolo, quale risorsa possa rappresentare - per sé, per la propria attività e per i propri figli - un computer connesso a Internet in casa propria e, dall’altra, intervenire con incentivi economici efficaci per sostenere l’acquisto del computer e dell’accesso alla rete.
Il terzo pilastro è il superamento del cosiddetto «digital divide infrastrutturale», ovvero, gli ostacoli che trova chi vorrebbe connettersi alla rete, ma non può perché nel luogo in cui la persona (o l’azienda) si trova la rete semplicemente non c’è. Larga parte del territorio italiano, infatti, particolarmente quello al di fuori dei principali centri urbani, è connesso alla rete a banda larga poco o per niente. E’, quindi, urgente un serio programma di investimenti per portare la rete a tutti, possibilmente in fibra e altrimenti usando le frequenze lasciate libere dalla televisione analogica, potenziando nel contempo la diffusione dal basso delle reti Wi-Fi con l’abrogazione del cosiddetto decreto Pisanu.
Le tre azioni si dovrebbero mettere in campo simultaneamente. I risultati si vedrebbero nel giro di pochi anni, e permetterebbero all’Italia di uscire da un’arretratezza che pregiudica il nostro futuro, entrando nel gruppo di quei Paesi che l’onda del cambiamento la stanno imparando a cavalcare e a guidare.
JUAN CARLOS DE MARTIN (docente del Politecnico di Torino)
giovedì 15 luglio 2010
Eravamo un popolo...
Eravamo conosciuti come un popolo gentile. Già nel Settecento, Goethe nel suo viaggio in Italia, rimase incantato non solo dal paesaggio e dalla storia, ma anche dalla dolcezza del nostro carattere e dalla naturale inclinazione alla dolcezza, alla felicita', alla voglia di vivere e all'accoglienza.
Cosa rimane oggi di tutto questo ? Quando mi guardo attorno e osservo, purtroppo, noto un Paese profondamente cambiato. Prevale generalmente la maleducazione, la cafoneria, il "furbismo" di quelli sempre pronti a scavalcare le file, a non rispettare le regole, a frodare il fisco, a profittare del turista, a urlare al telefono per strada o sui treni, a trattare tutto ciò che e' pubblico come di nessuno, a imbrattare, sporcare, a cercare tutte le strade per fare soldi o volerli in fretta.
Rimango basito di fronte alla violenza gratuita e alla continua distribuzione di informazioni demenziali in televisione. Come non comprendo la ferocia espressa dagli uomini per il potere, per l'accumulo mai saziato di possesso, anche a scapito dell'ambiente o dei propri simili, di beni, di cose, di danaro.
Contemporaneamente siamo divenuti sordi e insensibili a tutto ciò che accade, tutto ci attraversa ma non reagiamo mai, non ci indignamo più, tutto pare normale, tutto scivola via. Seguiamo poco e con approssimazione ciò che ci accade intorno, ce ne disinteressiamo, per comodità, perché non ci riguarda (pensiamo erroneamente), per ignavia, per assuefazione e anche per noia.
Ma soprattutto siamo cambiati perché in questi anni sono cambiati, purtroppo in peggio, il senso dell'Etica e della Morale.
Cosa rimane oggi di tutto questo ? Quando mi guardo attorno e osservo, purtroppo, noto un Paese profondamente cambiato. Prevale generalmente la maleducazione, la cafoneria, il "furbismo" di quelli sempre pronti a scavalcare le file, a non rispettare le regole, a frodare il fisco, a profittare del turista, a urlare al telefono per strada o sui treni, a trattare tutto ciò che e' pubblico come di nessuno, a imbrattare, sporcare, a cercare tutte le strade per fare soldi o volerli in fretta.
Rimango basito di fronte alla violenza gratuita e alla continua distribuzione di informazioni demenziali in televisione. Come non comprendo la ferocia espressa dagli uomini per il potere, per l'accumulo mai saziato di possesso, anche a scapito dell'ambiente o dei propri simili, di beni, di cose, di danaro.
Contemporaneamente siamo divenuti sordi e insensibili a tutto ciò che accade, tutto ci attraversa ma non reagiamo mai, non ci indignamo più, tutto pare normale, tutto scivola via. Seguiamo poco e con approssimazione ciò che ci accade intorno, ce ne disinteressiamo, per comodità, perché non ci riguarda (pensiamo erroneamente), per ignavia, per assuefazione e anche per noia.
Ma soprattutto siamo cambiati perché in questi anni sono cambiati, purtroppo in peggio, il senso dell'Etica e della Morale.
domenica 11 luglio 2010
Il gioco della felicità
L'esperienza definisce felicissimo l'uomo che ha reso felice il maggior numero di altri simili. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l'umanità, allora non proveremo una gioia meschina, limitata, egoistica, ma la nostra felicità apparirà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre.
C. Marx
sabato 10 luglio 2010
Ozio addio. Schiavi degli impegni
L’ossessione di riempire tutti gli spazi delle nostre giornate ha molte facce: Internet, i blog, lo zapping alla tv. Invece i «tempi morti» diventano una fatica insopportabile che porta alla depressione: il contrario dell’otium classico, sinonimo di pienezza vitale.
Nel nostro mondo l'ozio è diventato inattività, che è tutt'altra cosa: chi è inattivo è frustrato si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca. La tecnica del "rallentando" è l'estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all'uomo. (M.Kundera)
Non siamo più capaci di oziare. Nel senso buono, nel senso latino del termine: la vita solitaria e contemplativa non fa per noi. Anche il tempo libero finisce per essere un tempo finalizzato a qualcosa. Nel suo primo romanzo in lingua francese, La lentezza, Milan Kundera ricordava un bel proverbio ceco: «Gli oziosi contemplano le finestre del buon Dio». E aggiungeva: «Nel nostro mondo l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca». Per Kundera l’ozio è la sapienza della lentezza, il «conoscere a meraviglia la tecnica del rallentando» e si oppone alla velocità, che è «la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». L’ozio è una declinazione del tempo. Con il Basso Medioevo, racconta lo storico Jacques Le Goff in un saggio memorabile, al tempo della Chiesa, che segnava con il ritocco delle campane le varie tappe della giornata, si è aggiunto il tempo del mercante: quello scandito dal commercio, lo spazio temporale che divide la promessa di pagamento dal saldo. Al tempo di Dio, dopo il primo millennio, si è aggiunto il tempo dell’uomo. Con la postmodernità fluida, è quest’ultimo il solo tempo che ci è rimasto.
Nella tradizione filosofico-letteraria cristiana, l’ozio aveva connotazioni diverse. Da una parte astenersi da ogni occupazione utile (il lavoro e la preghiera) era sinonimo di pigrizia, uno stato patologico vicino alla malinconia depressiva: ora et labora era il motto della regola benedettina che dovette aver presente Dante quando, nel VII dell’Inferno, condannò gli accidiosi (quelli «co la mente alienata», scrive Jacopone da Todi) a rimanere eternamente immersi nelle acque nere e ribollenti della palude Stigia. Ma soprattutto quando, nel XVIII del Purgatorio, costrinse, per contrappasso, le anime dei pigri a muoversi in continuazione e a correre urlando esempi di sollecitudine. Dante, probabilmente, avrebbe riservato lo stesso destino al buon Oblomov, il trentenne protagonista eponimo di Goncarov, che le prova tutte prima di rassegnarsi a vivere una vita apatica nella sua casa di Pietroburgo, mentre il mondo intorno a lui si agita frenetico.
D’altra parte, invece, c’è l’otium, l’opposto degli affari pubblici, il tempo da dedicare alla meditazione, allo studio, alla cura della mente e dello spirito, quello amato dagli stoici, da Cicerone, da Orazio e da Seneca, che vi scrisse sopra ben due trattatelli: De otio e De tranquillitate animi. Anche Petrarca la pensa così e il suo De vita solitaria è un’esaltazione del tempo liberato dalle occupazioni civili e politiche, purché non diventi inerzia e disimpegno. Un filone che avrà fortuna tra gli illuministi, prima che l’ozio diventi lo spleen dei romantici, mal di vivere da flâneur, e poi nausea esistenzialista e noia moraviana. Ma sarà la rivoluzione industriale a recuperare l’orgoglio della vacanza in senso etimologico, del vuoto creativo, con una serie di pamphlet che vanno dal Diritto all’ozio di Paul Laforgue (1880) all’Elogio dell’ozio di Bertrand Russell (1932), con declinazioni successive in chiave umoristica, come nel pamphlet di Jerome K. Jerome I pensieri oziosi di un ozioso il cui succo è riassunto da questa breve parabola: «Conobbi un uomo che all’ora della sveglia balzava subito dal letto e faceva un bagno freddo. Ma questo eroismo non serviva a nulla perché, dopo il bagno, doveva saltare di nuovo dentro al letto per scaldarsi». In sostanza: «È impossibile godere a fondo dell’ozio se non si ha una quantità di lavoro da fare». Oppure quello stesso orgoglio può assumere un’accezione mistico-ascetica, come nel libretto di Hermann Hesse, L’arte dell’ozio.
Che cosa è rimasto del piacere dell’ozio umanistico nell’era multitasking? Niente o quasi. Perché una delle qualità essenziali del dolce far niente è la gratuità come scelta deliberata e la gratuità, nella nostra epoca, è rara. Tutto deve essere funzionale a qualcosa. Pensate ai bambini e agli adolescenti: il loro tempo libero viene occupato, per lo più, da attività organizzate, programmate da genitori-manager. Così, alla fatica necessaria (quella della scuola) si aggiunge la fatica del tempo liberato, corsi di inglese, corsi di musica, lezioni di ginnastica e di danza, sedute sportive. I ragazzi hanno l’obbligo di scegliere come occupare le proprie ore libere, purché rientrino in uno schema istituzionale e in una socialità regolata e perciò rassicurante (per la famiglia). Quanti genitori rovesciano nei figli la propria ansia di prestazione e/o la propria paura del vuoto?
Non avete mai visto quelle madri e quei padri che nel pomeriggio si trascinano dietro per un braccio i loro figli per caricarli in auto e consegnarli puntuali in palestra o in piscina? Oppure aspettare il week end per abbandonarli qualche ora dalla maestra di pianoforte o al corso di karate? Che noia, anzi che stress! Magari fosse noia: quel bel momento di solitudine in cui si sbuffa, non si sa che cosa inventarsi e magari per inventarselo bisogna lavorare di fantasia e aguzzare l’ingegno. Invece no, è il proseguimento della routine quotidiana, anzi dello stress scolastico: la noia, per certi genitori, va evitata come il diavolo perché la nostra società ci insegna a essere attivi ed efficienti 24 ore su 24. Altro che il vivere al 5 per cento di montaliana memoria: bisogna vivere al centodieci per cento, e se possibile anche di più, ed è meglio che i ragazzi lo sappiano subito. E il gioco? Il gioco spontaneo, come rottura e capovolgimento di quella routine, divertimento puro, rovesciamento carnevalesco, ne viene fatalmente sacrificato.
Del resto, come fa notare Fabio Massimo Lo Verde, nel suo recente saggio Sociologia del tempo libero: «È attorno al lavoro e alla sua etica che si è organizzata la modernità e dunque il suo contrario ha assunto soprattutto un significato residuale». È così che il leisure facendosi fenomeno di consumo di massa ha prodotto un vero e proprio business, un settore merceologico ad hoc, per giovani, per adulti e per anziani, in costante crescita fino a configurare una colossale industria dell’entertainment capace di assicurare felicità, benessere, divertimento a orari fissi da segnarsi bene sull’agenda.
C’è un’apparente contraddizione di cui bisogna tener conto e che si può riassumere in una domanda: lo sviluppo riduce o fa aumentare il tempo libero? Ci sono i pessimisti e gli ottimisti. Chi considera il leisure come uno spazio confinato tra le attività di consumo, una specie di libertà obbligatoria, per usare le parole di una celebre canzone di Giorgio Gaber («si può occuparsi di spiritismo / si può far dibattiti sull’orgasmo / si può far politica alternativa / si può siamo pieni di iniziativa / si può...») dove tutto viene ironicamente ridotto a hobby per nevrotici e frustrati. Una specie di scarico nervoso indispensabile al dopo lavoro, come se l’organizzazione produttiva finisse per invadere anche il tempo dello svago. D’altra parte, mentre in passato i paletti tra lavoro fisico e «tempo perso » erano più netti, oggi la crescita del lavoro immateriale, nelle sue varie forme, rende quasi inavvertibile lo sconfinamento nell’ozio fino a farne un tempo apparentemente senza limiti imposti.
Bisogna vedere, insomma, se questo sconfinamento è davvero riposo o coazione dissipativa: a cominciare dalla ossessione compulsiva di occupare gli spazi interstiziali della propria giornata navigando in Internet, consultando i blog di riferimento, concedendosi allo zapping sincopato della tv. Senza dire che l’epoca della flessibilità e del precariato rischia di dilatare ad libitum i tempi morti, rendendo paradossalmente il «dolce far nulla» una fatica insopportabile, frustrante e alla fine depressiva. Perché, ha ragione il già citato Jerome K. Jerome, non c’è vero ozio senza lavoro. Comunque lo si veda - quale prolungamento dell’abitudine al consumo, spazio organizzato per finalità didattiche o pseudoformative, forma di intrattenimento dei tempi morti, sfogo o decompressione del lavoro immateriale, unica alternativa al vuoto di una quasi disoccupazione - l’ozio, nella dimensione umanistica di una rilassata e rilassante gratuità, sembrerebbe incompatibile con la nostra epoca, dove risulterebbe ridicolo fondare un’Accademia degli Oziosi, come avvenne a Napoli nel 1611.
Semmai, nell’era della velocità, dell’iperattività realizzativa e dei risultati da esibire al cospetto della società, anche il minimo vuoto può essere causa di immotivati sensi di colpa. Senza sapere che è solo il tempo vuoto a scongiurare l’oblio. Lo dice magnificamente Kundera nel libro citato: «C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». È più omeno ciò che pensa Virginia Woolf quando afferma che «nell’ozio la verità sommersa viene qualche volta a galla». Ha ragione, Virginia Woolf. Intanto perché - lo dice Domenico De Masi in un libro intervista con Paria Serena Palieri, l’«ozio creativo» è un girare apparentemente a vuoto, in attesa dell’idea, dell’estro, della voglia, della cosiddetta ispirazione che può produrre capolavori. «Oziare - aggiunge De Masi - non significa non pensare. Significa non pensare secondo regole obbligatorie, non avere l’assillo del cronometro, non seguire i percorsi angusti della razionalità, tutte quelle cose che Taylor e Ford si erano inventati per imbrigliare il lavoro esecutivo e renderlo efficiente».
Nella letteratura del Novecento è spesso la flânerie a far emergere la verità sommersa: il principe di Salina, nel Gattopardo, si dedicava all’astronomia. Ma l’ozio, nelle sue varie coloriture che vanno dall’accidia all’inerzia, dalla pigrizia colpevole alla fannulloneria deliberata, non è più solo prerogativa aristocratica. In una giornata di giugno l’agente pubblicitario Leopold Bloom vagabonda per le strade, per le librerie, per i locali e per i bordelli di Dublino costruendo via via la propria identità. L’inattività è molto più produttiva dell’azione. Basti pensare a Ulrich, l’uomo senza qualità (e inconcludente) di Musil, agli inetti di Svevo (autore di pagine, intitolate Il mio ozio, che dovevano appartenere a un romanzo rimasto incompiuto) perennemente a passeggio per la città, ai tempi perduti e ritrovati di Proust: dove la memoria, il sapore della vita e della morte emergono nel momento massimo del relax, inzuppando una madeleine in una tazza di tè. Per non dire di quel che affiora nell’ozio più paradossale, angoscioso e assurdo della letteratura, quello di Vladimiro ed Estragone, in Aspettando Godot.
Il tempo della vita viene annullato e la verità la si cerca altrove. Quando l’ozio aveva un valore esistenziale, anche i narratori ne tenevano conto e condivano i loro romanzi di dilatazioni, rallentamenti, digressioni e descrizioni, al punto che nel secolo scorso queste hanno preso il sopravvento fino a diventare il cuore della narrazione. Le cose importanti accadevano nei tempi morti anche in letteratura. Ma la fretta incalzante delle nostre «vite di corsa» (titolo di un libretto del sociologo Zygmunt Bauman) ha prodotto, negli ultimi anni, romanzi di corsa: il trionfo della trama non è altro che il riflesso (automatico?) narrativo di un mondo che si regge sulla velocità-tutta-cose, sull’iperattività (una sindrome di cui, non a caso, sempre più soffrono i nostri figli sin dall’infanzia). Non è ammesso ozio neanche nei romanzi: il genere - giallo, noir, eccetera - va subito al sodo, è il trionfo del ritmo, dell’azione senza tanti giri, senza perdite di tempo. È probabile che un nuovo Proust oggi scriverebbe «Alla ricerca del tempo perso perduto». Sì, il tempo perso perduto.
Paolo Di Stefano
L’autore
Paolo Di Stefano (Avola 1956) è inviato del «Corriere della Sera» e scrittore. Tra i suoi romanzi: «Baci da non ripetere» (Feltrinelli 1994), «Tutti contenti» (Feltrinelli 2003), «Nel cuore che ti cerca» (Rizzoli 2008). Un mese fa ha pubblicato «Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori» (Rizzoli)
Paolo Di Stefano (Avola 1956) è inviato del «Corriere della Sera» e scrittore. Tra i suoi romanzi: «Baci da non ripetere» (Feltrinelli 1994), «Tutti contenti» (Feltrinelli 2003), «Nel cuore che ti cerca» (Rizzoli 2008). Un mese fa ha pubblicato «Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori» (Rizzoli)
venerdì 9 luglio 2010
Perché il merito da noi non vince. Il Bel Paese del «familismo amorale»
Ognuno di noi è quello che riesce a diventare. È così da quando la rivoluzione francese e quella americana posero le basi di una cultura che «cambiò» un futuro fino allora preordinato dalla nascita. Il diritto al merito sembra una certezza acquisita nelle società occidentali mature; eppure, all’interno di questo percorso storico, c’è anche un Paese come l’Italia, che vive in cronica «asfissia» di merito. Cosa denunciata da molti e oggetto di lamentele ricorrenti: la fuga dei cervelli (ora si chiama, più modernamente, brain drain, ma è la stessa storia), l’innovazione che non viene premiata, l’università vecchia e governata da baroni, le scarse opportunità di lavoro, la mediocrità dilagante. Come sintetizza Roger Abravanel in Meritocrazia (Garzanti editore): «La società italiana è profondamente disuguale e statica. Il destino dei figli è legato a quello dei genitori; molto di più di quanto avvenga in altri Paesi. La disuguaglianza fra ricchi e poveri continua ineluttabile». Ma se il merito inteso come risultato di un’alchimia riuscita fra talento e impegno (così lo definì alla fine degli anni Cinquanta il sociologo inglese Michael Young, inventore del termine meritocrazia) si è affermato nelle società anglosassoni, nei Paesi del Nord Europa, in Francia e in Germania, resta un sogno nel cassetto (di pochi) nel nostro Paese. Nonostante che la sua negazione, nelle grandi scelte sociali come nella vita quotidiana, sembri a molti (quasi a tutti) la causa della decadenza italiana. Ovvero della sua scarsa capacità di ideazione, delle misere opportunità di formazione e di lavoro; alla fine, della infelicità stessa degli italiani, visto che la strada sbarrata al merito genera povertà, incertezza del futuro, pessimismo, bassa fecondità, poca voglia di vivere.
Una così ostinata assenza della cultura del merito, impenetrabile ad ogni stimolo venga da un altrove, regge alla crisi e alle critiche. Perché? Probabilmente quell’assenza è riempita da riferimenti culturali differenti, altrettanto strutturati e a loro modo vincenti, una vera e propria «cultura del demerito». Basata in primo luogo sull’enorme forza della famiglia in Italia e sulla sua capacità di far prevalere la logica dell’appartenenza che detta regole spesso in contrasto con quelle della comunità, di cui cerca di limitare riconoscimenti, sia economici sia di prestigio. E il talento senza riconoscimento non vale. Come sottolinea Cristina Palumbo Crocco in Meritocrazia (Rubbettino editore): «Un talento che si esplica senza esercizio e applicazione sembra perdere il suo reale valore. Ad esempio, si può cantare sotto la doccia per diletto. Tuttavia, si merita di essere definito un cantante se si corrisponde a determinati criteri di valutazione sociale. Il talento di per sé è la possibilità che un individuo ha per caratterizzarsi, per esprimersi. Ma per avere merito occorre competere nell’agone sociale, misurarsi con le sfide del proprio tempo».
Sfide bloccate dal familismo che diventa «amorale», per Abravanel, quando «gli individui tentano di massimizzare solamente i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo famigliare». Nucleo famigliare che è anche cordata, appartenenza ad un’isola di potere, come denuncia Nicola Gardini, approdato ad una cattedra di Letteratura italiana all’Università di Oxford dopo un percorso ad ostacoli frustrante nell’università italiana, in Baroni (Serie bianca Feltrinelli): «Preoccupati di promuovere solo le loro cause personali, incuranti dello sviluppo del sapere e delle coscienze, i baroni provocano ogni giorno, nella più arrogante certezza dell’impunità, danni incalcolabili al patrimonio umano e intellettuale dell’intero Paese».
Ma il familismo prospera e regge nel tempo anche perché rappresenta una rete di protezione, un paracadute, contro una «sana» competizione che nessuno vuole perché viene considerata utopistica, irrealizzabile. Così come sembra impossibile ridurre le rendite di posizione e il potere delle caste, anche se pare giusto denunciarle (il successo della Casta di Gian Antonio Stella e di Sergio Rizzo è una buona cartina di tornasole di questo comune sentire). «Non dimentichiamo che a questo immobilismo contribuisce la nostra tradizione accademica che conserva ancora oggi un concetto di cultura elitario: non crede nel confronto con il grande pubblico, e di conseguenza non lo vuole, a differenza di quanto avviene nel mondo anglosassone» aggiunge Luca Formenton, presidente del gruppo editoriale il Saggiatore, e vicepresidente della fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. «Difficilmente - prosegue - un editore riesce in Italia a semplificare, a tradurre in un linguaggio comprensibile a tutti, i volumi prodotti da storici o letterati. Il "sapere" deve restare un privilegio».
Sta di fatto che in Italia regna la sfiducia del merito. E nessuno sembra riuscire ad essere diverso. Perché? C’è senz’altro la paura di restare fuori, di perdere anche quel minimo di garantito che la nostra società, grande alfiere della mediocrità come unico punto di arrivo, sembra distribuire, alla fine, a tutti, o per lo meno, a molti. Basta accontentarsi e non aspirare al meglio. Una paura che ha origini complesse e antiche: qualcuno è convinto che affondi le radici addirittura nelle corporazioni medievali con i loro monopoli di arti e mestieri; altri sostengono che la cultura cattolica abbia tradizionalmente enfatizzato i valori di solidarietà a scapito dell’individualità e del merito, più vicini al mondo anglosassone.
Giovanni Floris, in Mal di merito (Rizzoli editore) mette in evidenza un altro elemento: «La tradizione culturale di matrice socialista e comunista, fortemente egualitaria, tende a leggere i processi di selezione come meccanismi di esclusione sociale, sottolineando come chi gode di una situazione economica di privilegio sia fatalmente favorito rispetto a chi proviene da situazioni di svantaggio». Non a caso i vari sondaggi condotti, anche da enti internazionali, confermano che per gli italiani il valore più importante per arrivare ad una certa posizione è ancora oggi la rete di conoscenze e non il talento, l’impegno, la capacità professionale.
D’altro canto qualche «seme» di merito, come lo chiama Abravanel, c’è anche in Italia. Un esempio per tutti la scuola Normale di Pisa, che dalla sua nascita, voluta nel 1810 da Napoleone, ad oggi mantiene «miracolosamente» la capacità di premiare i migliori. Con quale formula? Spiega il direttore, Salvatore Settis, archeologo, che di merito ha parlato in Quale eccellenza? (Laterza editore): «Se dovessi rispondere con una parola, direi selezione. L’accesso alla Normale è condizionato da esami scritti e orali approfonditi. E può succedere che gli ammessi non coprano tutta la disponibilità di posti. È accaduto anche alla penultima selezione: sono rimasti vacanti 4 posti su 60, nonostante avessero partecipato più di mille studenti». E i docenti? Come è possibile sceglierli senza essere condizionati dai vizi del sistema universitario italiano? «Li prendiamo "dal mercato", evitando i concorsi, perché si tratta di cattedre per trasferimento - risponde Settis -. Quando vogliamo coprire un posto, il docente viene scelto in base a lettere di referenze di colleghi di tutto il mondo, pubblicazioni, ricerche». Un altro pianeta? No, avviene in Italia...
Franca Porciani
Vivi oggi
Fra speranza e affanni, fra timori e rabbia, immagina che l'albanese di ogni giorno sia l'ultima per te: le ore che seguiranno e non speravi più saranno tutte un incanto.
Orazio Flacco
Orazio Flacco
mercoledì 7 luglio 2010
Modello Canada
Il cane da guardia delle banche del Canada è una signora bionda, con gli occhi azzurri e un bel sorriso. Quando ti guarda negli occhi ha un'aria così decisa che chiunque capisce che è meglio non contraddirla o raccontarle qualche storia poco credibile. Dal 1999 Julie Dickson lavora nell'ufficio del Superintendent of Financial Institutions, l'ente che controlla le attività delle banche, e dal 2007 ne è il numero uno. È lei che interviene ogni volta che una banca fa un'acquisizione, è lei che controlla se l'esposizione debitoria si mantiene nei livelli della legge che regola il rapporto capitali-prestiti, è lei che analizza se una banca sta giocando pericolosamente con strumenti finanziari ad alto rischio.
Julie Dickson è di fatto la bandiera del Canada in fatto di prudenza e responsabilità di fronte ai premier e ai ministri delle Finanze del G8 e del G20 giunti ad Huntsville, sul turistico lago Muskoka, e a Toronto. Per dire che le regole che i canadesi si sono dati a metà degli anni Novanta hanno impedito che la recessione cominciata nel 2008 e non ancora del tutto sconfitta mettesse in ginocchio il sistema bancario del Paese. 'Molta parte della crisi che ha colpito i paesi del G8 è derivata dalla qualità dei capitali in circolazione e dai controlli', dice la Dickson: 'E mentre nel resto del mondo i controllori non avevano il potere di intervenire, qui abbiamo sempre potuto verificare il comportamento delle banche e correggere quello che non andava'.
Le regole che ci sono e che sono fatte osservare sono il ritornello che ha accompagnato il periodo precedente all'apertura del G8 e del G20. E sono quelle che, a leggere una lettera del primo ministro canadese, il conservatore Stephen Harper, obbligano i grandi del Mondo a evitare 'l'errore di non trovare soluzioni'. Il ministro delle Finanze James Flaherty rivendica come in Canada 'neanche un soldo proveniente dalle tasse dei cittadini è stato dato alle banche per aiutarle a uscire dai guai'. L'ex ministro delle Finanze di un governo liberale John Manley, oggi a capo di una potente associazione che riunisce i Ceo delle grandi aziende canadesi e ha organizzato in contemporanea con quello politico un G20 del business, sottolinea come il governo per combattere la recessione 'ha messo in campo un piano di stimolo per l'economia che vale il 2,5 per cento del prodotto interno lordo senza che un soldo fosse dato alle banche'. Ci sono gli uomini al vertice della Banca centrale del Canada che ripetono con un sorriso compiaciuto che il loro modello 'è il contrario di ciò che gli Stati Uniti hanno fatto'.
Nei palazzi del potere della piccola, pulita e ordinata capitale Ottawa brucia ancora come una ferita aperta l'esperienza della metà degli anni Novanta, quando il Paese fu colpito duramente da una recessione economica. Chi allora era al potere, si trovò davanti il dinosauro famelico e arrabbiato di un debito pubblico pari al 67 per cento del prodotto interno lordo e il 35 per cento delle entrate solo per ripagarlo. Tra liberali, allora al potere, e conservatori ci fu un intenso dibattito sul che fare. Ci furono proposte diverse, ma entrambi gli schieramenti (a livello nazionale i due partiti maggiori sono di indole centrista e a loro si aggiungono l'Ndp di ispirazione socialdemocratica, il Blocco del Quebec che governa nell'omonima provincia e una formazione verde che vale tra i 3 e i 4 punti percentuali) convennero sul fatto che i nemici da combattere erano debito e deficit. Ricorda così i termini politico-filosofici della discussione di allora Jocelyn Bourgon, presidentessa emerita della Canada School of Public Service: 'Con debito e deficit fuori controllo in pericolo c'era una sola cosa, la sovranità del Canada. E in una situazione del genere, la qualità e l'entità dei tagli da fare dipendono esclusivamente da quanto uno tiene al proprio Paese'.
La scelta fu non il bisturi, ma l'accetta. Ci furono nove mesi di discussione per preparare un piano in cui ognuno dei ministri aveva una precisa responsabilità e quando fu portato al voto e approvato non ci furono prese di distanze, giochetti a smarcarsi, primi della classe che dicevano di contare più degli altri e di voler pagare qualcosa in meno. In termini reali ci fu un taglio del 10 per cento della spesa pubblica, con l'eccezione del pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico in modo da non esporre il Paese a una crisi internazionale (come avvenne nello stesso periodo in Messico con la crisi della valuta locale). Nulla sfuggì ai tagli, compreso il piano nazionale delle pensioni, uno dei pilastri del welfare canadese: furono ridotti gli assegni e aumentati i contributi. 'Ci fu una presa di coscienza sul rischio che a pagare sarebbero state solo le generazioni future', spiega David Denison, amministratore delegato della società di investimento del Canada Pension Fund: 'I sacrifici furono possibili con l'accordo pressoché totale dei cittadini sulla base di un principio che non si prestava ad equivoci: da quel momento in poi i soldi delle pensioni dei canadesi sarebbero sempre state lontano dalle mani della politica e del governo. Ed ogni scelta legata unicamente a mantenere i conti in equilibrio'.
Risultato? Dieci anni di seguito, dalla fine degli anni Novanta a tutto il primo decennio del Ventunesimo secolo, di surplus di bilancio, denaro in cassaforte per sviluppare il Paese, ammodernare le infrastrutture, finanziare il welfare che in Canada prevede una sanità pubblica di qualità, scuole e università di livello internazionale e investimenti in ricerca e sviluppo che pongono il Canada al nono posto nel mondo (della somma totale, più di 25 miliardi di dollari, stanziata nel 2010, il 54 per cento va alle imprese e il 35 all'educazione). Così, salute finanziaria e regole chiare hanno attutito l'impatto della crisi del 2008. Spiega Gordon Nixon, l'amministratore delegato della Royal Bank of Canada, il più grande dei sei istituti di credito di portata nazionale: 'Negli ultimi 15 anni c'è stato un accordo tra industria, politica, regolatori e banca centrale sul modo di fare business che ha evitato esagerazioni, storture e squilibri'. A guardare la fotografia di oggi, si capisce perché i canadesi si sono presentati al G8 e al G20 con l'aria dei primi della classe: la contrazione più bassa del Pil fra tutti i paesi del G7 con un meno 3,4 (Usa meno 3,8, Italia meno 6,8), la ripresa più forte nel 2010 e 2011 con il Pil che dovrebbe segnare più 3,6 e più 3,2, il debito pubblico più basso che arriverà nel 2015 quasi al 30 per cento del Pil (Usa oltre l'80 per cento, Italia oltre il 120 per cento), il ritorno sempre nel 2015 al surplus di bilancio che vorrà dire rimettere il Paese, unico nel G7, al riparo dalle prossime turbolenze. Un solo dato sembra rendere più sfuocata la fotografia: anche se il governo sostiene che il 75 per cento dei posti di lavoro persi sono stati già recuperati, la disoccupazione continua ad essere troppo alta con un tasso superiore all'8 per cento.
In Canada, però, dimenticano due elementi chiave del loro sviluppo e che sono indipendenti dalle scelte politiche e sociali e che attengono a quell'imprevedibile evento della vita che si chiama fortuna: il Paese conta poco più di 34 milioni di abitanti che vivono su un territorio che è 33 volte l'Italia, dotato di ricchezze naturali immense. In più i canadesi hanno al confine la superpotenza Stati Uniti la quale, tra mille contraddizioni, è sempre stata la locomotiva che ha trainato la loro economia visto che il 73 per cento delle esportazioni vanno proprio verso gli Usa mentre solo il 9 per cento prende la via dell'Europa. Il rapporto tra Ottawa e Washington deve essere per definizione buono. I canadesi hanno sempre difeso il loro territorio dall'invadenza economica americana: per esempio, fino all'entrata in vigore del Nafta (patto di libera circolazione delle merci tra Usa, Canada e Messico), se un'azienda americana voleva vendere i suoi prodotti a nord dei grandi laghi doveva installarvi uno stabilimento; Ottawa da parte sua ha resistito al canto della sirena di Wall Street, che invitava a smontare regole e controlli, senza perdere in competitività visto che Toronto è la terza piazza finanziaria del Nord America dopo New York e Chicago.
I canadesi guardano con ammirazione agli Stati Uniti come a un fratello maggiore di successo, ma hanno capito che quello sviluppo può avere costi sociali troppo elevati che loro non hanno nessuna voglia di affrontare. Per questo hanno costruito una politica dell'immigrazione per la quale il 60 per cento dei nuovi canadesi ha una laurea e trova porte aperte perché, come spiega il responsabile dell'agenzia Invest Toronto, Renato Discenza, 'il dibattito non si è mai svolto sul filo della contrapposizione noi canadesi e loro stranieri'. È stato messo a punto anche un sistema di protezione che i conservatori made in Usa prendono a bersaglio tacciando Ottawa di socialismo ogni volta che a Washington vengono avanzate proposte di riforma sociale, come ad esempio la riforma sanitaria che Barack Obama è riuscito a far approvare con la dura opposizione dei repubblicani. Come reagiscono in Canada? 'Quando mi danno del socialista lo prendo solo e sempre come un complimento', è la risposta ironica di David Miller, il sindaco di Toronto eletto senza bandiere di partito, ma al quale viene attribuita una vicinanza al New Democratic Party e che governa la città a colpi di voti all'unanimità specialmente su grandi questioni come sviluppo e ambiente.
Adesso il Canada ha aperto le sue porte ai grandi del Mondo e vuole mostrarsi come una società ordinata, che cresce e funziona. Ed anche le polemiche sui costi del G8 e del G20 fatte dall'opposizione sono state misurate e improntate al fair play politico, nonostante il conto finale superi il miliardo di dollari. Con la sola eccezione della protesta fatta dal leader dell'opposizione Michael Ignatieff per i 57 mila dollari spesi per costruire un finto scenario del lago Muskoka, uno dei posti più belli del Canada, dove andranno solo i leader del G8. Un artifizio teatrale da mostrare ai leader del G20 che non potranno vedere l'originale e si riuniranno solo a Toronto.
di Antonio Carlucci
sabato 3 luglio 2010
E' qui la felicità
Chiedetelo ai turisti ipnotizzati dalle canzoni struggenti dei mariachi o dai ritmi travolgenti di merengue e di calipso. Agli italiani che ogni anno ripartono sedotti da Cancun, o che da Puerto Escondido non sono più tornati. A chi arriva da mezzo mondo, incapace di spiegare l'incantesimo della Selva del Chiapas e della Ruta Maya. E da tutti avrete la conferma: la felicità si incrocia tra il 31 parallelo nord e il 13 parallelo sud.
Non è solo un'impressione da stranieri: il Messico è davvero il Paese più felice del mondo. Lo dichiarano i messicani stessi, in un'indagine intitolata 'Global Happiness' che Coca-Cola ha appena realizzato insieme con l'Università Complutense di Madrid: una ricerca su 16 nazioni, dall'Italia alla Cina, dal Sudafrica alle Filippine, per indagare i livelli di felicità nelle diverse culture.
Per stilare la classifica dei popoli più felici, i ricercatori hanno elaborato un Happiness Index, a partire da una scala di valori sviluppata dallo psicologo americano Ed Diener: un indice, da 1 a 100, risultante dalla somma di indicatori come la soddisfazione personale, l'ottimismo e l'energia, il senso di orgoglio, di utilità, le relazioni sociali, ma anche le percezioni negative e le emozioni peggiori indotte da una società. In base a questo indice, i livelli più alti di felicità si riscontrano in quel cocktail multietnico che compone la popolazione messicana: con un punteggio di 87,7, la felicità sembra pervaderla tutta, senza distinzioni di sesso, di età, di posizione sociale. A confronto coi latinos, crolla, insomma, la proverbiale 'hygge' dei danesi: quel sentimento di convivialità e di soddisfazione sociale che ha fatto per anni piazzare la Danimarca al primo posto nelle classifiche sulla qualità della vita. Ed è una sorpresa anche la seconda posizione dei filippini, con un punteggio di 86,4. Al terzo posto si piazzano gli argentini e i sudafricani (entrambi con 80 punti). L'Italia risulta a metà della classifica (76), chiusa da Bulgaria (73,9) e Francia (72,3): la nazione più infelice in assoluto. Fonti di felicità? Per tutti, i legami profondi con la famiglia e una gratificante relazione con un partner. A seguire i soldi, che, fuori scena in altre indagini, tornano qui disinvoltamente a esercitare il loro fascino. E se il Paese nel quale sembrano contare di più è la Russia, anche gli italiani si fanno notare: per uno su tre degli intervistati, vincere alla lotteria sarebbe in assoluto la più grande fonte di felicità. Ma c'è anche la possibilità di viaggiare, tra le situazioni che danno felicità. E di fare del bene agli altri: il volontariato è visto come occasione di gioia e di benessere dal 17 per cento degli italiani. 'Ciò che di gran lunga rende felici le persone è stare insieme agli altri', spiega Richard Stevens, psicologo sociale e tra i guru internazionali del pensiero sulla felicità: 'Il denaro è importante, ma non rende le persone felici. Soprattutto, superata una certa soglia di reddito, diventa piuttosto irrilevante. Senza relazioni sociali, senza l'amore, la famiglia e le amicizie, la maggior parte delle persone non sarebbe affatto felice'.
'A dispetto di fenomeni forti di virtualità, questa ricerca ribadisce l'importanza dei legami fisici, dei momenti di convivialità, del piacere di stare insieme', aggiunge Sara Ranzini, direttore Comunicazione di Coca-Cola Italia, che annuncia per il 20 e 21 giugno una tappa a Roma di Expedition206 (www.expedition206.com), progetto complementare di Coca-Cola con il quale tre giovani 'ambasciatori della felicità' stanno girando il mondo per scoprire cosa rende davvero felice la gente: 'Basta guardare ai momenti migliori della giornata, a livello globale: nel 39 per cento dei casi la sera, quando ci si ritrova con amici e parenti; poi quando si mangia; mentre si chiacchiera'.
'Dipende però dai contesti culturali', obietta l'antropologo Duccio Canestrini: 'C'è una socialità che è ingerenza, controllo, che genera stress e induce a mascherarsi dietro avatar. E la famiglia è, in casi neanche troppo rari, fonte di dissidi e di infelicità. Evitiamo di incorrere nell'imperativo statunitense della felicità a tutti i costi'.
Su una cosa Canestrini non ha dubbi: esistono davvero popoli con una propensione alla felicità più spiccata di altri. 'Il Sudamerica ha una disposizione d'animo più incline all'ironia e alla goliardia. Se Maya e Aztechi, cupi ed angosciati, placavano le loro ansie con sacrifici umani, i latinos sono generalmente allegri, facili al sorriso. Un classico dell'antropologia è un libro di Jacques Lizot sugli Yanomami del Brasile: che passavano le serate a raccontarsi storielle e a sbellicarsi dalle risate, tanto da cadere dalle amache. E anche ai Taino, civiltà precolombiana decimata dai conquistatori, la letteratura attribuisce doti di grande ironia e capacità di godersi la vita. Al contrario, i Vedda, aborigeni dello Sri Lanka, sono stati tradizionalmente considerati un popolo che non sapeva sorridere'. E che dire dei sorrisi indiani, misteriosi emblemi di un modo di essere, più che di forme di avere: 'Forse non è felicità, ma è un distacco dalle cose della vita che le somiglia molto', continua Canestrini: 'Felicità è anche sapersi accontentare: avere un salario adeguato, spedire lontano dei soldi con la speranza che la vita futura possa essere migliore per sé e per la propria famiglia, genera un atteggiamento positivo: in questo senso comprendo bene la seconda posizione in classifica dei filippini'.
Ridono, si salutano, scherzano, fanno le dog sitter e le baby sitter, le custodi e le colf, portano una ventata di ottimismo nelle case in cui lavorano: le domestiche filippine sono da anni oggetto di osservazione di sociologi, psicologi ed economisti, se non altro per dimostrare che la gente non è più contenta quando è più ricca. 'Sono felice perché anche questo mese ho spedito a casa dei soldi che permetteranno a mia sorella di studiare e ai miei quattro fratelli di aiutare i loro bambini', dice Themz, che lavora a Roma, e viene da Batangas. E il suo è un discorso analogo a quello di tutte: il lavoro, la solitudine, la lontananza mitigati dal senso di comunità, da una causa eroica. Non a caso, tra di loro, e nelle directory on line che si intrecciano in Rete, si chiamano 'bayani': eroine. E non è una sorpresa assoluta: sul sito della società americana di ricerche Gallup si monitora costantemente la felicità dei popoli. Il saggio del giornalista Donato Speroni (in uscita per Cooper), 'I numeri della felicità. Dal Pil alla misura del benessere', evidenzia la felicità dei Paesi latini: in Colombia, cultura e tolleranza guidano l'ascesa di un appagamento sociale, nonostante criminalità e insicurezza. E se il reddito pro capite è basso, se il tasso di analfabetismo è pari al 94 per cento, turismo in crescita e sviluppo economico stanno alzando i livelli di spensieratezza e soddisfazione. Nettamente più infelici si confermano i popoli baltici. Dell'Europa colpisce il regresso: la Spagna perde posizioni, la Francia precipita.
'È relazionale il cuore del problema', sostiene l'economista Stefano Bartolini nel recente 'Manifesto per la felicità' (Donzelli): i redditi sono cresciuti, ma non in misura tale da compensare il deterioramento delle relazioni familiari. 'Aumento della solitudine, della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, dell'instabilità delle famiglie, delle fratture generazionali', tutto ciò allontana la felicità. E gli italiani sarebbero tra i più scettici sulla possibilità di cambiare le cose. Ma si può rimediare? Mentre la felicità diventa obiettivo dell'azione politica, Bartolini suggerisce di cominciare a 'cambiare l'anima degli spazi urbani, per orientarli a fini relazionali': sarà un caso, ma proprio a Città del Messico ('el Monstruo'), l'amministrazione ha investito in spiagge urbane, piste ciclabili, nuovi spazi di aggregazione. E il movimento per le città felici si muove ormai in tutto il mondo: da 'Forbes' l'ultima classifica 'The World's Happiest Cities' mette al top Rio de Janeiro.
'Nella comunità c'è la bussola della vita. Senza comunità si smarrisce la direzione', ribadisce Luciano Stella, ideatore del festival L'arte della felicità (www.artedellafelicita.com), incontri e conversazioni sul tema, da seu anni a Napoli: 'C'è in questi immigrati una capacità di intravedere un'evoluzione sociale e personale. C'è senso del futuro: i sacrifici estendono le proprie possibilità. La condizione che oscura gli occidentali è non capire che la nostra gioia è correlata agli altri. Ed è il risultato di un alto 'artigianato' personale: si può essere felici solo a patto di stare nel flusso della vita, di accettare che la felicità non è mai assoluta o per sempre. E ha bisogno di uno sguardo largo, di una prospettiva decentrata: in questo modo, la mia infelicità non sarà mai schiacciante'. Certo è che dopo anni di slogan e di pressioni su una felicità a tutti i costi, sembra arrivato il tempo di ridefinirne la nozione. Di lanciarne una nuova versione, più ancorata a valori spirituali o all'impegno sociale, meno a obiettivi materiali. Ed è il sempre invocato Buthan, che ha sostituito al Pil la Gross National Happiness, la Felicità nazionale lorda, a indicarne la traiettoria. Lo ha appena spiegato il primo ministro del minuscolo Stato himalayano Jigmi Y. Thinley, al Festival dell'Economia di Trento: 'Volete una nazione felice? La felicità poggia su quattro parametri: sviluppo equo, sostenibilità ambientale, promozione della cultura e delle relazioni, buongoverno'. È la felicità 2.0.
di Sabina Minardi
venerdì 2 luglio 2010
Sulle decisioni
Molti non sanno esattamente cosa vogliono e neppure dove stanno andando. In questi casi e' meglio prenderne atto, capire che si può essere attratti da modelli differenti, ma che tutto ciò ci rende più responsabili. Le decisioni verranno, magari non verranno prese dalla persona ma dalla sua anima. In tante occasioni sa decidere meglio. Più "saggio" abbandonarsi all'ignoto e lasciarsi guidare da esso per comprendere come procedere.
Quanti incontri misteriosi si fanno dietro l'angolo ?
Quanti incontri misteriosi si fanno dietro l'angolo ?
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