mercoledì 31 dicembre 2008

Una storia… come tante

Ripensando oggi alla mia vita, alle mie esperienze e anche ai miei errori, mi rendo conto che le scelte fatte, i pensieri, i sentimenti che provo sono il risultato di una sedimentazione di conoscenze accumulate, che ritornano e riemergono restituendomi consapevolezza nelle decisioni del momento.

Nessuno mi ha mai regalato nulla, tutto quello che ho, quello che possiedo, quello che sono, è frutto unicamente della mia volontà. I nonni avevano origini che non si possono nemmeno definire contadine, in quanto lavoravano la terra di altri – quando era data loro questa possibilità – e hanno continuamente sofferto la fame. Gente dell’Appennino tosco-romagnolo che, durante il fascismo, non prese né la tessera e nemmeno aderì idealmente in qualche modo al regime. Come ad esempio il padre di mia madre che durante la prima guerra mondiale fu un “ardito” più volte decorato e analfabeta. Nonostante avesse sette figli (di cui sei femmine) non prese mai la tessera del PNF.

Sono orgoglioso di queste origini, persone legate alla terra e alle cose veramente importanti, gente che ha lottato per la loro sopravvivenza e dei propri figli. Penso che qualcosa sia stato trasmesso anche a me: nell’anima, nel pensiero, nel sangue. Del pari i miei genitori erano dei semplici, ma di un’onestà e di una voglia di fare incredibile. Grande fede socialista respirata quotidianamente, nell’educazione, negli atteggiamenti, nelle letture. Tutte cose che ti rimangono dentro, non ti abbandonano mai e riemergono, prima o dopo. Quando si viene dal popolo si sviluppa un carattere che ti porta ad avere una tipica esperienza interiore che ritorna sempre.

Ci sono fatti nella mia vita che non dimentico e che sono stati in qualche modo i propulsori motivazionali delle mie azioni e delle mie scelte. Ricordo il periodo delle elementari quando dovetti constatare subito la “differenza di classe” – sociale intendo – con la mia compagna di banco che, essendo allora la figlia di un noto e affermato medico, non era mai dico mai, responsabile di nulla. Naturalmente le colpe erano sempre mie. Oppure alle scuole medie quando praticando nuoto agonistico esattamente come una mia compagna – figlia di una professoressa di liceo – venivo però messo all’indice dall’insegnate di matematica in quanto l'attività fisica non era compatibile, secondo lei, con lo studio. La regola era però valida solo per me…  Ho sempre sofferto queste situazioni.

Nulla mi è piovuto dal cielo o arrivato da altri. Ho sempre lottato per avere qualcosa o per dimostrare quel che valevo. Nella vita privata, in quella professionale e in quella sportiva. Non ho mai mollato, presenza continua, molta fatica, volontà ferrea, lealtà assoluta e grande dedizione. Tutte le scelte compiute nella vita sono fatte perché ci credo e questo mi permette di impegnarmi a fondo per ottenere risultati. Anche l’onestà di mio padre, non solo intellettuale, nel tempo mi è servita per essere come sono.

La volontà è la mia arma più forte. Ci sono persone che non sono disponibili a combattere per sempre, per tutta una vita. Non so cosa la vita mi riserverà nei prossimi anni, ma so certamente in quale modo intendo navigarla.

domenica 28 dicembre 2008

Scegliere il ristorante in periodo di crisi

Mai come durante le feste, in un momento difficile come questo per tante famiglie, la questione dei prezzi al ristorante torna all’ordine del giorno. Facendo parte dell’Accademia Italiana della Cucina, un Istituto Culturale che ha rapporti con ben quattro Ministeri – Politiche Agricole, Esteri, Attività Produttive e Cultura - abbiamo tra i nostri compiti anche quello di valutare l’aspetto «prezzi» da un punto d’osservazione altamente privilegiato. Infatti il continuo, attento e del tutto indipendente monitoraggio della tavola pubblica ci consente di avere in ogni momento il polso della situazione fino al singolo territorio. L’Accademia, e personalmente condivido pienamente, è preoccupata perché i prezzi in ascesa dei ristoranti, oltre che di una naturale rarefazione della clientela, sono la causa prima della disaffezione dei giovani, attratti sempre più da quelle forme alternative e surrettizie di ristorazione pubblica: offerte senza dubbio più economiche, ma spesso di scarsa qualità. Con un grave pregiudizio in aggiunta: non permettono ai giovani di affinare il loro senso del gusto, di apprezzare i sapori tradizionali, di godere di una tranquilla convivialità. Anche in questo modo si disgrega quel senso di buona cucina familiare legata alla tradizione che è alla base del gusto e del piacere della convivialità, demitizzando la cucina come atto d’amore. Certamente anche la ristorazione locale si trova a dover far fronte al momento di crisi – alcune mie fonti segnalano qualche difficoltà perfino per alcune pizzerie – aggravati da un aumento dei costi delle materie prime, da una più accentuata fiscalizzazione e da maggiori oneri sociali. Tutto questo non è comunque sufficiente a giustificare l’ascesa continua dei prezzi. Invito a riflettere su tre evidenti aspetti. Il primo sta nell’errore compiuto dai ristoratori nel cercare di compensare il calo delle presenze aumentando i prezzi, così il rapporto qualità-prezzo, che già in molti casi non era ottimo, è peggiorato. Il risultato evidente è che gli operatori hanno semplicemente “sostituito” i prezzi in lire con quelli in euro. Il secondo punto è questo: in un ristorante è soprattutto il costo del servizio – leggi soprattutto personale - che incide, non tanto la materia prima anche se è aumentata. Frequentando moltissimi ristoranti purtroppo non riscontro sempre tutta questa eccellenza nel servizio, nella cura dell’ambiente e della tavola, nello stile e nell’empatia dei camerieri. Naturalmente non intendo generalizzare, ma la tendenza è questa e trovo ancora più grave che la maggior parte dei clienti ormai non ci faccia più caso e accetti questo stato delle cose. Bisognerebbe invece diventare più attenti, esigere ciò che è corretto per certe cifre che si pagano (oltre alla qualità del cibo proposto, ovviamente). Paradossalmente oggi si è ridotta molto la forbice tra i ristoranti di alto livello - che non possono aumentare i prezzi più di tanto per non rischiare di avere il locale vuoto - e che offrono qualità sia nei prodotti sia nel servizio e quelli di livello inferiore che non sono paragonabili ai primi. Così come se confrontiamo esercizi di ristorazione di medio livello, è evidente in molti casi come passi pochissima differenza - nel conto - tra un ristorante e una pizzeria/ristorante (pongo l’accento ancora la diversità di servizio). Il terzo e ultimo punto, volendo essere sintetici, è il “ricarico” sui vini che sta raggiungendo spesso vette incredibili anche per etichette modeste. Questa politica sta portando a un calo dei consumi di vino nei ristoranti - mentre sta aumentando la vendita nei supermercati - e oggi molti esercizi stanno correndo ai ripari proponendo anche il singolo calice. Tornando all’attuale periodo di feste e volendo dare qualche indicazione generica sul come scegliere una proposta di menù per un pranzo - o una cena – completa, suggerirei di valutare innanzi tutto i piatti proposti - concentratevi sulla qualità non sul numero, oggi non si mangia più per necessità - se vi sono proposti piatti della tradizione, magari un po’ innovati, controllate se i prezzi comprendono le bevande (diversamente possono esserci sorprese sul conto), infine giudicate il locale e l’ambiente. Se non parliamo di ristoranti con stelle o con voti di massima eccellenza secondo le varie guide, ritengo che un prezzo onesto dovrebbe variare dai 30 ai 40/45 euro (bevande incluse naturalmente).
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 28 dicembre 2008

Io, società a responsabilità illimitata. Strumenti per fare la grande differenza

Rimango sempre stupito dalla perfetta sovrapposizione del mio pensiero e interpretazione della vita, con quello di Sebastiano. Ho letto tutti i suoi libri, ma ho trovato questa ultima sua fatica particolarmente interessante.

Il volume è una vera e propria "cassetta degli attrezzi" utile per il proprio percorso professionale - di qualunque tipo sia - da riconsultare spesso, grazie anche allo stile di scrittura veloce e sintetico.

Tutti i capitoli, ma cito in particolare quelli sul "Personal Branding" e sulla Leadership, sono un concentrato di valutazioni e riflessioni preziose per chi "ha orecchie per ascoltare" e voglia di rifelettere su se stesso.

Ho notato con piacere una ulteriore maturità nella scrittura e consiglio il libro sia per la lettura, sia come oggetto di regalo. Sarebbe particolarmente inidcato, il condizionale è d'obbligo in questo caso, per conoscenti o amici un poco presuntuosi e/o pieni di sè. Potrebbe essere d'aiuto... ma io sono un'inguaribile ottimista...

lunedì 22 dicembre 2008

La Politica come Professione


Tre qualità possono dirsi sommamente decisive per l'uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una "causa" (Sache), al dio o al diavolo che la dirige. [...] Essa non crea l'uomo politico se non mettendolo al servizio di una "causa" e quindi facendo della responsabilità, nei confronti appunto di questa causa, la guida determinante dell'azione. Donde la necessità della lungimiranza - attitudine psichica decisiva per l'uomo politico - ossia della capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e raccoglimento interiore: come dire, cioè, la distanza tra le cose e gli uomini.
La "mancanza di distacco" (Distanzlosigkeit), semplicemente come tale, è uno dei peccati mortali di qualsiasi uomo politico e una di quelle qualità che, coltivate nella giovane generazione dei nostri intellettuali, li condannerà all'inettitudine politica. E il problema è appunto questo: come possono coabitare in un medesimo animo l'ardente passione e la fredda lungimiranza? La politica si fa col cervello e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell'animo. E tuttavia la dedizione alla politica, se questa non dev'essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel fermo controllo del proprio animo che caratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilettanti della politica che semplicemente "si agitano a vuoto", è solo possibile attraverso l'abitudine alla distanza in tutti i sensi della parola.
La "forza" di una "personalità" politica dipende in primissimo luogo dal possesso di doti siffatte. L'uomo politico deve perciò soverchiare dentro di sé, giorno per giorno e ora per ora, un nemico assai frequente e ben troppo umano: la vanità comune a tutti, nemica mortale di ogni effettiva dedizione e di ogni "distanza", e, in questo caso, del distacco rispetto a se medesimi. La vanità è un difetto assai diffuso, e forse nessuno ne va del tutto esente. Negli ambienti accademici e universitari è una specie di malattia professionale. [...] Giacché si danno in definitiva due sole specie di peccati mortali sul terreno della politica: mancanza di una "causa" giustificatrice (Unsachlichkeit) e mancanza di responsabilità (spesso, ma non sempre, coincidente con la prima). La vanità, ossia il bisogno di porre in primo piano con la massima evidenza la propria persona, induce l'uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di quei peccati o anche tutti e due. Tanto più, in quanto il demagogo è costretto a contare "sull'efficacia", ed è perciò continuamente in pericolo di divenire un istrione, come pure di prendere alla leggera la propria responsabilità per le conseguenze del suo agire e di preoccuparsi soltanto "dell'impressione" che egli riesce a fare. Egli rischia, per mancanza di una causa, di scambiare nelle sue aspirazioni la prestigiosa apparenza del potere per il potere reale e, per mancanza di responsabilità, di godere del potere semplicemente per amor della potenza, senza dargli uno scopo per contenuto. [...]
Il mero "politico della potenza" (Machtpolitiker), quale cerca di glorificarlo un culto ardentemente professato anche da noi, può esercitare una forte influenza, ma opera di fatto nel vuoto e nell'assurdo. In ciò i critici della "politica di potenza" hanno pienamente ragione. Dall'improvviso intimo disfacimento di alcuni tipici rappresentanti di quell'indirizzo, abbiamo potuto apprendere per esperienza quale intrinseca debolezza e impotenza si nasconda dietro questo atteggiamento borioso ma del tutto vuoto. [...] E' perfettamente vero, ed è uno degli elementi fondamentali di tutta la storia, che il risultato finale dell'azione politica è spesso, dico meglio, è di regola in un rapporto assolutamente inadeguato è sovente addirittura paradossale col suo significato originario. Ma appunto perciò non deve mancare all'azione politica questo suo significato di servire a una causa, ove essa debba avere una sua intima consistenza. Quale debba essere la causa per i cui fini l'uomo politico aspira al potere e si serve del potere, è una questione di fede. Egli può servire la nazione o l'umanità, può dar la sua opera per fini sociali, etici o culturali, mondani o religiosi, può essere sostenuto da una ferma fede nel "progresso" non importa in qual senso - oppure può freddamente respingere questa forma di fede, può inoltre pretendere di mettersi al servizio di una "idea", oppure, rifiutando in linea di principio siffatta pretesa, può voler servire i fini esteriori della vita quotidiana - sempre però deve avere una fede. Altrimenti la maledizione della nullità delle creature incombe effettivamente - ciò è assolutamente esatto - anche sui successi politici esteriormente più solidi.

Max Weber - "La politica come professione" (1919)

domenica 21 dicembre 2008

L’atmosfera perfetta per il pranzo di Natale

Penso che a Natale il più grande regalo che possiamo farci o fare alla nostra famiglia è il “rispetto della tradizione”. Che sia a casa – preferibile - o al ristorante, il pranzo di Natale è la massima espressione di questa tradizione, il momento culminante, per festeggiare la continuità dei legami familiari. Ciascuno di noi ha alle spalle una storia di tradizioni che sono proprie della famiglia, dei nonni, dei genitori e il desiderio e la ricerca nel riscoprirle devono partire dalla riproposizione di un insieme di dettagli che servono a ricreare l’ambiente di un tempo. Ad esempio il Natale risveglia in me ricordi e profumi di quando ero bambino: l’aroma delle arance, l’odore del brodo e delle spezie, delle carni arrosto – coniglio, pollo o vitello - con le patate, il profumo della pasta fresca e del ripieno mentre “aiutavo” mia nonna nella preparazione dei cappelletti, del caramello nello stampo di metallo. Veri elementi fondamentali per trasmettere e comunicare emozioni, creare atmosfera al fine di condividere con le altre persone il momento del convivio sono: la tavola, la cucina e il cibo. Importante diventa quindi una tavola curata dove il colore fondamentale sia il bianco rappresentato da una candida tovaglia – preferibilmente di lino o di cotone importante – ricamata magari di rosso e verde che, nell’immaginario collettivo, rappresentano i due colori simbolo del Natale affiancati proprio al niveo colore della neve. Su questa tavola non potrà mancare una bella composizione di fiori come centrotavola, le candele e dei sottopiatti importanti, come lo dovrebbero essere posate, piatti e bicchieri per completare il colpo d’occhio e trasmettere suggestione alla vista. Anche l’ambiente è importante, una sala dove ci sia anche il camino acceso e qualche addobbo indubbiamente “fa più Natale”. Grande rilevanza, nella ricerca della tradizione, anche nel menù che deve essere ben equilibrato e bilanciato, abbastanza ricco e importante per enfatizzare il momento solenne – ed una certa tradizione romagnola dell’abbondanza nelle feste comandate – evitando però che diventi eccessivamente pesante, anche nella digestione. Personalmente evito il pesce in quel giorno in quanto era tradizione in Romagna mangiarlo - naturalmente a casa dei “Signori” - solo “in vigilia”. Per darvi un’ispirazione sul menù, posso citarvi quanto descritto nel libro dei Conti Manzoni, su come era normalmente composto il pranzo di Natale: cappelletti in brodo, cotechino e zampone con passato di patate stemperate al burro e con lenticchie (che sono propiziatorie per il benessere economico) pure loro al burro, pollo e cappone arrosto contornati da patate fritte, formaggi di Roma, d’Olanda, di Francia, frutta di stagione, zuppa inglese con savoiardi inzuppati nel liquore dolce e ricoperti di crema e cioccolato, pan speziale e ciambella dorata. Sulla “leggerezza” di tale convivio lascio però a voi giudicare…
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 12 dicembre 2008

venerdì 12 dicembre 2008

Le analogie di oggi con gli scritti di Tocqueville

Quando, presso un popolo, l’amore per i godimenti materiali si sviluppa più rapidamente della percezione e della pratica della libertà, viene un momento in cui gli uomini sono estasiati e come fuori di sé alla vista di questi beni nuovi che sono pronti ad afferrare. Preoccupati e indaffarati soltanto a fare fortuna, non si accorgono dello stretto vincolo che lega la fortuna privata alla prosperità di tutti. A cittadini del genere non c’è bisogno di strappare i diritti che possiedono: essi stessi se li lasciano senza resistenza sfuggire. L’esercizio dei doveri politici appare un contrattempo noioso che li distrae dalla loro attività. …

Queste persone … per meglio sovrintendere a ciò che chiamano i loro affari, trascurano il principale, che è di restare padroni di se stessi. …

Se in questo momento critico un ambizioso di ingegno arriva a impadronirsi del potere, trova via libera per ogni genere di usurpazione.È sufficiente che per qualche tempo abbia cura che prosperino tutti gli interessi materiali, e lo si dispenserà facilmente dal resto. L’essenziale è che garantisca soprattutto l’ordine. Di solito gli uomini che hanno la passione dei godimenti materiali scoprono che le agitazioni della libertà turbano il benessere, prima di capire che la libertà serve anche a procurarselo …
La paura dell’anarchia li tiene a lungo e senza tregua in sospeso, e sempre pronti a precipitare al di fuori della libertà, al solo primo disordine.Riconosco senz’altro che la pace pubblica è un gran bene, ma non intendo dimenticare che è proprio attraverso il buon ordine che i popoli sono arrivati alla tirannide. Non per questo i popoli devono disprezzare la pace pubblica, ma bisogna che non se ne accontentino. Una nazione che al suo governo non chieda nient’altro che il mantenimento dell’ordine, è già schiava nel profondo del cuore. Essa è schiava del suo benessere, e l’uomo destinato a incatenarla ha allora campo libero.
Da "La Democrazia in AMerica" - Alexis de Tocqueville

martedì 9 dicembre 2008

Accade anche ad altri ?


Sono abituato a "riavvolgere il film" degli avvenimenti che mi accadono più volte dopo che sono avvenuti, a volte a distanza di molto tempo, di anni anche. Solitamente questo sviluppa in me delle riflessioni e parecchie volte esce una considerazione mai fatta in precedenza, che trovo logica e pertinente. Altre volte nascono nuove domande oppure certezze di quel tempo non sono più tali.
Applico questo "metodo" anche alla mia vita in generale e, passando naturalmente il tempo, la riflessione porta alla luce situazioni, avvenimenti e dati curiosi ed emblematici.
Ad esempio ho notato che, ciclicamente, ogni 7-8 anni entro in una "crisi personale" - a volte accelerata da fattori esterni - che mi costringe a rimettere in discussione tutte le mie certezze, i miei valori, le mie aspettative, i miei sogni e mi nasce l'enorme necessità di cambiare, anche radicalmente, alcune cose e abitudini della mia vita, per prendere nuova forza e mantenere lo stesso vigore e vitalità che normalmente inietto nelle azioni che intraprendo ogni giorno.
Sono riflessioni e processi interiori normalmente molto dolorosi per me... capiterà anche ad altri ?

giovedì 4 dicembre 2008

Che cos'è la libertà ?

...la libertà, come tutti i beni della vita, come tutti i valori, non è qualcosa che si può conquistare una volta per sempre, ma necessita un lavorio costante di conservazione attraverso lo sforzo di ogni giorno, rendendosene degni, avendo un animo abbastanza forte per affrontare la lotta in questione...
(A.C. Jemolo)

mercoledì 26 novembre 2008

I Believe

Il Credo di John D. Rockfeller - 1941
Credo nel valore supremo dell'individuo e nel suo diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.

Credo che ogni diritto comporti una responsabilità; ogni opportunità un obbligo; ogni possesso un dovere.

Credo che la legge sia fatta per l'uomo e non l'uomo per la legge; che il governo sia al servizio della gente e non il padrone della gente.

Credo nella dignità del lavoro, sia con le mani che con la mente; che nessuno abbia il diritto di essere mantenuto, ma che tutti abbiano il diritto a un'opportunità permantenersi.

Credo che la parsimonia sia essenziale alla vita bene ordinata e che l'economia sia il prerequisito di una struttura finanziaria sana, nel governo come nel business o negli affari personali.

Credo che la verità e la giustizia siano fondamentali per un ordine sociale duraturo.

Credo nella sacralità di una promessa che la parola di un uomo dovrebbe essere solvibile come la sua cambiale: cheil carattere - non la ricchezza o la posizione - è il valore supremo.

Credo che servire sia dovere universale del genere umano eche solo nel fuoco purificatore del sacrificio l'anima umanasi liberi dalla scoria dell'egoismo.

Credo in un Dio che tutto ama e tutto sa, chiamatelo come volete,e che la più elevata utilità individuale sia da cercare nell'armonia con la sua volontà.

Credo che l'amore sia la più grande cosa al mondo; che solo l'amore possa vincere l'odio; che il diritto possa trionfare sulla forza e che trionferà.

martedì 25 novembre 2008

Un piatto come opera d'arte

Sarà capitato a tutti, seduti al ristorante, di rimanere alcuni secondi in silenzio in un misto tra meraviglia e adorazione, momenti in cui avete colto tutta l’armonia, i colori, i profumi, la consistenza, l’architettura e la passione contenuti nel piatto che avevate di fronte. E di essere stati indecisi sul da farsi, tra il prendere la posata e perdere per sempre l’opera che vi stava davanti, o lasciare la portata così, intonsa, per appagare fino in fondo una sensazione personale difficilmente descrivibile. Vivere questa esperienza significa comprendere appieno il significato del “bello da mangiare” e quindi anche il tema del Baccanale di questo anno. Rotti al fine gli indugi poi, avrete avuto la conferma di gustare pure il buono... Quando si ha la passione per la cucina, si desidera andare per ristoranti per vivere un “viaggio” a tutto tondo che soddisfi lo spirito prima del palato, in grado di farci scoprire qualche piatto che provochi un’emozione che rimanga indelebile nei nostri ricordi come il piatto “indimenticabile“. In questi casi si spera di incontrare il maestro di cucina, l’artista, per scambiare qualche opinione e conoscere qualche particolare inedito della sua esperienza o di quel piatto specifico. Il “gastronauta” – uso sempre questa felice definizione coniata dal giornalista enogastronomico Davide Paolini - si appresta a vivere questi momenti con lo stesso stato d’animo con cui si avvicina ad una mostra di pittura, un percorso esperienziale che, spera, lo lasci un po’ arricchito dentro al suo termine. Nel suo itinere – a differenza di un turista che trova, il gastronauta cerca -alla scoperta del buono, del genuino e anche del bello, è concorde con l’antico adagio che recita “anche l’occhio vuole la sua parte”. Ugualmente ritiene la cucina una forma d’arte, applicata, come l’abbigliamento, l’architettura e il design, perché adempie da un lato a esigenze funzionali, nel caso del cibo la funzione biologica della nutrizione, e dall’altro ad esigenze estetiche. E a giusta ragione è convinto e sostiene che la cucina è per definizione Cultura, perché narra e conserva la storia dei popoli, le sue tradizioni, testimoniando il continuo mutare nel loro progredire. D’altronde il cibo è sempre stato coinvolto nell’arte in generale, cito a caso e ad esempio nella pittura dal ‘500 in avanti – Bruegel e Arcimboldo i capostipiti - nella letteratura il “Manifesto della cucina futurista” di Marinetti o il più recente scrittore Camilleri che fonde i suoi romanzi in modo indissolubile con la cucina. O, ancora, come all’inizio degli anni ‘70, nascendo l’espressione nouvelle cuisine – poi purtroppo degenerata, ma non accade forse così a volte nell’arte in generale ? - si iniziò a definire uno stile culinario di un gruppo di chef di talento, tra i quali Bocuse e Guérard, dove il momento più importante dell’elaborazione gastronomica non era più la perfetta applicazione di regole, ma la creatività, la capacità di accostare elementi inusuali, per ottenere nuove sensazioni e nuove armonie.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 22 novembre 2008

Il "divin porcello" spopola da novembre a gennaio

Da fine novembre - Sant’Andrea - a metà gennaio, il 17 è Sant’Antonio Abate, il protagonista nelle campagne, anche Romagnole, era ed è, là dove si mantiene viva una certa tradizione, il “divin porcello”, il maiale. Considerato normalmente un animale sporco e sudicio, vietato in certe religioni e demonizzato dalle diete oggi per essere “sempre in forma” salvo poi soffrire ugualmente di extra-large, il maiale trova consolazione nella tradizione cristiana che gli ha dato anche un santo protettore: appunto Sant'Antonio Abate. Da noi, in Romagna, era comunque considerato una "benedizione del Signore" o della provvidenza, anche dalle famiglie più atee e miscredenti. E il motivo di questa conversione temporanea era semplice: il maiale veniva allevato con gli avanzi di casa, con cibi poveri e forniva carne e salumi per l'intero anno. Del maiale, si dice, "non si butta via niente". Fino agli anni ’50-60 è stato così, oggi è meglio dire che “non si buttava” quando c'erano i maiali buoni certamente, ma soprattutto quando c'era la fame con la "F" maiuscola. Cambiando le abitudini e l’alimentazione, ora si scarta molto di più e certi dettami della modernità hanno praticamente ucciso preparazioni indimenticabili come “e migliaz” (il migliaccio) dolce sanguinaccio romagnolo a base di sangue suino. Come di estinguersi corrono il rischio i maiali di razza romagnola. La Mora Romagnola infatti è una razza suina che rischia l’estinzione - oggi sono circa 300 capi e un consorzio cerca di mantenere e aumentarne la produzione - una razza che un tempo era allevata nell'intera Romagna con prevalente diffusione nel Forlivese e nel Faentino. Si può dire che il maiale in Romagna è rintracciabile non solo a cose legate alla cucina. Nelle parole ad esempio. In certe zone del nostro Appennino, lo ricordo ancora io, i bambini venivano chiamati “ i ninè” che è lo stesso nome che si da al piccolo del maiale, ma non era usato in senso assolutamente offensivo. Probabilmente i bambini e i maialini erano comunque un segnale positivo della provvidenza… Ma pensate anche al detto “se sant’antonio u sé innamure in tu’n porz…” (se sant’Antonio si è innamorato in un maiale) che è sempre stato il lasciapassare per qualsiasi commento su una coppia di persone che “la gente” di paese non approvava nella loro unione sentimentale. Ma tornando al nostro maiale e al suo totale utilizzo ricordiamo cosa si produce dalla macellazione di questo animale: sangue per il migliaccio, ossa da cuocere e piluccare, strutto, salsicce, salami (in quelli “buoni” della tradizione si mette ancora il sangiovese dell’ultima vendemmia), capocollo, coppe, fegatelli, coppa di testa (dove finiscono testa, ossa, cotenne, orecchie, codino, zampetti...), guanciale, lardo, ciccioli, cotechini, pancetta (cotta all’alba con la piada fritta prima di andare nei campi), mortadelle, soppressate, lonzino, stinco, braciole, costolette, cotiche... fino ad arrivare al prosciutto, quello crudo. Il premio finale. L'ultimo a mangiarsi. In tavola tutto questo si traduce in alcuni piatti tradizionali romagnoli dei quali vale la pena segnalare: i fegatelli con la rete e la salvia in graticola, i bruciatini di pancetta all’aceto (oggi solo balsamico, ma è un falso storico), l’arrosto di lombata, la polenta al ragù o alla salciccia, la porchetta, le bracioline, “e frizon” (il friggione) con la salciccia in alcune zone. Ma un ruolo molto importante, oggi ormai perduto se non in pochi “capisaldi” della ristorazione tradizionale era quello svolto dallo strutto. Per friggere, conservare salsicce, fare la piadina, non solo un ingrediente, ma il simbolo di una civiltà gastronomica che fa da cerniera tra l’Italia del Nord che utilizza il burro e quella del sud che usa invece l’olio. Chi ricorda la differenza di sapore delle patate arrosto o fritte nello strutto, tagliate grosse con rosmarino e sale grosso ? Lo strutto era utilizzato anche per certi dolci, come le castagnole, le sfrappole, per i soffritti in genere, per il salto in padella delle erbe di campo. Ricordo ancora mia madre che per lungo tempo lo ha utilizzato al posto della margarina (perché il burro per lei che aveva visto la Fame vera durante la guerra nell’appennino romagnolo, era troppo nobile) o certi parenti di mio padre, contadini, con cui da piccolo andavo a trovare che avevano sempre la padella nera vicino al fuoco con due dita di strutto pronti per i diversi momenti di alimentazione legati al ciclo di vita dei campi.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 23 novembre 2008

venerdì 14 novembre 2008

Scuola Democratica

"Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in un alloggiamento per manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia perfino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo apertamente trasformare le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tenere d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi, ve l'ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico"
On. Pietro Calamandrei 20 marzo 1950

giovedì 13 novembre 2008

YES, WEB CAN


Adesso lo sappiamo e quindi possiamo scriverlo: Internet non l' ha inventata Al Gore, ma Barack Obama. Nella sfortunata campagna elettorale del 2000 il democratico «sconfitto» si attribuì goffamente la scoperta della Rete. In quella trionfale appena conclusa il vincitore ne ha fatto un uso senza precedenti, scovandone ogni dote e potenziandola esponenzialmente. Titola il sito di «Wired», il giornale più attento alla rete e alle nuove teconologie: «Spinto da Internet, Obama conquista la presidenza». È davvero così? Oltre al primo Presidente nero e meticcio abbiamo il primo Presidente.com? È stata la teconologia l' arma vincente di questa formidabile ascesa? Risposta: sì, ma. Partiamo dal sì. E' vero. Barack Obama è stato un perfetto candidato.com. In questo tuttavia non inedito. Già la campagna elettorale del 2000 era sbarcata su Internet. E chi era stato il primo a muoversi con qualche agilità nel territorio virtuale? Pensa te: John Mc Cain. Il vecchietto (già allora), utilizzò la rete nella sua purtroppo perdente sfida a George W. Bush, uno che si è vantato dei bassi voti a scuola e che si faceva caricare la playlist sull' I Pod da un assistente (limitandosi a pretendere la presenza della becera «My Sharona»). Poi, nel 2004, la corsa delle primarie democratiche partì, anziché con un colpo dello starter, con un clic dal Vermont: la discesa in campo di Howard Dean, lanciato da un passa-e-mail, sorretto dal popolo del web e stroncato dal popolino dei caucus nell' Iowa. Né McCain né Dean, nonostante l' intuizione del mezzo, raggiunsero il fine. Perché? Perché nessuno dei due era Barack Obama. Non basta usare Internet per arrivare alla Casa Bianca, bisogna sapere che cosa farne e occorre essere la persona giusta nel «non-posto» giusto. Obama, a differenza dei predecessori lo è stato. Ha vinto, sul web, con il web e grazie al web in tre www.mosse. La prima: ha giocato a tutto campo. Ha sfruttato ogni potenzialità, moltiplicato qualsiasi fattore. Aprire un sito, inserire qualche link, uploadare un paio di video su You Tube è sufficiente (forse) per il lancio di un film. Per arrivare alla Casa Bianca occorreva un' occupazione gentile e capillare, una conquista dei cuori e delle menti con una strategia militare che puntasse alla «missione compiuta» nel breve termine di una stagione elettorale. Obama (e/o chi per lui) non ha trascurato nulla. Ha creato il suo sito, ti ha fatto creare il tuo «sotto-sito» (mybarackobama.com), ha invaso YouTube e Facebook, di cui ha perfino arruolato uno dei fondatori. In una catena tendente all' infinito e all' incredibile ogni sito ne generava un altro con diversa funzione. Obama (e/o) chi per lui ha capito la Rete. Ha guardato all' esperienza di Clinton e considerato quanto il pettegolezzo nato sul web possa essere micidiale se non spento subito. Ha creato un sito apposito per smentire ogni voce (Fightthesmears.com, l' anti Drudge report). Ha messo un esercito di ragazzi a navigare cercando ogni possibile formazione di mucillagine e fango sul percorso, per dissolverla prima che potesse diventare un ostacolo. Ha guardato i terminali del flusso originato dalla Rete e ha occupato anche quelli. Si è fatto costruire una «Obama applicazione» per l' I Phone, in grado di dare informazioni, indicare comizi e raggiungere in via preferenziale residenti negli «Stati in bilico». Ha inserito in ogni sito un sistema per deviare l' informazione direttamente a un cellulare via sms. Ha immediatamente utilizzato il twitter. Era sulla cresta di ogni onda appena superava la linea dell' orizzonte. Ma non sarebbe bastato senza... ...la seconda mossa: come un contemporaneo Bernardo di Chartres, Obama ha valutato le nuove tecnologie «nani sedute sulle spalle dei giganti». Ovvero: nuovi strumenti per fare vecchie cose. Ha capito che la modernità è una strada diversa per andare dalla stessa parte, un aggiornamento e non una rifondazione. Sul web non si va a giocare un campionato di fantapolitica, ma ad aumentare le possibilità di vincere un' elezione reale. Come? Facendo lì, oltre che e non invece che altrove, le stesse vecchie insostituibili cose: raccogliere fondi, diffondere parole d' ordine, controinformare. Ha affiancato alla macchina tradizionale che tirava su donazioni in un unico assegno milionario da Warren Buffett, una flotta di automobiline virtuali che hanno caricato 600 milioni di dollari da tre milioni di persone sparse e mai radunabili sotto lo stesso tetto (oltreché, dicono i detrattori, non rintracciabili). Ha creato una virtuosa filiera di e-mail e sms per portare chiunque si fosse dichiarato un sostenitore al voto il 4 novembre (e non anche il 5, spiegava il sito di controinformazione, smentendo una voce diffusa ad arte per limitare l' afflusso). Contribuisci, vota e fai votare: sono imperativi vecchi come la democrazia, la novità era il modo di esprimerli, la tempestività e l' ampiezza con cui venivano diffusi. In questi mesi la squadra di Obama ha preso il web e l' ha portato sulla terra, ha tagliato corto sulla sua propensione al giocoso e all' inconcludente e l' ha reso macchina da fatti e non da parole o immagini. Perché questo non riuscì a Mc Cain nel '99, a Gore nel 2000, a Dean nel 2004 e alla Clinton nel 2007? Per via della... . ..terza mossa, che una mossa non è. Semplicemente è la natura di Obama. McCain può essere un eroe, Gore un vice, Hillary una moglie con qualche diritto ereditario, ma solo Obama può essere un avatar. La sua figura appare disegnata, la sua biografia irreale, il suo procedere nella storia staccato dalle leggi della fisica e della logica. Non ha bisogno di essere giovanilista perché è giovane. Né di mostrarsi diverso, giacché lo è. Obama non appare come una figura della realtà che diviene fantasia, ma viceversa. È come quel nickname senza sembianze certificate con cui hai chattato per mesi e che ti ha fatto sognare, credere di essere, dietro il sipario, la persona giusta, ti ha spinto a sostenerlo, a faticare per incontrarlo, infine eccolo lì, corrispondente a quell' immagine eterea, costruita da milioni di pixel e viaggi generazionali nello spazio e nel tempo, eppure, va ammesso, autentica. Obama, e soltanto lui nel panorama politico non soltanto americano ma mondiale, è «web-compatibile». Lo è perché appare «web generato». Tanto Gore non era credibile quando affermava: «Ho creato Internet» quanto Obama lo sarebbe se dicesse: «Internet mi ha creato». Obama è un link tra questo presente e una nuova pagina. È il download di un' aspirazione collettiva che prima di lui concepiva la propria esistenza, ma non il proprio oggetto, un mero dominio in costruzione, da riempire di contenuti. È un motore di ricerca, che procede per parole chiave: «cambiamento», «speranza», «possibilità». Tutto questo, attenzione, come la sua già raggiunta dimensione di mito contemporaneo che siede alla destra del Che e alla sinistra di Jackie O, ne faceva un superlativo candidato. E un perfetto candidato.com. Ma dal 20 gennaio dovrà essere un presidente (se vorrà, un presidente.com). Starà a lui (e/o chi per lui) inventare un modo per far diventare Internet strumento di governo e non solo di lotta. E trasformare, anche grazie a questo, la più straordinaria delle campagne elettorali in un' amministrazione che esercita con metodi nuovi la vecchia e desueta arte del buongoverno.

GABRIELE ROMAGNOLI - Repubblica — 06 novembre 2008

lunedì 10 novembre 2008

Gli appetiti del buffet

Quando partecipo ad un evento dove è previsto un buffet, trovo sempre divertente osservare e riflettere sulla natura umana degli intervenuti e i loro comportamenti. Di fronte ai tavoli imbanditi, che dovrebbero rappresentare un momento di piacevole informalità e socialità, senza la “schiavitù” dell’etichetta, alcune persone si trasformano. Non è un fatto di censo, ho visto scene incredibili in ogni occasione, dall’inaugurazione del negozio alla presentazione della mostra, dalla cena in giardino al party per la presentazione del nuovo libro. A prescindere dagli invitati sono arrivato alla conclusione che l’istinto primordiale nei riguardi del cibo scateni la competizione.
Tralascio i “professionisti del buffet” – ad Imola ad esempio ho individuato un paio di famiglie – presenti a tutte le inaugurazioni e non so come facciano ad essere così informati, che si posizionano su un angolo del tavolo e divorano letteralmente una quantità di cibo incredibile, facendo “muro” e impedendo agli altri di arrivare al cibo, soprattutto se non è prevista la fila. A tutti però sarà capitato di vedere come alcune persone si avventino sul banchetto come se fossero giorni che non hanno mangiato. In un buffet in realtà è bello avere la libertà di poter assaggiare davvero un po’ di tutto e potersi relazionare con più persone. Trovo sgradevole vedere persone tornare dal tavolo delle vivande col piatto stracolmo, con portate che si stratificano in precario equilibrio col rischio di far cadere il cibo e sprecarlo inutilmente. Oggi in cui non mangiamo più per necessità – salvo i casi di indigenza sociale – ma per piacere o per il gusto di farlo, trovo spiacevoli questi atteggiamenti, aggravati dal fatto che spesso capita poi di vedere gli stessi piatti abbandonati con ancora abbondanza di cibo. La condotta da adottare invece dovrebbe essere lo stesso che usiamo al ristorante, ma in modalità di assaggio: un po’ di antipasto, un primo, un secondo, verdura, dolce o frutta. Il piatto andrebbe riempito per un 70% e contenere al massimo 3 o 4 cose. Nei buffet, il divertimento, sta anche nell’andare più volte al tavolo per “spizzicare” le cose in modo però sempre misurato. La regola sarebbe “mettere poco e andare spesso”, tra l’altro questo permette di muoversi appunto e aumentare la socialità conoscendo anche nuove persone, magari iniziando il discorso in modo semplice parlando proprio del cibo. Ricordare sempre che la tavola unisce enon divide.
Per concludere lancio un appello agli organizzatori dei buffet. La cosa più difficoltosa e antipatica, partecipando ad un rinfresco, è la gestione del proprio bicchiere. Nella mia lunga frequentazione solo due volte, a Milano, i simpatici organizzatori davano inserito nel piatto un utile supportino in plastica per inserire lo stelo del bicchiere. Così si hanno le mani libere e il bicchiere sotto controllo. Come direbbe Bisio in una sua pubblicità: geniale !
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 8 novembre 2008

domenica 9 novembre 2008

Il "no profit" sulla tavola del pranzo della domenica

In qualità di membro dell’Accademia Italiana della Cucina ritengo interessante parlare di una ricerca realizzata dal Centro Studi dell’Accademia stessa - che è Istituto Culturale “no profit” - su un appuntamento che forse molti potrebbero pensare sia un rito dimenticato o presente ormai solo in alcuni territori: parliamo del pranzo della domenica. Al contrario, un po' a sorpresa, lo studio conferma come questo appuntamento sia ancora attuale e vivo nelle abitudini delle famiglie italiane. Emerge dai dati raccolti, che il 52 per cento delle famiglie tutte le domeniche si siede a tavola con parenti o amici per assaporare menù e piatti che sono praticamente immutati nel tempo, dagli antipasti seguiti da pastasciutta pasta ripiena o in brodo, agli arrosti vari con patate o i bolliti con l'intramontabile insalata, alle crostate, torte di mele, budini, tiramisù o i classici pasticcini sul cabaret comprati nella migliore pasticceria. Protagonisti assoluti sono i manicaretti tradizionali, dai segreti tramandati in famiglia, realizzati soprattutto da mamme/suocere, zie e nonne ancora in gran forma. Piatti simili in tutto il paese, diversi nella realtà perché la cucina italiana non è solo una cucina regionale, ma anche territoriale, zonale, in una frammentazione che diventa però ricchezza e patrimonio storico-culturale. Lo studio, che ha coinvolto anche tutte le Delegazioni in Italia, ha consentito di prendere in esame un campione molto rappresentativo delle famiglie del paese. Ne è uscito che il pranzo della domenica è in verità un classico dei nostri appuntamenti di convivialità, una sorta di cerimoniale amato – forse qualche volta anche subito – sicuramente diffuso in ogni angolo parte del nostro paese. La domenica insomma è vietata a surgelati, fast food e ristoranti, a testimonianza di ciò provate a cercare un ristorante aperto a mezzogiorno: buona fortuna!. Altri dati dello studio dicono che intorno al tavolo di casa, alla domenica, si raccoglie in media un gruppo di 5 persone, con punte anche tra i 7 e i 10 quando si ritrovano nonni, zii, genitori e nipoti. Naturalmente la tavola a cui si fa riferimento è nel 70%, dei casi quella dei genitori, per il 17% dei figli, per il 4% di altri parenti o amici. Solo per un 5% circa il luogo ideale è quella del ristorante. Si può quindi dire che il pranzo della domenica resta inossidabile, specchio di un paese che cambia rimanendo però fedele a se stesso. Ritengo che in questo appuntamento “tradizionale” si possa leggere in qualche modo la nostra storia con l’evoluzione dei costumi e della cultura gastronomica. A partire dai primi del novecento fino agli anni '50 dove la carne era un lusso e si consumava – quelli che potevano - sotto forma di arrosti, brasati o bolliti, solo la domenica, ai tempi del “boom economico” con le prime “gite fuori porta” e i primi picnic, quando dalle città si spostavano in campagna – ricordo molto bene queste trasferte al fiume o negli Appennini – file di auto con plaid, piatti, stoviglie e cibarie. Passando poi agli anni Settanta dove subentra la nouvelle cuisine a quella tradizionale, sull’onda lunga della contestazione in cui tutto doveva cambiare, per arrivare agli anni '80 dove, vuoi per la perdita dei valori, per la “crisi della famiglia”, per il diffondersi delle diete e per l'affermarsi di cibi precotti e surgelati – il tempo comincia a scarseggiare - il pranzo della domenica subisce un calo di popolarità. Con gli anni '90 si assiste ad un ritorno alle origini, si esaltano i sapori genuini, i piatti della nonna che sembrano dimenticati e tra la fine dell’ultimo decennio e il nuovo secolo è tutto un fiorire di libri e nuove pubblicazioni di cucina, di trasmissioni tematiche, di Chef che impazzano nei media. E’ una sorta di nuovo Rinascimento Gastronomico in cui gli italiani si appassionano a quest’arte, in cui si elaborano ricette innovative ma nel solco delle tradizioni locali, si riscoprono e valorizzano i prodotti e i vitigni del territorio. Il pranzo della domenica, mai veramente abbandonato, torna pertanto ad avere un ruolo importante di (ri)unione e di ritorno alle nostre tradizioni. Magari – visto che i tempi cambiano – con sempre più attenzione a ingredienti di qualità, prodotti biologici, locali, stagionali e porzioni ... meno abbondanti.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 9 novembre 2008

lunedì 3 novembre 2008

La tradizione delle fave dei morti che arriva dalla Romagna

La tradizione legata ad Ognissanti e quindi alle ricorrenze dei primi di novembre nascono nell’antichità e in Romagna si sviluppano principalmente grazie all’afflusso dei componenti delle legioni romane che Cesare, di ritorno dalla Gallia, premiò regalando loro – come era uso fare allora – appezzamenti di terra da coltivare. Forse non tutti sanno queste legioni, come quasi tutte da un certo momento in poi , erano composte da “barbari” (come erano definiti dai romani tutti i cittadini dell’impero che non fossero compresi nel territorio dell’Urbe, che andò allargandosi nel tempo). I legionari di Cesare, nella fattispecie, erano Gallici e quindi portarono con loro, in Romagna, le tradizioni celtiche ancora oggi riscontrabili in numerose sfumature dei nostri usi e costumi. Quindi prima che Colombo partisse per l'America, la festa di Halloween veniva festeggiata con altro nome e caratteristiche non troppo dissimili in varie parti d'Europa, fra cui anche l'Italia settentrionale e la Romagna.

Essendo una festa che esorcizzava la paura della morte, nel nostro territorio in queste giornate, venivano messe in atto diverse usanze tese all'accoglimento dei trapassati che in quel periodo tornavano tra i vivi nelle loro case, che coinvolgevano la casa, ma pure gli animali e la terra. Ad esempio i contadini, nella mattina di questa festa, si alzavano presto per lasciar il posto ai morti e per l'occasione si metteva nei letti biancheria pulita e profumata. Alla sera veniva invece loro preparato del cibo e nella vigilia dei morti non si sparecchiava la tavola. Veniva lasciato tutto pulito ed ordinato, il pane fresco già tagliato. I contadini romagnoli usavano altresì mangiare proprio delle fave in questo anniversario, perché si riteneva che questa pianta avesse il potere di rafforzare la memoria, così che nessuno dimenticasse i propri defunti. Si mangia quindi la fava secca lessata, condita di cotiche e rosmarino. E sempre la fava, veniva posta sui davanzali in ciotole ricolme, per gli ignoti transitanti, altrimenti potevano venir poste negli angoli delle strade bigonci o ciotole piene di ceci e lupini lessi. Altra tradizione era quella di confezionare il ripieno dei cappelletti privo di carne, utilizzando quindi formaggi quali il raviggiolo e da qui la differenza con il tortellino emiliano in cui la carne è sempre presente. Altro piatto tradizionale erano i maltagliati insaporiti con l'alloro e il vino rosso.

Le offerte per i defunti potevano venir poste anche agli angoli delle strade strade: bigonci o ciotole piene di ceci e lupini lessi.
Altra tradizione consisteva anche nel portare una certa quantità di grano alla chiesa parrocchiale stendendolo sull'avello dei propri morti e collocandovi una candela accesa. Oppure veniva posta una bigoncia dietro la porta della chiesa, dove chi poteva, metteva del grano. Un’ulteriore usanza, che ci riporta a certe “mode” rispolverate senza conoscerne la genesi, era quella legata alle offerte fatte ai morti, lasciandole sulle tombe o dandole a chi li impersonava bussando alla porta di casa per una questua rituale, perché si ricordassero di pregare per i defunti. Solo che, al posto dei dolcetti, legumi bolliti. Anche le zucche appartengono alla tradizione e ci sono numerose testimonianze secondo cui nella prima metà di novembre si usava collocare nottempo nei crocicchi, o in altri luoghi del paese, zucche svuotate ed intagliate a forma di faccia, con dentro una candela accesa che servivano a a"spaventare le streghe. Possiamo quindi dire che le usanze tanto in voga negli ultimi anni sono di fatto un ritorno – con caratteristiche un po’ troppo “gioiose” perché nella tradizione la festa non aveva nulla di allegro – alle nostre radici.

Le fave comunque sono sempre state legate al culto dei morti per la loro capacità di evocare la continuità della vita che proprio dalla morte trae nuovo impulso, in un ciclo di eterno ritorno. Quindi un anello di congiuntura tra la vita e la morte. Oggi di tutto questo, a parte alcuni aspetti allegorici, rimangono solo le fave dolci, detti "Fave dei morti", dolcetti che, insieme a focacce e pani anch’essi dolci, venivano offerti in dono, nelle notti precedenti la ricorrenza dei morti, alle fate.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 2 novembre 2008

mercoledì 29 ottobre 2008

Le cose più difficili

Rimettersi costantemente in gioco mantenendo lo stesso entusiasmo di un tempo, avere sempre fiducia nel futuro nonostante le difficoltà del presente, avere il coraggio di cambiare quello che si è sempre fatto o che non funziona. Non vivere di paure. Mantenere la fiducia nelle persone sebbene ti possano deludere. Non tradire mai i propri ideali, la propria fede, ciò in cui si crede e che si ama. Essere se stessi, più leggeri nell'affrontare la vita senza mortificarsi, pensare a ciò che si è fatto e per chi sei importante. Amare ciò che si fa e farlo con professionalità, esercitandosi, preparandosi con continuità. Non mollare mai, ricercare continuamente la "via migliore", rianalizzando e rivalutando le proprie caratteristiche. Avere il coraggio di osare sempre tenendo a mente che solo i migliori combattono tutta la vita.
Queste sono le cose su cui rifletto e mi accorgo più difficili da applicare costantemente nella mia vita.

martedì 28 ottobre 2008

Un buon ristorante si vede dai bagni



Negli Stati Uniti esiste addirittura un sito che stila la classifica dei ristoranti in base alle loro toilette, ma senza arrivare alla spettacolarizzazione tipica degli americani sarà capitato a tutti di trovarsi in un locale e rimanere negativamente colpiti dalla “visita” ai bagni. Viaggiando in Italia e all'estero mi capita, come penso a voi, di frequentare locali con servizi scadenti e poco decorosi.
Un ristorante si giudica senz’altro, in primis, dalla qualità della proposta gastronomica, ma concorrono anche altri elementi. Se difetta nei bagni, sorge spontaneo qualche sospetto in generale sulla qualità della cucina e la cura dell'igiene in generale. Chi intraprende l’attività dell’arte culinaria dovrebbe profondere un amore e una passione per il proprio lavoro che si dovrebbero cogliere in ogni aspetto e in tutti i particolari del locale. In generale chiunque accolga nella sua casa degli ospiti, e tali dovete essere considerati in un ristorante, oltre a comportarsi da vero “anfitrione” dovrebbe preoccuparsi di accogliervi in un ambiente ordinato, curato e pulito.
Trovare una toilette sporca o semplicemente trascurata, manca la carta o il sapone, le porte non si chiudono, tutto offre un senso di “precario” o di disattenzione, inficia il giudizio complessivo, è come se mancasse un tassello o mancasse la pennellata finale. E’ una nota stonata.
La toilette deve essere un luogo ameno e rilassante, dove l'ospite si possa trattenere piacevolmente per alcuni minuti e provare, anche qui, sensazioni gradevoli che contribuiranno a fargli ricordare il locale. La differenza la fanno tanti piccoli particolari concepiti però nel desiderio di procurare piacere ai clienti e fargli vivere un'esperienza da ricordare. Le differenze le fanno ad esempio il sapone liquido o gli oli essenziali, la saponetta viene toccata da tutti meglio evitarla, i piccoli asciugamani di stoffa usa e getta, ma vanno ugualmente bene le salviette in carta riposte in un bel cesto, un tavolinetto con qualche giornale, il profumatore per ambiente e per i servizi femminili un latte detergente e un'acqua di colonia, una certa cura nella disposizione degli oggetti come l’attenzione alle luci e agli specchi. Tutto concorre a fare della toilette un luogo in sintonia con il ristorante, non importano tanto le dimensioni o l’originalità, le cose semplici sono sempre le migliori, ma certamente il bagno deve risultare in armonia con il luogo, assecondandone stile e atmosfere.
Queste considerazioni, applicando il giusto metro in base al locale, hanno una valenza per tutti gli esercizi che fanno cucina: dal ristorante alla trattoria, dall’agriturismo alla pizzeria. Un bagno deve essere ordinato, curato e mantenuto pulito. 
Sembrerebbe un'ovvietà, ma non è sempre così scontato.


Pierangelo Raffini su Leggilanotizia.it

domenica 26 ottobre 2008

Tutti al bar per la colazione. Ma ci aspetta la "Luisona"

Il rito della prima colazione al bar è ormai una “tradizione” anche se relativamente recente, fine degli anni ’60 più o meno, e venne immortalato in modo mirabile da Nanni Loi nella prima trasmissione italiana di “candid-camera” trasmessa sulla TV nazionale – in bianco e nero allora – dove in un bar appunto, inzuppava il suo cornetto nel cappuccino di un altro signore che lo osservava sbalordito.
A conferma del fenomeno evidenzio che ogni anno 22 milioni di persone - dato del 2006 – consumano la colazione al bar. Su questo totale il 16% che lo fa almeno una volta alla settimana, mentre il 3,4% tutti i giorni. Inoltre il 53% predilige il caffè e il 48% il cappuccino, l'82% ordina anche una brioche – di questi il 50% senza ripieno - e questo business genera un giro di affari di circa 2 miliardi di euro.
Si sono modificate le preferenze nel tempo e, anche se la formula vincente rimane sempre cappuccino o caffè e brioche, troviamo oggi nella maggioranza dei bar un’offerta molto ampia che spazia dalle bevande al caffè – mokino, con panna, marocchino, ecc. – alle spremute e succhi; dalle paste dolci molto diverse nella lavorazione e nel ripieno fino ad arrivare al “ritorno” del pane, burro e marmellata con filoncini freschi o fette tostate, a una scelta di non-dolce che varia dalla semplice brioche salata fino ai piccoli panini variamente farciti con mortadella, prosciutto, formaggi e verdure.
Il caffè e la colazione al bar sono un fenomeno talmente radicato in Italia, da suscitare la curiosità e l’interesse nel mondo tanto che – per citare il caso più famoso – “l’inventore” della catena americana degli Starbucks prese ispirazione, anche nella capillarità della presenza, da un viaggio nel nostro paese.
Se è vero che la colazione al bar è sempre più un rito per gli italiani, si tratta senza dubbio di un rito divenuto più costoso. Rispetto al 2007 – secondo l’Adoc - cappuccino e brioche costano fino al 14% in più e se la confrontiamo al 2001 siamo a un più 19,7% che, sulla base di 5 consumazioni settimanali, determinano per ogni cittadino un maggior esborso di 67,2 euro l’anno.
Evidenzio altresì il dato economico poiché noto che, nonostante aumentino i prezzi, la qualità dei prodotti offerti in molti esercizi, sta invece progressivamente degenerando. E la nostra città non fa eccezione. Escludendo alcuni bar e pasticcerie che producono o offrono prodotti freschi, materie di prima qualità, una lavorazione accurata e quindi una godibilità e digeribilità massima, nella maggioranza degli esercizi le brioche che addentiamo quotidianamente sono, come dire, di tutt´altra pasta: abbondantemente farcite di chimica (tra acceleratori di lievitazione, conservanti e aromi che imitano penosamente i profumi degli ingredienti d´antàn), precotte, surgelate, scaldate malamente nei fornetti.
Rifletteteci un attimo, passate in rassegna ai bar che vi capita di frequentare o poneteci attenzione le prossime volte. Questi prodotti ormai li mangiamo per abitudine, o per fame, col cappuccino d´ordinanza o il nostro primo – fuori di casa - caffè quotidiano. Quando vedo questo tipo di “briochesina” la mia mente corre immediatamente alla “mitica Luisona” descritta nel libro “Bar Sport” di Stefano Benni e ai suoi effetti. Ce la ritroviamo nello stomaco, come un bel mattoncino untuoso che il fegato non gradisce per nulla (nel libro la descrizione è più pittoresca). Eppure riescono a propinarcele e le mangiamo pure. Con il salato andiamo già meglio. Negli stessi esercizi di cui sopra troviamo sì brioche salate con o senza sesamo, con prosciutto o altro, sempre un po’ dozzinali e industriali, ma solitamente viene affiancata una piccola offerta di piccoli panini freschi di panetteria variamente farciti. Nulla a che vedere con certi bar dove, abbinato al pane un po’ ricercato, vengono proposte fette di profumatissima mortadella o San Daniele, che ti mettono veramente nell’imbarazzo della scelta fra dolce e salato. Negli ultimi anni sia le associazioni di categoria che i produttori di caffè più importanti propongono, esortano, offrono corsi agli esercenti dei bar per permettere loro di stare al passo con le nuove esigenze e preferenze dei consumatori. Cercano di trasmettere metodologie di preparazione e presentazione dei prodotti per aumentare il gradimento dei clienti e la frequentazione del locale. Nonostante questi sforzi, a parte la proposta di brioche e panini, rilevo che ancora oggi in certi bar perfino il caffè non è preparato con quella cura e attenzione che permettono, ad esempio, di avere una certa “crema” naturale nella tazzina che ti consentono di assaporare pienamente questa meravigliosa bevanda (segnalo che il bicchierino d’acqua proposto in accompagnamento al caffè andrebbe bevuto prima – non dopo – per pulirsi la bocca e gustarne appieno la qualità). Pure il cappuccino subisce lavorazioni approssimative e provo sempre tristezza quando mi viene spacciato per tale una bevanda che dovrebbe avere una schiuma di latte in grado di trattenere per alcuni secondi lo zucchero in superficie, invece “flia via come l’olio” nel fondo della tazza. A quel punto meglio chiedere un latte macchiato.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 26 ottobre 2008

lunedì 20 ottobre 2008

La ricchezza deglia alberi del pane torna sulle tavole

In questo periodo autunnale – in verità dalla temperatura non si direbbe - tutti i fine settimana c’è un programma molto fitto e vasto di sagre dedicate ai prodotti più o meno tipici del territorio. Certamente nella nostra zona un ruolo centrale, oltre l’uva e il vino, ce l’ha la castagna o il marrone. La differenza sostanziale sta nel fatto che il marrone, più grosso, è un tipo di castagna derivante da determinate “famiglie” o “gruppi” d’origine.
Castel del Rio in particolare, ha nobilitato ulteriormente tale frutto facendo divenire il proprio Marrone un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta) e DOP (Denominazione d’Origine Protetta) brevettando, di fatto, il prodotto e valorizzando contemporaneamente il nostro territorio anche ai fini del turismo.
Il castagno ha rappresentato dal Medioevo e per lungo tempo la principale fonte di alimentazione delle popolazioni delle aree collinari e di media montagna, tanto da essere soprannominato "L'albero del pane". Essendo una pianta molto longeva – può raggiungere fino ai 400-500 anni di età – e donando frutti dal contenuto molto calorico, era una vera benedizione per le popolazioni locali che svolgevano una intensa e faticosa attività manuale nei campi, lottando quotidianamente con la miseria e la fame. Tra l’altro, contrariamente ad altri alimenti tipici della nostre zone come la polenta, erano un completo ed eccellente alimento per combattere la stanchezza, rinforzare i muscoli e arricchire il sangue.
Il declino del castagno iniziò dopo la seconda guerra mondiale a causa, principalmente, sia dello spopolamento delle aree rurali con conseguente riduzione della manodopera disponibile, sia del progressivo benessere che ridusse l’importanza alimentare del frutto, per proseguire fino ad un po’ di anni fa quando è iniziato un recupero a tutto tondo del prodotto, dalla sua coltivazione fino alla promozione e alla tutela.
Questo ritorno e recupero del marrone ci offre così oggi una golosissima opportunità di assaggiare, nelle sagre e nei ristoranti dell’Appennino tosco-romagnolo della Valle del Santerno, tutta una serie di specialità gastronomiche ad esso legate .
Voglio ricordare, a questo proposito, le infinite utilizzazioni delle castagne e della farina di castagne, che vanno dalla realizzazione dei “Capaltéz” (Cappellacci) al fagiano ai marroni, passando dai numerosissimi dolci tra cui vale la pena citare il “Castagnaccio”, il budino di marroni, le frittelle e i marroni al rhum, fino al Montebianco e alla Meringata di marroni. Su quest’ultimo dolce, mi perdonerete, non posso fare a meno di consigliare una visita al Ristorante “Gallo” di Castel del Rio, chiarisco che la qualità è ottima in generale, ma tenetevi “un buco” per ordinare la loro meringata di marroni. E’ qualcosa di veramente unico e delicato, lo raccomando anche a chi ritiene il marrone un po’ “pesante” come gusto e tende ad evitare i vari piatti che lo prevedono: rimarrà piacevolmente stupito dalla bontà.
Anche se oggi ritroviamo le castagne proposte per tutto l’anno, sono comunque un prodotto tipico dell’autunno e recano “il profumo” dell’inverno alle porte o riscaldano, allegramente accompagnate da un’Albana o da una Cagnina, le serate invernali di un “fine trebbo” con gli amici o un momento di intimità in casa di fronte al fuoco.
Mi preme segnalare, sempre a proposito di Castel del Rio, un’iniziativa legata ai marroni che si terrà martedì sera prossimo nel castello degli Alidosi a cura della ProLoco dal titolo: “La veggia de dolz” (la veglia del dolce). Di fatto un concorso a premi dei tre dolci migliori a base di marroni a cui tutti possono partecipare, previa iscrizione, con conseguente assaggio dei prodotti dei concorrenti, per il pubblico, a fine concorso. Nell’occasione la presidente della giuria, l’amica Alessandra Spisni ormai famosa perché ospite fissa a “La prova del cuoco” della Clerici, presenterà il suo ultimo libro di ricette. E’ un invito a partecipare a questo gustoso appuntamento.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 19 ottobre 2008

lunedì 13 ottobre 2008

Vendemmia, tempo di vino. I nuovi usi sulle tavole imolesi

Tempo di vendemmia, tempo di vino, che rimane protagonista delle tavole e degli aperitivi in Italia, ma non solo. Prepariamoci dunque alle nuove recensioni, alle nuove guide, alle etichette emergenti, alle degustazioni, senza mai perdere d’occhio il portafoglio. Soprattutto di questi tempi.
Ma non sempre è per forza l’annata o il prestigio del nome che ci devono far propendere per la scelta e conseguentemente la sua bontà, piuttosto un vino dovrebbe piacere per la sua capacità di emozionare, stupire, evocare pensieri, sensazioni, suscitare un ricordo. Non per nulla ci sono anche vini cosi detti “da meditazione”.
Parimenti non siamo tutti esperti enologi o fini sommeliers e non dobbiamo vergognarcene, se riteniamo di avere gusto e sensi un poco affinati siamo certamente in grado di capire se un vino è di nostro gradimento e ci trasmette qualche cosa o meno. Così come al ristorante non dobbiamo temere di fare brutte figure quando ci portano la bottiglia al tavolo e ce lo fanno assaggiare: se sa di tappo lo si dice, così come se non ci sembra a temperatura, tanto per fare qualche esempio.
A proposito di ristorante, segnalo che cambiano le abitudini anche nel bere e avanzano, giustamente, nuove usanze – all’estero più normali - come quella di portare via la bottiglia se ancora mezza piena, oppure di ordinare vino solo a bicchiere. A Imola il fenomeno, soprattutto il primo, non è ancora evidente. Un po’ perché, si sa, nelle città più piccole queste novità arrivano dopo, un poco perché proprio le dimensioni della città possono suscitare una certa vergogna nella richiesta: “Se provo a chiederla me la danno, ma poi con che coraggio me ne vado...”. Sarà però capitato a tutti qualche volta di ordinare una bottiglia - magari costosa – e di berne solo un paio di bicchieri. La tentazione di portarsela a casa l’avete certamente avuta. Nasce il problema di chiederlo. Sarebbe simpatico se fossero i ristoratori a fare il primo passo, senza bisogno di troppe parole. Basterebbe una piccola attenzione da “customer care” (leggi attenzione al Cliente), quando si sta per andare via ti viene consegnato un sacchetto cartonato con un bel sorriso.
L’altra buona pratica, come dicevo, che si sta diffondendo sempre di più è quella di servire il “vino al bicchiere” senza l'obbligo di acquistare l'intera bottiglia. Ritengo l’alternativa molto valida quando si va al ristorante da soli, oppure se si ha voglia di abbinare il giusto vino ad ogni piatto o ancora, più semplicemente, se si intende pasteggiare con un solo buon bicchiere. Evidentemente la scelta dei vini proposti non può essere vasta quanto quella dei vini presentati in bottiglia, ma noto che molti ristoratori offrono comunque una scelta di una certa qualità. Il problema principale, al ristorante, rimane la questione del prezzo. In molti casi non si spiegano certi aumenti dalla cantina al ristoratore, tenendo conto che ci sono cantine in difficoltà nonostante il mercato del vino continui a crescere.
Il vino rimane il miglior accompagnamento di un buon piatto per gli italiani e rappresenta una vera e propria passione anche in casa e con gli amici. Un piacere personale che conquista sempre più gente e tra cui molte sono donne, che si informano, partecipano a degustazioni, leggono e amano il vino. Rosso naturalente. Il rosso infatti si conferma il “re” incontrastato, anche se i bianchi avanzano. Un popolo quindi, quello degli amanti del vino, in continua crescita ed evoluzione, tanto che a livello internazionale si inizia già a parlare di una vera e propria “tribù”, quella dei Wine Lover, ovvero dei super appassionati che tutti i giorni o quasi accompagnano i pasti con il vino, degustano, acquistano guide per tenersi aggiornati e che per una bottiglia “speciale” sembrano disposti a spendere.Ma possiamo coltivare questa passione in altro modo, sdoganando l’aura di lusso che sembra pervadere l’ambiente. Basta (ri)scoprire tutti quei produttori che fanno vino “quotidiano” di ottima qualità, che racconta del nostro territorio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 12 ottobre 2008

venerdì 10 ottobre 2008

“Specialità Pesce”

Probabilmente l’occhio si è abituato e non notiamo più la frase nelle insegne dei ristoranti o nei menù, ma ormai la troviamo dappertutto: specialità pesce. Forse sarebbe meglio iniziare a sostituirla con “Non solo pesce”, visto che non è più un titolo distintivo, semmai è al contrario un appiattimento alla richiesta del mercato. Qualsiasi esercizio che abbia qualche parvenza di licenza per la cucina – ristoranti, trattorie, osterie, pizzerie, case del popolo, circoli sportivi o ricreativi – oggi ha un menù, più o meno ricco di pesce. Tutti vediamo che cambiano le abitudini della società per tanti aspetti e l’enogastronomia non fa eccezione. Negli ultimi 10-15 anni si è esplosa la “mania” per il pesce. Se fino a metà degli anni ’90 era difficile trovare nella “terra di mezzo” (quel territorio come il nostro che sta tra la collina e il mare) oppure negli Appennini, esercizi che proponessero menù ittici – se non quelli di una certa “caratura” – oggi la situazione è completamente mutata. La rendita di posizione dei ristoranti della riviera è praticamente sfumata. Il pesce si è “fatto strada” e le persone desiderano trovarlo pure sotto casa, senza dover fare troppi chilometri. Di conseguenza si è adeguata la ristorazione – pure sul prezzo - per soddisfare l’aumentata richiesta a cui ha contribuito , in parte, anche la moda per il “famoso” Sushi giapponese. Devo dire che a tavola la scelta di piatti di pesce sviluppa una comunicazione molto divertente, in cui si confrontano “esperti” che manifestano certezze elargendo, tra luoghi comuni e “falsi storici”, consigli, su cui primeggia sempre come più importante la disquisizione sul come riconoscere se il pesce servito sia fresco (sebbene il cameriere ci fornisca ampie assicurazioni). Il problema però resta: quanti ristoranti possono avere pesce veramente fresco ? Agli “esperti” la dotta risposta.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE l'11 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

Quei regali ai signori delle autostrade

La privatizzazione delle autostrade italiane è stata una sequela di regali ad un gruppo di imprenditori privati che, investendo cifre minime, hanno costruito imperi da miliardi di euro. Rischi prossimi allo zero per loro e vantaggi nulli per gli utenti. Lo denuncia Giorgio Ragazzi nel libro "I signori delle Autostrade" edito in questi giorni dal Mulino e di cui ampi estratti saranno disponibili sul sito lavoce.info. Ragazzi, professore di Economia Politica all' Univesità di Bergamo, con esperienze alla Banca Mondiale e all' Fmi, premette: «Non esiste nessun settore dove un governo, o addirittura un solo un ministro possa fare "regali" così imponenti, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali». Una pratica che viene da lontano: gran parte del network attuale è stato costruito tra gli anni '60 e ' 70, se i pedaggi servissero al concessionario per ammortizzare nel tempo il capitale investito, le tariffe su larghi tratti dovrebbero essere molto più basse delle attuali o addirittura pari a zero. Invece, sin dal '76, quando la proprietà era totalmente pubblica, alla concessionarie è stato permesso a più riprese di attualizzare il valore delle infrastrutture. L' aumento del patrimonio conseguito veniva riconosciuto dall' Anas come se fosse nuovo capitale immesso dai soci. Ai proprietari privati è stata riconosciuta la stessa prerogativa: la concessionaria deliberava che l' autostrada posseduta valeva di più (pur in mancanza di modifiche) e lo Stato riconosceva tariffe proporzionali al nuovo valore. Ecco il segreto di rendimenti esplosivi: «Per citare solo i casi più rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte il valore del suo investimento - rincara Ragazzi - l' imprenditore Gavio entrato nel settore meno di dieci anni addietro con un piccolissimo investimento e controlla oggi un impero che vale 4 miliardi». Non solo: per rendere più attraente le privatizzazioni il governo ha concesso una serie di proroghe alla durata delle concessioni in cambio di impegni a nuovi investimenti. Il risultato è che le tariffe sono salite regolarmente, mentre i nuovi tratti non sono stati realizzati se non in minima parte. Anche senza considerare le nuove opere promesse, gli extraprofitti sono stati garantiti da adeguamenti tariffari molto generosi (grazie a parametri arbitrari come premi-qualità, previsioni di crescita traffico irrealistiche). L' ultimo intervento del governo Berlusconi, che riconosce il recupero del 70% dell' inflazione ogni anno, rende ancora più certo e progressivo l' aumento delle entrate. L' ex ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro ha tentato ad opporsi alla «cuccagna», come la definì lui stesso, con una riforma radicale: «Di Pietro ha fallito - dice Ragazzi a Repubblica - perché ha tentato di azzerare la normativa esistente e l' Europa non lo poteva permettere». È possibile una soluzione diversa? Il libro ne indica due. Si potrebbe istituire una nuova autorità indipendente che definisca una tariffa unica nazionale per tutta la rete, ma alle concessionarie ne rimarrebbe solo una parte, cioè la quota sufficiente a remunerare il capitale effettivamente investito nelle opere esistenti. Gli incassi extra andrebbero in un fondo statale per finanziare nuove opere. «Si potrebbe fare già a legislazione vigente», spiega il professore. Improbabile che una tale soluzione venga presa in considerazione visto l' ottimo rapporto dei concessionari con l' attuale maggioranza, come testimonia l' ingresso in Cai di Atlantia e Gavio. L' altra riforma necessita che scadano le convenzioni (quella più importante con Atlantia/Autostrade scade solo nel 2038). A quel punto le tre funzioni connesse alla concessione come costruzione, manutenzione e raccolta dei pedaggi potrebbero essere assegnate ai privati separatamente. Un unbundling che può ridurre i costi per gli utenti e i vantaggi per i privati.
Luca Iezzi - Repubblica

mercoledì 8 ottobre 2008

La saggezza del dubbio

"In ogni cosa è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato."
Bertrand Russel

domenica 5 ottobre 2008

Quando l'ospitalità diventa arte del ricevere

Negli ultimi anni è stato un fiorire di libri di cucina, trasmissioni culinarie, riviste, eventi e molto altro ancora che hanno dato risalto all'arte del mangiar bene. I più attenti e interessati avranno compreso che a tale arte è legata anche una giusta concezione dell'ospitalità. La Romagna è una delle terre più votate a questo e sono un partigiano della valorizzazione di ciò che contribuisce alla realizzazione di uno dei momenti fondamentali della giornata, in cui, seduti a tavola si gustano cose buone insieme agli altri, che siano componenti della famiglia, amici, conoscenti o altri, per esaltare il gusto dello stare insieme in armonia. Non mi stancherò mai di ripeterlo che la tavola unisce e non divide.
Anche l’ospitalità, l’arte del ricevere, è composta di alcune regole generali a cui attenersi quando si decide di invitare qualcuno a casa per colazione (non la prima, quella del mattino per intenderci), pranzo o cena. Conoscerle può aiutare a trascorrere ore piacevoli con una punta di orgoglio per il risultato ottenuto. Un grande personaggio francese del secolo scorso disse: "Invitare qualcuno a pranzo significa occuparsi della sua felicità finché sarà sotto il nostro tetto". Naturalmente senza troppe ansie, la cosa dovrebbe sempre essere tenuta ben presente quando si pensa di invitare i propri ospiti. Questo significa preparare con cura non solo le pietanze, ma anche la tavola, scegliere con cura il servizio di piatti, posaterie e bicchieri, creando altresì una certa atmosfera ambientale fatta di musica, profumi e una certa scenografia al fine di creare nei commensali il giusto piacere di sedersi a tavola e un buon ricordo di quelle ore.
Tutto dovrà essere in tono per il tipo di persone che intendete ricevere. Per i colori consiglio senz’altro il bianco per incontri importanti, mentre si può dare più spazio ai colori o a fantasie allegre per inviti informali. La decorazione della tavola ha la sua importanza e la regola aurea è: non deve mai essere d’intralcio alla comunicazione durante il convivio, perciò qualsiasi cosa scegliate di utilizzare non deve mai sovrastare il viso dei commensali. Pertanto nel caso si decida di usare fiori prendeteli con il gambo corto, non in contrasto con l’ambiente e senza profumo per non coprire gli aromi delle portate. Una variante ai fiori è costituita da composizioni di frutta fresca e verdura. Bene parimenti candelabri o candele, ma vigono le stesse regole.
La tavola deve essere dimensionata al numero di invitati per evitare un gomito a gomito dei commensali con il rischio di scene fantozziane. La tovaglia meglio se di cotone, immacolata, oppure con motivi decorativi se adatta al tipo di convivio. Un’alternativa sono le tovagliette dette “all’americana”. La tavola deve essere già apparecchiata all'arrivo degli ospiti e la diposizione dei piatti è la seguente: un sottopiatto – un tocco di raffinatezza è costituito da sottopiatti in argento o ceramica (la cooperativa ceramica di Imola ne fa dei bellissimi), un piatto piano, un piatto fondo o un piatto piccolo per gli antipasti e un piattino per il pane. Le posate devono sempre essere disposte nell'ordine in cui vengono utilizzate, partendo da quelle più esterne per l'antipasto arrivando ai secondi. I coltelli vanno a destra con la lama rivolta verso i piatti, il cucchiaio se necessario, alla destra dei coltelli. In caso serviate pesce, le apposite posate vanno posizionate ancora più esternamente. Centralmente in alto rispetto al piatto vanno le posate da frutta e da dessert. Il coltello con la lama rivolta verso il piatto e l'impugnatura a destra, mentre la forchetta con l’impugnatura a sinistra e più esternamente il cucchiaio con il manico sempre verso destra. Posizionate i bicchieri davanti al piatto a destra, i più grandi e vicini al piatto sono quello per l'acqua e quello per il vino rosso, leggermente più a destra mettete quello per il vino bianco e dietro la flute per il vino da dessert. Sopra le posate a sinistra il piattino del pane. Il tovagliolo, che sia generoso nelle dimensioni, va collocato generalmente sul piatto. I padroni di casa devono sedersi ai due lati opposti della tavola, tenendo alla propria destra ognuno gli invitati di maggior importanza, ma di sesso opposto. Evitare assolutamente di proporre tavole “alla romagnola”: tutti gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Le donne normalmente, e a ragione , non apprezzano, per cui alternate uomo e donna. Un “tocco di classe” conclusivo è quello di diffondere durante tutta la durata del convivio piacevole “Musica da Tavola” o “Tafelmusik” (dalla terra d’origine, la Germania, 1600 – 1700) come accade nei ristoranti importanti (vedi ad Imola il San Domenico).
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 5 ottobre 2008

mercoledì 1 ottobre 2008

I Padroni dell'Universo


«Dove sono finiti i Padroni dell’Universo, quei giovanotti ambiziosi capaci di mettersi in tasca milioni di dollari all’anno in premi di produttività operando in banche di investimento? In pochi giorni questo mondo è sprofondato. Ma non versate lacrime. La maggior parte di loro ha già il suo gruzzolo al sicuro con interessi adeguati per vivere comodamente».

Tom Wolfe, autore de «Il Falò delle Vanità» sul mondo della finanza, New York Times

martedì 30 settembre 2008

Musei del Gusto: "Un legame con il passato, una risorsa turistica per il futuro"

In un periodo in cui si parla molto del pericolo di perdere memoria della nostra storia, la Regione Emilia Romagna ha certamente contribuito a dare un segnale forte e importante per la salvaguardia del “ricordo” di un popolo. Durante il “Sana 2008” – il salone internazionale del naturale – tenutosi come ogni anno a Bologna a metà settembre , la Regione ha infatti presentato il network de “I musei del gusto” (http://www.museidelgusto.it/ ) , oltre ad un libro ad essi dedicato. In pratica si tratta di una rete di 19 musei, in cui troviamo dai “nostri” Museo del castagno, Museo all’aperto dell’Olio di Brisighella e Museo della Frutticoltura, fino al Museo del Parmigiano-Reggiano o del Salame Felino.
Trovo l’idea interessante perché offrono una duplice opportunità: una legata appunto alla nostra storia, l’altra alla possibilità di utilizzare tale iniziativa per fare “marketing enogastronomico a rete” a favore di tutto il territorio regionale e per questo, non a caso, molti musei propongono gli stessi itinerari delle Strade dei Vini e dei Sapori. I musei del gusto possono diventare uno strumento che coniuga quindi tradizione e innovazione, divenendo espressione di un’innovativa forma di turismo che intende conservare e scoprire la cultura di un territorio attraverso i suoi prodotti enogastronomici. Anche dal cibo si possono apprezzare le tradizioni, la storia e la cultura di un territorio, la civiltà della tavola contribuisce al mantenimento della memoria di un popolo. D’altronde troviamo un legame sempre più forte tra cibo e cultura perché il cibo è cultura e questo patrimonio ricco di contenuti deriva, mai dimenticarlo, dalla terra. Ecco quindi i musei assumere una funzione di cerniera tra passato e presente, ricordandoci come la nostra storia sia legata ad essa e all’esperienza contadina trasmettendoci, attraverso le emozioni di personaggi veri, le loro facce, le loro mani e quindi il loro lavoro, un giusto orgoglio di appartenenza e il valore di una vita fatta spesso di sacrifici, di rinunce, e anche di lotte, che hanno però permesso di consegnare a noi una terra invidiata da molti. Ci ricordano altresì che certi valori che oggi paiono desueti, sono invece fondamentali per il nostro futuro. I “musei del gusto” ci parlano di cose e di simboli, da come si coltiva un vigneto a come si fabbrica un formaggio, da come si fa l’olio a come si innesta un albero da frutto, ma anche dei valori di socialità che queste pratiche hanno sviluppato fra gli uomini.
Infine, ma non meno importante valorizzano il patrimonio regionale degli stessi prodotti a qualità certificata, costituiti da 26 DOP e IGP e oltre 200 prodotti censiti come “Tradizionali”, eccellenze importanti che contribuiscono a mantenere un’immagine della nostra regione come una terra del “bon vivre”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 25 settembre 2008

sabato 27 settembre 2008

Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà

di Roberto Saviano
I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così. Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle. E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"? Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage. Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria. Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli. Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali. Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati. Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone. Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico? Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato. Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri. E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ?ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita. Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. "Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.