domenica 31 agosto 2008

"FATE BATTERE I VOSTRI CUORI ALL'UNISONO CON LE MIE PAROLE"

Discorso tenuto da Gandhi alla Conferenza delle relazioni interasiatiche,
New Delhi, 2 aprile 1947.
Traduzione e commento a cura di Tara Gandhi.
Signora Presidente e amici, non credo di dovermi scusare con voi per il fatto che sono costretto a parlare in una lingua straniera. Chissà se questi altoparlanti porteranno la mia voce fino ai confini di questo immenso pubblico. Quelli di voi che sono lontani possono alzare la mano, se sentono quello che dico? Sentite? Bene. Bene, se la mia voce non vi giunge, non è colpa mia, ma colpa degli altoparlanti.
Quello che volevo dirvi è che non devo scusarmi: Non oso, visti tutti i delegati che si sono riuniti qua da tutta l'Asia, e gli osservatori - ho imparato questa parola pronunciata da un amico americano che disse: "Non sono un delegato, sono un osservatore": Di primo impatto con lui, vi assicuro, pensavo venisse dalla Persia, ma ecco davanti a me un ameri­cano e gli dico: "Sono terrorizzato da te, e vorrei che mi lasciassi stare": Potete immaginare un americano che mi lasci stare? Non lui e, quindi, ho dovuto parlargli.
Quello che volevo dirvi è che Il mio idioma per me madrelingua, non lo potete capire, e non voglio insultarvi insistendo su di esso. Il linguaggio nazionale, Hindustani, ci metterà tanto tempo prima di rivaleggiare con un linguaggio internazionale.
Se ci deve essere rivalità, c´è rivalità tra francese e inglese. Per il commercio internazionale, indubbiamente l'inglese occupa il primo posto. Per discorsi e corrispondenza diplomatici, sentivo dire quando studiavo da ragazzo che il francese era la lingua della diplomazia e se volevi andare da una parte all'altra dell´Europa dovevi provare ad imparare un po´ di fran­cese e quindi ho provato ad imparare qualche parola di francese per riuscire a farmi capire. Comunque, se ci deve essere rivalità, la rivalità potrebbe nascere tra francese e inglese. Quindi, avendo imparato l´inglese, è naturale che faccia ricorso a questa parlata internazionale per rivolgermi a voi.
Mi chiedevo di cosa dovessi parlarvi. Volevo raccogliere i miei pensieri; ma lasciate che sia onesto con voi, non ne ho avuto il tempo.
Però ieri ho comunque promesso che avrei provato a dirvi qualche parola.
Mentre venivo con Badshah Khan, ho chiesto un piccolo pezzo di carta ed una matita. Ho ricevuto una penna invece di una matita. Ho provato a scarabocchiare qualche parola. Vi spiacerà sentirmi dire che quel pezzo di carta non è qui con me. Ma questo non importa, ricordo cosa volevo enunciare e mi sono detto: "I miei amici non hanno visto la vera India e non ci stiamo incontrando in una conferenza nel cuore della vera India".
Delhi. Bombay, Madras, Calcutta, Lahore - queste sono tutte grandi città e quindi, hanno subito l´influenza dell'Occidente, sono state fatte, magari eccetto Delhi ma non New Delhi, sono state fatte dagli inglesi. Poi ho pensato ad un breve saggio - credo che dovrei chia­marlo così - che era in francese. Era stato tradotto per me da un amico anglo-francese. e lui era un filosofo, era anche un uomo altruista e diceva che mi aveva dato la sua amicizia senza che io lo conoscessi, perché lui parteggiava per le minoranze ed io rappresentavo, assieme ai miei connazionali, una minoranza senza speranze, e non solo senza speranze ma una minoranza disprezzata.
Se gli europei del Sudafrica mi perdonano per quello che dico, eravamo tutti "coolies" [lavoratore non qualificato a basso costo]. lo ero un insignificante avvocato "coolie": A quei tempi non avevamo dottori "coolie"; non avevamo avvocati "coolie": Ero il primo nel campo. Ma sempre un "coolie". Magari sapete cosa si intende con la parola "coolie" ma questo mio amico, si chiamava Krof - sua madre era francese, suo padre Inglese - disse: 'Voglio tradurre per te una storia francese':
Mi perdonerete, chi di voi sa la storia, se nel ricordarla faccio degli errori qua e là, ma non ci sarà nessun errore nell'avvenimento principale.
C'erano tre scienziati - ovviamente è una storia inventata - tre scienziati uscirono dalla Francia, uscirono dall'Europa alla ricerca della `Verità´: Questa era la prima lezione che mi aveva insegnato quella storia, che se bisogna cercare la verità, non la si trova su suolo europeo. Quindi, indubbiamente neanche in America.
Questi tre grandi scienziati andarono in parti diverse dell´Asia. Uno trovò la strada per l'India e diede iniziò alla sua ricerca. Raggiunse le cosiddette città di quei tempi. Natural­mente, ciò avvenne prima dell'occupazione inglese, prima anche del periodo Mughal, così è come ha illustrato la storia l'autore francese, ma visitò comunque le città, vide la gente delle cosiddette caste alte, uomini e donne, fino a che non si addentrò in un´umile casa, in un umile villaggio, e quella casa era una casa Bhangi, e trovò la verità che stava cercando, in quella casa Bhangi, nella famiglia Bhangi, uomo, donna, forse 2 o 3 bambini (lo dico come me lo ricordo) e poi lui descrive come la trovò. Tralascio tutto que­sto.
Voglio collegare questa storia a quello che voglio dire a voi, che se volete vedere il meglio dell'India, dovete trovarlo in una casa Bhangi, in un umile casa Bhangi, o villaggi simili, 700.000 come ci insegnano gli storici inglesi. Un paio di città qua e là, non ospitano nean­che qualche crore [unità di misura indiana che equivale a 10 milioni] di persone. Ma i 700.000 villaggi ospitano quasi 40 crore di persone. Ho detto quasi perché potremmo togliere una o due crore che stanno in città, comunque sarebbero 38 crore.
E poi mi sono detto, se questi amici sono qui senza trovare la vera India, per cosa saranno venuti? Ho poi pensato che vi pregherò di immaginare quest'India, non dal punto di vista di questo immenso pubblico ma per come potrebbe essere. Vorrei che leggeste una storia come questa storia dei francesi o altre ancora. Magari, qualcuno di voi vada a vedere qual­che villaggio dell'India e allora troverà la vera India.
Oggi farò anche questa ammissione: non ne sarete affascinati alla vista. Dovrete raschiare sotto i mucchi di letame che sono oggi i nostri villaggi. Non voglio dire che siano mai stati dei paradisi. Ma oggi sono veramente dei mucchi di letame; non erano cosi prima, di que­sto sono abbastanza certo. Non l´ho appreso dalla storia ma da quello che ho visto io stesso dell'India, fisicamente con i miei occhi; e io ho viaggiato da una parte all'altra dell'India, ho visto i villaggi, i miserabili esemplari dell'umanità, gli occhi senza vita, eppure sono l´India, e ciononostante in quelle umili case, nel mezzo dei mucchi di letame troviamo gli umili Bhangis, dove troverete un concentrato di saggezza. Come? Questa è una grande domanda.
Bene, allora voglio illustrarvi un altro scenario. Di nuovo, ho imparato dai libri, libri scritti da storici inglesi, tradotti per me. Tutta questa ricca conoscenza, mi spiace dire, arriva qui da noi in India attraverso i libri inglesi, attraverso gli storici inglesi, non che non ci siano storci indiani ma neanche loro scrivono nella loro madrelingua, o nella loro lingua nazio­nale, Hindustani, o se preferite chiamarli due idiomi, Hindi e Urdu, due forme della stessa lingua. No, ci riferiscono quello che hanno studiato sui libri inglesi, magari gli originali, ma attraverso gli inglesi in inglese, questa è la conquista culturale dell'India, che l'India ha subito.
Ma ci dicono che la saggezza è arrivata dall'Occidente verso l'Oriente. E chi erano questi saggi? Zoroastro. Lui apparteneva all´Oriente. Fu seguito da Buddha. Lui apparteneva all'Oriente, apparteneva all'india. Chi ha seguito il Buddha? Gesù, di nuovo dall'Asia. Prima di Gesù ci fu Musa. Mosè, che apparteneva anche lui alla Palestina, ma verificavo con Badshah Khan e Yunus Saheb ed entrambi sostenevano che Mosè appartenesse alla Palestina, sebbene fosse nato in Egitto. Poi venne Gesù, poi Mohammad, Tutti loro li trala­scio. Tralascio Krisna, tralascio Mahavir, tralascio le altre luci, non le chiamerò luci minori, ma sconosciute in Occidente. sconosciute al mondo letterario.
In ogni modo, non conosco una singola persona che possa uguagliare questi uomini d´Asia. E poi cosa accadde? Il Cristianesimo, arrivando in Occidente, si è trasfigurato. Mi spiace dire questo, ma questa è la mia lettura. Non dirò altro al riguardo. Vi racconto questa sto­ria per incoraggiarvi e per farvi capire, se il mio povero discorso può farvi capire, che lo splendore che vedete e tutto quello che vi mostrano le città indiane non è la vera India. Certamente, il massacro che avviene sotto i vostri occhi, mi dispiace, vergognoso come dicevo ieri, dovete seppellirlo qui. Il ricordo di questo massacro non deve oltrepassare i confini dell'India, ma quello che voglio voi capiate, se potete, è che il messaggio dell'Oriente, dell´Asia, non deve essere appreso attraverso la lente occidentale, o imitando gli orpelli, la polvere da sparo, la bomba atomica dell´Occidente.
Se volete dare di nuovo un messaggio all'Occidente, deve essere un messaggio di Amore; un messaggio di "Verità".
Ci deve essere una conquista (applausi) per favore, per favore, per favore. Questo interferi­sce con il mio discorso, e interferisce anche con la vostra comprensione. Voglio catturare i vostri cuori e non voglio ricevere i vostri applausi, Fate battere i vostri cuori all'unisono con le mie parole e io credo che il mio lavoro sarà compiuto. Voglio lasciarvi con il pensiero che l´Asia debba conquistare l'Occidente. Poi, la domanda che mi ha fatto un mio amico ieri. Se credevo in un mondo unico?': Certo, credoinunmondounico. Come posso fare diversamente, quando divento erede di un messaggio di amore che questi grandi, incon­quistabili maestri ci hanno lasciato? Potete esprimere questo messaggio di nuovo ora, in questa era di democrazia, nell´era del risveglio dei più poveri dei poveri, potete esprimere questo messaggio con maggiore enfasi. Poi completerete la conquista di tutto l'Occidente, non attraverso la vendetta perché siete stati sfruttati, e nello sfruttamento voglio ovvia­mente includere l'Africa, e spero che quando vi reincontrerete in India la prossima volta ci sarete tutti: spero che voi, nazioni sfruttate della terra, vi incontrerete, se a quell'epoca ci saranno ancora nazioni sfruttate.
Ho forte fiducia che se unite i vostri cuori, non solo le vostre menti, e capite il segreto dei messaggi che i saggi uomini d'Oriente ci hanno lasciato e che se veramente diventiamo, meritiamo e siamo degni di questo grande messaggio, allora capirete facilmente che la conquista dell'Occidente sarà stata completata e che questa conquista sarà amata anche dall'Occidente stesso.
L´Occidente di oggi desidera la saggezza. L'Occidente di oggi è disperato per la prolifera­zione della bomba atomica, perché significa una completa distruzione, non solo dell'Occidente, ma la distruzione del mondo, come se la profezia della Bibbia si avverasse e ci fosse un vero e proprio diluvio universale. Voglia il cielo che non ci sia quel diluvio e non a causa degli errori degli umani contro se stessi. Sta a voi consegnare il messaggio al mondo, non solo all´Asia, e liberare il mondo dalla malvagità, da quel peccato.
Questa è la preziosa eredità che i vostri maestri, i miei maestri, ci hanno lasciato.
M. K. Gandhi

mercoledì 27 agosto 2008

Le regole del bon ton a tavola valgono a casa e al ristorante

Parlando di Civiltà della Tavola qualcuno mi ha chiesto se in questa definizione rientrano anche le regole della buona creanza dello stare a tavola – a casa, da amici, al ristorante – e del ricevere. La risposta è affermativa. Anche questi aspetti vanno a comporre quel “sapere” che si concretizza in cultura e conoscenza, quindi civiltà nello stare insieme.
Dal momento che a breve si riprenderà anche una certa frequentazione dei locali, ho pensato di illustrarvi brevemente alcune regole basilari del “Bon Ton” che tutti dovrebbero conoscere nel frequentare ristoranti di ogni livello, osterie, trattorie, pizzerie di sorta o case private. Il comportamento e le forme richieste nello stare a tavola sono univoche. Il rispetto di certe regole sono frutto di logiche di attenzione, convivenza e rispetto tra simili e non un fatto di snobismo o di “classe” sociale. Di questi tempi in cui pare che la “razza cafona” sia imperante in ogni dove, spero che queste righe possano concorrere, anche minimamente, alla causa del bello e del gusto.
Detto ciò iniziamo immaginando di avere invitato una signora a cena in un ristorante. Entrando, al contrario di quanto prescritto in una sala da pranzo o nel salotto di una dimora privata, l’uomo precede la donna. Questo non è un segno di “machismo”, ma ogni uomo ha il dovere di proteggere e salvaguardare la donna da pericoli o imbarazzi. Pertanto il cavaliere ha il compito di verificare, con un rapido sguardo di esplorazione, l’ambiente e farsene garante. Una volta entrati è sempre l’uomo che dialoga con il personale, fa accomodare la signora al tavolo in modo che guardi sempre la sala, mai il muro – è lei che deve essere ammirata – e sarà sempre lui che interroga la donna assecondandone desideri o preferenze e procedendo poi con le ordinazioni. Nei confronti del personale si dimostra rispetto, non si chiama dal tavolo il cameriere schioccando le dita, dandogli la voce o altro, ma basta un’occhiata o un gesto rapido e discreto con la mano. Se si è in due non si dovrebbe mai abbandonare l’ospite per salutare qualcuno ad un altro tavolo e se tra i nuovi arrivati che si avvicinano c’è una donna, si accenna all’atto di alzarsi. Ciò vale anche ogni qualvolta una signora che è con noi – anche tra più commensali - lasci il tavolo. Per cortesia poi spegnete il telefonino o almeno silenziatelo. Altra raccomandazione, non dite mai “buon appetito”, ovunque noi siamo ci stiamo per cibare di buoni piatti non ci sfamiamo per placare la fame. Anche la scelta del vino spetta all’uomo che lo assaggerà prima e, se il cameriere trascura di versarlo, è sempre suo compito versarlo alla donna unitamente all’acqua. Appena seduti il tovagliolo va spiegato sulle ginocchia e non infilato al collo e neppure lasciato sul tavolo. Alla tavola si appoggiano i polsi e non i gomiti e non si gioca con le posate, anche se siete nervosi perché non sapete come finirà la serata…
Nel caso siate in un ristorante di un certo livello e troviate più posate da una parte e dall’altra del piatto, si parte sempre usando quelle più esterne e quando fate una pausa tra un boccone e l’altro vanno appoggiate nel piatto – senza toccare la tovaglia e quindi sporcarla – in posizione “8 e 20” (immaginando che il piatto sia un orologio). Mentre quando avete terminato entrambe le posate vanno poste in “ore 4 e 20”. Si inizia a mangiare quando tutti i commensali hanno la pietanza servita e ci si comporta con garbo e misura senza sbraitare, agitarsi, parlar forte. Non bisognerebbe chinarsi verso il piatto, ma rimanere in posizione eretta e sollevando piccole quantità portandole verso la bocca e, assolutamente orrido ma purtroppo ancora spesso visto, si mastica a bocca chiusa bevendo solo dopo aver terminato tale operazione, naturalmente senza parlare con la bocca piena. Mi raccomando poi di non usare mai lo stuzzicadenti anche se ve lo propongono.
Il conto si chiede con discrezione, si controlla velocemente e si paga in modo quasi furtivo, evitando di mostrare alla signora l’entità, ed è preferibile utilizzare la carta di credito. La mancia se siete rimasti soddisfatti andrebbe sempre lasciata (circa un dieci per cento dell’importo). Uscendo è sempre l’uomo che precede la donna, ma tenendo la porta aperta per galanteria in modo che sia la prima ad uscire.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 24 agosto 2008

martedì 26 agosto 2008

Lo sport è il simbolo della vita reale

Lo sport è uno dei più grandi patrimoni dell'umanità. Riproduce su un piano simbolico la realtà della vita, che è guerra, è lotta, è sofferenza, disperazione, rabbia, gioia, soddisfazione e felicità.
Quando pratichi uno sport, soprattutto a livello agonistico, ogni partita è una battaglia: se vinci vivi, se perdi muori sempre un poco. La grandezza dello sport sta però nel fatto che subito dopo rinasci. Ed ogni sconfitta non è mai definitiva, puoi trovare sempre la forza per un'altra battaglia, per un'altra occasione.
La capacità di competere, di vincere o perdere, di elaborare la sconfitta per poi tornare a confrontarsi è il fondamento anche della nostra vita. Ogni giorno.
Metodo, preparazione, studio, tenacia, ricerca dell'eccellenza, ripetizione, rivisitare continuamente il proprio modulo o stile di gioco al fine di rivederlo, ripensarlo, aggiornarlo, perfezionarlo. Così nello sport, ma anche nella vita vissuta, nel lavoro. Con un unico obiettivo: arrivare a "giocare la finale", il maggior numero di finali possibili per avere più occasioni. Alcune si perdono e ci si sente morire, altre si vincono e ci si sente immortali.
Questo è il gioco, questa è la vita e bisogna accettarlo.

lunedì 25 agosto 2008

La forza dell'Ideale

Non esiste alcuna forza così democratica come la forza esercitata da un'Ideale.
Calvin Coolidge

giovedì 21 agosto 2008

Il più bello dei mari

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.
Nazim Hikmet

martedì 19 agosto 2008

Cultura e Tradizione le basi della Civiltà della Tavola

In questa domenica che arriva al termine di un periodo particolarmente festivo per Imola, complice il mese, il Patrono e il Ferragosto, vi intrattengo brevemente sul valore che ricopre la enogastronomia italiana nel nostro paese e nel mondo. Un patrimonio che io riassumo nell’espressione “Civiltà della Tavola”.
Questo capitale che il mondo ci invidia – unitamente a quello artistico e paesaggistico – è il summa di tutte le cucine territoriali, non esiste una cucina italiana, che deve innovarsi pur senza perdersi, coniugando tradizione e innovazione salvaguardando i prodotti tipici delle zone di appartenenza. Allo stesso tempo è sapere, conoscenza, sedimentazione di esperienze secolari, buon gusto, attenzione e amore per la cucina. In sostanza la “Civiltà della Tavola” esprime i saperi di un popolo e serve contemporaneamente a mantenerne memoria, anche per le generazioni future.
Ma cosa concorre al mantenimento e alla salvaguardia di questo nostro capitale enogastronomico ? Provo di seguito ad elencarne gli aspetti salienti.
Innanzi tutto la cultura. La cucina e soprattutto la gastronomia sono cultura, con tutto il loro bagaglio di storia, di tradizione, di forte incisività sulla struttura sociale.
Poi la tradizione, in un mondo sempre più attento ai valori dell’ambiente è fondamentale la difesa e la valorizzazione della cucina regionale legata al territorio, alle sue tradizioni, ai suoi prodotti tipici. Le varie sagre e feste popolari svolgono, ad esempio, un ruolo fondamentale in questo senso a patto che siano sempre e in ogni caso legate al territorio, all’ambiente ed alle autentiche tradizioni locali.
Altro aspetto è la Convivialità, perché il “trovarsi” a tavola deve rimanere un momento d’aggregazione famigliare o di amicizia e non un atto di mera esibizione. Il Convivio deve essere un momento di felice parentesi di conversazione, di gioia, di piacere e di amicizia, senza dimenticare il grande valore educativo della tavola famigliare, elemento essenziale e propedeutico per l’educazione al gusto delle giovani generazioni.
Anche la genuinità dei prodotti agroalimentari è importante perché non rappresenta solo un valore economico, ma assume sempre più i contorni di un’imprescindibile necessità sociale. La qualità e la genuinità vanno di pari passo con la tradizione consolidata nelle coltivazioni e nell’allevamento, frutto d’esperienze millenarie, sia pure con corretti accorgimenti tecnologici. Su questo aspetto si innesta un filone, che non approfondisco oggi per motivi di spazio, su cui occorre mantenere la massima vigilanza: i “falsi gastronomici”, un vero flagello per l’Italia, prodotti meramente commerciali e speculativi di tendenze talvolta anche nocive per la salute.
Altro aspetto è dato dal vino. L’enologia italiana ha fatto passi da gigante sia sul terreno della qualità, sia su quello della commercializzazione e oggi i vini italiani sono apprezzati in tutto il mondo; il vino è ormai considerato un elemento essenziale di una buona gastronomia.
Contrasto alle “mode alimentari”. Questa è un’ epoca contrassegnata in maniera sempre più invasiva da una serie di mode e contro mode che interessano da vicino la gastronomia e che si associano ad una perdita delle tradizioni alimentari, ma soprattutto di precisi punti di riferimento gastronomici (vedi fast food, diete più o meno strampalate o tendenze commerciali).
Vigilanza sulle così dette “tecnologie avanzate”: biodiversità, manipolazioni genetiche, coltivazioni biologiche e altri procedimenti di cui si discute molto, ma allo stato s’ignorano tanto i rischi quanto i benefici. L’avanzata di questi sistemi produttivi e di conservazione rischiano di snaturare sapori, profumi ed anche le componenti organolettiche dei cibi.
Importante è il monitoraggio della ristorazione. In Italia la ristorazione pubblica ha compiuto un grandissimo miglioramento, ma a volte si registrano cadute di autenticità e una sperimentazione fine a se stessa tramite la rivisitazione spesso arbitraria di ricette tradizionali consolidate. Il rischio è quello di cancellare, nell’immaginario collettivo, il buon nome della tavola italiana. Invece il ruolo di una ristorazione d’alta qualità è indispensabile per la formazione del gusto e per la “Cultura della Tavola”.
Infine occorre investire sulle famiglie, la scuola e i giovani. Gli enti e le organizzazioni preposti dovrebbero rendere più aderenti alla realtà sociale i principi di educazione alimentare fin dalle scuole elementari e medie, oggi basati unicamente sulle proprietà nutritive di un ingrediente, dando scarso rilievo alla sua preparazione. Sarebbe invece fondamentale investire su un progetto di educazione alimentare tale da favorire nelle giovani generazioni il gusto e il buon gusto del cibo, il piacere, le “regole” della convivialità e dello stare a tavola, riscoprendo in particolar modo quella famigliare. Investire nelle generazioni future, coinvolgendo contemporaneamente le famiglie, è un punto fondamentale per tramandare e mantenere nel tempo questo patrimonio che contribuisce a costituire quella che oggi viene chiamata “soft economy”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 17 agosto 2008

lunedì 18 agosto 2008

Vino Doc in scatola, l'Italia ha detto si


Contenitori "bag in box" invece della bottiglia. Il ministro Zaia: "E’ il mercato che vuole così"
VANNI CORNERO - La Stampa
Su una cosa sono tutti d’accordo: non fa male. Il decreto del ministero delle Politiche agricole che dà la possibilità di confezionare i vini Doc nel tetrapak o nel «bag in box» (confezioni in sacche d’alluminio o plastica) invece che nelle bottiglie di vetro è stato accolto più come una scelta imposta da una parte dei consumatori europei che come un’attentato alla tradizione. E sull’eventualità che il contenitore possa essere dannoso alla salute di chi beve cedendo al vino le sue componenti nessuno avanza timori.La linea di demarcazione è stata fissata sotto la quota dei vini Doc designabili con l’indicazione della sottozona o di «riserva», «superiore», «vigna» e altre menzioni tradizionali. «Abbiamo preso atto delle richieste del mercato - commenta il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia - in particolare della domanda dei Paesi del nord Europa, dove il “bag in box” può essere un utile strumento di penetrazione per il vino italiano. Contemporaneamente, però, abbiamo voluto salvaguardare l’immagine delle nostre migliori produzioni, fissando condizioni particolarmente restrittive per l’utilizzo di questi tipi di contenitori. Inoltre la facoltà di richiedere l’utilizzo del “bag in box” spetta al Consorzio di tutela».Insomma, una decisione pragmatica, presa anche considerando che i francesi, nostri storici concorrenti, il tetrapak lo usano da tempo. Una scelta che vede il Piemonte tra i promotori, come sottolinea l’assessore regionale all’agricoltura, Mino Taricco: «Il decreto darà alle denominazioni ad ampia ricaduta territoriale l’opportunità di sperimentare nuove tipologie di commercializzazione e approcciare nuovi interessanti sbocchi di mercato».Qualche riserva sull’opportunità di aprire al «bag in box» lo avanza il direttore di Assoenologi, Giuseppe Martelli: «I dati dell’export dei primi quattro mesi 2008 indicano crescite attorno al 10%, quindi forse non era così urgente girare pagina. Detto questo è chiaro che in un mercato dove il vino non ha tradizioni, come nel Nord Europa, il contenitore è assolutamente ininfluente: la cosa importante è il rapporto qualità-prezzo. Noi però abbiamo fiori all’occhiello da difendere che potrebbero accusare un effetto-tetrapak indiretto sulla loro immagine. Quindi non è detto che si debba seguire a tutti i costi le indicazioni di un mercato, anche perchè, una volta aperta una porta di lì ci può passare di tutto».Decisamente deluso Gigi Piumatti, curatore della «Guida ai vini d’Italia» di Slow Food e del Gambero rosso: «Ormai si va verso il fondo. L’Italia ha delle Doc che hanno diritto a tutto ciò che meritano: buoni tappi, eleganti etichette, e belle bottiglie. E’ il vetro, per tradizione e purezza, il miglior contenitore per il vino».Alla Caviro (1,7 milioni di ettolitri all’anno) aderente a Fedagri, madre del «Tavernello» c’è aria di vittoria, loro l’alternativa tetrapak la praticano dal 1983: «E’lo sdoganamento di un pensiero, la conferma che le nostre scelte sono state preveggenti», dice il presidente, Secondo Ricci. «E’un’apertura verso il mercato, ma solo per chi vorrà chiederla», chiarisce il presidente di Fedagri, Paolo Bruni.Riccardo Ricci Curbastro, produttore di vino in Franciacorta e presidente della FederDoc, che riunisce i consorzi di tutela italiani taglia corto: «Opporci? No,bisogna prendere atto che il mercato cambia. Quando si è abbandonato il fiasco per la bottiglia sembrava morire un simbolo dell’italianità, invece non è successo niente. Certo l’attenzione è d’obbligo, bisogna evitare fughe in avanti, ma senza fare tragedie».

domenica 17 agosto 2008

Razza cialtrona

Da un articolo dell'Espresso a cura di Riccardo Bocca. Consiglio di leggerlo integralmente, qui riporto alcuni punti. Devo dire, purtroppo, che condivido pienamente la sua analisi e sono estremamente poco fiducioso in un miglioramento, se non si riparte dall'educazione ai Valori, all'Etica e al senso dello Stato di tutti i giovani fin dall'infanzia. Siano essi figli di italiani o immigrati.
Furbizia, arroganza, impunità: sono i nuovi valori dominanti. Che contagiano tutte le categorie: medici e postini, avvocati e operai.
L'impunità come valore. La furbizia come stile di vita. L'illegalità come logica conseguenza.
Una nazione in agonia che non ha rispetto di e di chi la abita, dal presidente del Consiglio in giù.
Una tradizione quanto mai solida: dal Principe di Macchiavelli alle bugie di Arlecchino, ma che è giunta alle estreme conseguenze adesso, con il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale.
C'è qualcosa di più profondo e amaro, in questa Italia cialtrona. C'è l'altra faccia dei connazionali che invocano la gogna per la classe politica, la scandalosa Casta, e poi la superano in disinvoltura. Medici e avvocati, costruttori e negozianti, portalettere e operatori turistici, consulenti e operai... non manca nessuno.
Lo slogan vincente nell'Italia cialtrona, è: non disturbare per non essere disturbati. Tutto si tiene, tutto è abitudine. Sondati dal "Wall Street journal", gli italiani hanno ammesso senza vergogna di barare negli affari (40 per cento) e nello sport (32 per cento). Ancora: una indagine di Monster.it, sito di annunci lavorativi, dice che un connazionale su quattro tarocca il curriculum. E se il 50,4 per cento considera "giusto" essere sinceri, il 48,2 dice che "è giusto, ma a determinate condizioni". Chi insiste a rispettare le regole è alla disperazione.
Miracolosa la nascita del sito http://www.personeoneste.it/, associazione senza scopo di lucro per "tutelare la pratica di comportamenti onesti". Commovente all'interno, è il test "Sono onesto ?" per valutare l'integrità morale. Ma è una pistola ad acqua contro l'atomica...

martedì 12 agosto 2008

Valentina Vezzali: Passione, Orgoglio e una Fede incrollabili

Da un articolo de La Stampa a firma di Marco Ansaldo prendo qualche spunto che racconta bene questa magnifica atleta italiana. Grande passione, tanto orgoglio e una fede che la sorregge.
Comprendo e condivido assolutamente la sua filosofia di vita: non mollare mai !
Dentro un corpo "dalle spalle troppo esili per sopportare i grandi pesi" come dice lei, con un filo di vanità, sapendo che è l'esatto contrario, ci sono due anime. Una è aggressiva. "Non ho mai paura quando sono in gara perché la paura genera l'indecisione e dunque la sconfitta", è una sua massima. Oppure, come ha raccontato ieri, "nei giorni scorsi ho sentito una pressione fortissima, un'emozione che non avevo mai provato, e mi sono chiesta se non fosse il caso di lasciar perdere e non tirare. Allora mi sono ricordata l'insegnamento di Corrado Barazzutti: nei momenti di difficoltà il mondo si divide tra quelli li affrontano e quelli che si tirano indietro. Io sono cresciuta alla scuola del non molare mai, mi sono sempre rialzata ed è l'insegnamento che trasmetterò a mio figlio.
... "Io non mi sento un'eroina, sono una delle tante persone che mettono l'anima in quello che fanno. Ci sono persone che non hanno la fortuna di avere una famiglia, tuttavia l'importante non è come si colpisce, ma come si reagisce ai colpi della vita". La citazione è da Sylvester Stallone, un suo "maitre à penser", perché Valentina non ha modelli altissimi. Rocky Balboa come filosofo, Eros Ramazzotti come poeta: "Quando la festa comincerà tu sarai regina... tutta la gente si ricorderà di aver visto una stella", sono i versi che ha recitato dopo il successo di ieri. Valentina ha una sensibilità sottile ... si emoziona per le emozioni che regala...
E' un personaggio vero, umano, è il trionfo di una Donna che sa lottare. Con lo spirito di un Guerriero.
BRAVA VALENTINA !

lunedì 11 agosto 2008

Bonas ferias augustales

Così ci augurerebbe un nostro concittadino di Forum Cornelii (l’attuale Imola), se potessimo tornare indietro nella storia in epoca romana. Forse non molti sanno che il termine Ferragosto deriva dal latino Feriae Augusti: riposo di Agosto, dove Augusti naturalmente è in onore dell'imperatore Ottaviano Augusto. Il Ferragosto nasce come festa popolare dalle radici antichissime, come la maggioranza delle nostre feste anche religiose, che si svolgeva il 15 agosto per festeggiare la fine dei principali lavori agricoli. Nel corso dei festeggiamenti in tutto l'impero si organizzavano corse di cavalli e animali da tiro - cavalli, asini e muli – che venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori. E si mangiava e beveva in compagnia. L’ulteriore curiosità consiste nel fatto che nell'occasione, i lavoratori porgevano gli auguri ai padroni, ottenendo una mancia in cambio. Questo uso si mantenne così tanto a Roma che in età rinascimentale fu reso obbligatorio anche da decreti pontifici. Per festeggiare degnamente il ferragosto bastano tre cose: del buon cibo, un luogo adeguato e soprattutto... la giusta compagnia. Partendo dal presupposto che il secondo e il terzo aspetto siano già stabiliti e per voi soddisfacenti, parliamo un po’ del primo: il cibo. Se prendiamo il “padre” di tutti i manuali di cucina - l’ Artusi - consiglia “spiedini di prosciutto, fichi, melone e vino”, quindi cibi semplici, trasportabili, non impegnativi. A completamento, come ideale ringraziamento alla terra per i suoi frutti stagionali, in una sorta di “cerniera” tra la tradizione e il presente, sarebbe desiderabile “l’assaggio delle uve primaticce e dell’ anguria in fette raffreddate”. Sicuramente la maggioranza degli imolesi per ferragosto si sposta, molti al fiume e negli Appennini, a cercar il fresco, forse meno al mare, comunque in compagnia. Altrettanto certamente per la nostra gente la scelta più opzionata è ancora oggi la “famosa” grigliata di ferragosto. Spesso di carne e verdure, più raramente di pesce e formaggi, ma la fantasia in questi casi non manca. La grigliata è la regina di questa giornata e attorno ad essa si sviluppano e dipanano una serie impressionante di considerazioni sulla cottura, sul tipo e la qualità del cibo, sui tagli della carne, sulle esperienze passate, intrecciandosi poi con valutazioni, stime, racconti, che finiscono molto lontano dall’origine e virano verso una certa trivialità proporzionalmente all’aumento della quantità di vino bevuta. La grigliata è l’icona del ferragosto. Ricordo con nitidezza in questi luoghi con i miei genitori e i loro amici in un susseguirsi di scherzi, battute, felicità nostrana che, allora, terminava assolutamente con briscole, tresette e bocce.
Ma come organizzare una grigliata ? Perché se la cosa può apparire molto semplice da realizzare, in realtà qualche attenzione occorre porla per avere un effetto finale ottimo da condividere proprio insieme agli amici. Provo di seguito a fornire qualche spunto al riguardo. Innanzi tutto il combustibile giusto per una buona riuscita è la carbonella (di qualità), mai usare il legno che essendo ricco di resina rischia di rovinare il sapore dei cibi. Inoltre per una buona cottura dei cibi fate attenzione che la carbonella sia sufficientemente ardente e coperta dalla cenere spenta. Per una grigliata che si rispetti occorre scegliere un tipo di carne con piccole venature di grasso: braciole di maiale, costine di agnello, filetti di manzo, oltre alle immancabili salcicce e spiedini di fantasia. Assolutamente da evitare la tentazione di rigirare continuamente la carne sulla griglia, tutto va cotto bene prima da un lato e poi dall'altro. Lo do per scontato, ma evidenzio come il sale si aggiunga sempre alla fine della cottura, perché favorendo l’estrazione dei liquidi tende ad asciugare precocemente i cibi in cottura, così come il grasso della carne invece va lasciato attaccato a quest’ultima per ottenere maggiore succulenza e gusto. Anche i condimenti si aggiungono al termine della cottura, usando olio, burro o altri grassi, si rischia di far bruciare il cibo in cottura, o anche di farlo cuocere troppo rapidamente, indurendolo. Una certa differenza di qualità, nel risultato finale, si ottiene se effettuate una marinatura leggera, a base di aceto o limone, il giorno prima oppure, se diventa troppo impegnativa la cosa, almeno qualche ora prima. Consiglio di usare in questo caso, per il trasporto, contenitori di plastica, ceramica, acciaio inox o vetro; mai in rame o alluminio.
La marinatura aiuta la carne - o le verdure - a divenire più morbide. Personalmente sono contrario ad aggiungere anche erbe aromatiche o spezie in genere sulla carne, ritengo che sia ottima e squisita già con questo tipo di cottura. Infine le verdure più appropriate per le grigliate sono: zucchine, carote, melanzane, peperoni, pomodori e, dopo la cottura, il massimo è gustarle al naturale, con un filo di olio extravergine di oliva e del sale. Per la frutta ho detto prima. L’ultima raccomandazione è quella di accompagnare il tutto con qualche bicchiere di buon vino, naturalmente “nero” (come si usa in Romagna). Altro non dico se non augurarvi “Bonas ferias augustales”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 10 agosto 2008

venerdì 8 agosto 2008

Senso di colpa e insicurezza

Mi rendo conto che nella vita di una persona le due emozioni più futili sono il senso di colpa e l'inquietudine che genera insicurezza. Sono due emozioni che ti fanno "sprecare" tempo nel presente, che è ciò che bisogna vivere.
I sensi di colpa normalmente ti paralizzano, dissipano energia emozionale per il nulla, per ciò che abbiamo già fatto, per una scelta che è già stata; così finiamo per non gustarci la vita che viviamo al presente. Quante persone ci "usano" facendo leva sul nostro senso di colpa ? Ci sentiamo di aver danneggiato o deluso nelle aspettative qualcuno, mentre dovremmo fare tutto ciò che rientra nel nostro sistema di Valori facendo solo attenzione di non recare danno - vero - agli altri. Il senso di colpa non esiste, non dovrebbe esistere. Noi facciamo ciò sentiamo giusto fare. E basta.
Come non serve e non c'è nulla di cui preoccuparsi. Si può passare tutta la vita a preoccuparsi per ciò che ci riserverà il futuro, soprattutto in questi momenti. Ma non serve, non servirà. Farsi coinvolgere dalle ansie confondendoli con i progetti che uno ha per il proprio futuro non risolve le difficoltà o i problemi, ci rende solo maggiormente inefficienti. Cerco di non concedere tempo alle inquietudini, se non per valutarne le motivazioni. Quando mi sento inquieto, insicuro, scopro che, inconsciamente, cerco maggior sicurezza. Allora provo di reagire agendo in modo diverso, modificando gli schemi con cui mi sono sempre mosso, proprio per allontanarmi dalle sicurezze, da ciò che ho sempre fatto, che conosco. Potrei dire che mi guardo con occhi nuovi e cerco esperienze mai vissute, modifico le abitudini - grandi schiavitù - e mi metto nello spirito di "sentirmi" senza nulla, con le navi bruciate alle mie spalle.

mercoledì 6 agosto 2008

Il lupo di Wall Street - Jordan Belfort

Un libro di più di 500 pagine un po' sopravvalutato per un amante come me di questo genere. Sarebbero bastate meno pagine per rendere più interessante la lettura. Non è un'autobiografia perché Belfort, dopo un rapido accenno al suo inizio, passa poi subito al racconto dall'apice alla caduta del suo impero. Molte battute mi sono parse acquisite da due "must" del genere ("Wall Street" e "The Boiler"). Ci sono alcune parti interessanti quali quella che descrive il funzionamento del sistema finanziario svizzero e quella relativa ai meccanismi che portano all'apertura delle indagini, negli Stati Uniti, delle varie organizzazioni federali a carico di una società di brokeraggio.
In breve è un romanzo - "spaccato di vita" - che descrive la situazione senza regole negli anni '90, nel settore finanziario nella "grande mela". Spiega ad esempio come un broker di Wall Street che non guadagnasse almeno 900 mila dollari al terzo anno di attività era considerato poco più di un fallito. I migliori triplicavano questa cifra. Ma nessuno riusciva a raggiungere i livelli del «Lupo»: 25 milioni ogni sei mesi. Ecco quanto intascava Jordan Belfort, grazie alla sua società di brokeraggio Stratton Oakmont, una delle più spericolate nella storia americana.Belfort trattava azioni a microcapitalizzazione da 5 dollari, un prodotto finanziario di solito ceduto a investitori poco esperti, in grado di speculare al massimo con qualche migliaio di dollari. L'idea del Lupo era la vendita organizzata di queste azioni a investitori ricchi, muovendo cifre a sei zeri. L'affare ha funzionato e, a 26 anni, lo ha fatto decollare nell'olimpo dei «padroni dell'universo», tra droghe di ogni genere, orge ed eccessi. Almeno fino a quando l'Fbi non ha interrotto la festa.Frode, riciclaggio di denaro, evasione fiscale, insider trading... Belfort ha collaborato con le autorità e se l'è cavata con 22 mesi di detenzione. Oggi, a 45 anni, ha pubblicato la sua autobiografia: Il lupo di Wall Street (Rizzoli), l'ascesa e la caduta di un avventuriero geniale e corrotto.

martedì 5 agosto 2008

Pasta. Ecco cosa c’è nel piatto

I prezzi salgono, ma il nostro cibo nazionale sconfigge i venti di crisi.
Radiografia di un fenomeno. Anche culturale.

Dicono, sbagliando, che faccia ingrassare. L' hanno marchiata a fuoco da secoli - con un po' di snobismo - come un piatto povero, salvo accusarla oggi (ironia della sorte) di costare troppo. Passano gli anni, cambiano i censori, ma il destino della pasta italiana resta sempre lo stesso: difendere con le unghie e con i denti il suo posto a capotavola nella dieta tricolore. A inizio '900 a metterla sul banco degli imputati chiedendone l' abolizione era stato Filippo Tommaso Marinetti che alla presentazione del "Manifesto della cucina futurista" - in pieno raptus artistico - aveva crivellato di colpi di rivoltella un vassoio di spaghetti, «l' assurda religione della gastronomia nazionale». Oggi è il turno delle Cassandre anglosassoni. "Arrivederci penne", ha sentenziato lapidario il "Wall Street Journal", celebrandone il De profundis: «I prezzi del frumento sono saliti del 170%, le coltivazioni per i biocarburanti rubano ettari ai cereali da tavola» - è la tesi americana - e il Belpaese, dicono loro, ha già iniziato a snobbare la pastasciutta per affondare forchette e canini in quei deliziosi (si fa per dire) manicaretti fast-food a stelle e strisce che hanno regalato agli Usa tutti i record di obesità. Ma è davvero così? Non proprio. La pastasciutta tricolore è un po' come l' Italia. Quando la dai per morta, arriva il colpo di coda. Risorge. Più forte («e più buona», garantiscono all' Unione Pastai) di prima. Parlano i numeri, il settore non è in crisi. Nel 2007, malgrado il boom dei costi e il crollo dei consumi, i 148 pastifici di casa nostra ne hanno prodotta per 3,2 milioni di tonnellate, di cui il 53% impacchettata e spedita all' estero. A voler cercare il pelo nell' uovo, nel Belpaese - con i prezzi saliti del 29% in 12 mesi - le vendite sono calate dell' 1,6%. «Ma è stato un fenomeno passeggero - dice Filippo Antonio De Cecco, storico presidente e ad dell' omonimo gruppo - . Già nel 2008 le cose vanno meglio. Gli americani ce l' hanno con noi perché la dieta mediterranea ruba spazio alla loro carne... ». Certo gli italiani hanno cambiato abitudini, mangiano di più fuori casa, soprattutto a pranzo, il pasto per tradizione dedicato alla pasta. Ma né il nuovo quadro sociologico né gli aumenti («capirà, 29 centesimi in più al chilo sono 8 euro in più all' anno per italiano», calcola De Cecco) sono riusciti a intaccare il nostro incontrastato primato mondiale: ogni italiano mangia 28 chili di pasta l' anno, doppiando i più vicini concorrenti, i venezuelani, fermi a una porzione da 13 chili. Con gli americani - guarda un po' - nella parte alta della graduatoria a quota nove chili. Morale: il business tricolore di rigatoni, conchiglie e penne varie vale oggi oltre 3,5 miliardi di euro. Fatti solo, e questo è il bello, di grano e di acqua. Il segreto dell' immortalità della pasta, in fondo, è proprio questo: la sua ricetta è rimasta sempre la stessa. Da quella arrivata con Marco Polo dalla Cina, al piatto di spaghetti fumanti divorati dall' Alberto Sordi («m' hai provocato... io me te magno») di "Un americano a Roma", fino alle confezioni accatastate oggi sugli scaffali dei supermercati. I vari Barilla, Voiello e De Cecco lavorano come i fortunati abitanti del paese di Bengodi del Decamerone dove «le persone niuna altra cosa facevano che fare maccheroni». Impastando semola e acqua - allora si faceva con i piedi - modellando i maccheroni negli stampi per poi farli essiccare. A cambiare oggi sono i particolari. Le macchine hanno sostituito i piedi. I supermercati hanno soppiantato i negozi sotto casa (Urbano VIII fu costretto nel 1641 a emanare una bolla papale per imporre una distanza minima di 24 metri alle botteghe di "vermicellai"). I grani vengono scelti da sommelier dei cereali che selezionano i chicchi (il 60% arrivano dai campi italiani, il 40% dall' estero, Canada, Francia, Australia e Usa) e poi li miscelano in cocktail sempre più raffinati. Lo si faceva "a fiuto e naso" 500 anni fa nei mercati di materie prime di Napoli e Genova. Lo si fa più scientificamente oggi. «Noi studiamo in campo per un periodo da 4 a 10 anni le qualità migliori, le selezioniamo curando qualità e quantità delle proteine e poi ne facciamo dei "marchi" esclusivi veri e propri», spiega Antonio Nespoli, direttore ricerca e sviluppo Barilla. Ultimi nati i chicchi "Svevo", gioielli del gruppo parmigiano che si stanno trebbiando in questi giorni tra Puglia ed Emilia. O il pregiatissimo "881" (sembra il marchio di una Harley Davidson) coltivato dagli americani nella Imperial Valley californiana, «il Brunello di Montalcino dei grani», garantisce De Cecco. Fatti i debiti distinguo, però, il processo di produzione è rimasto uguale a quello di mille anni fa. Si impastano acqua (in una percentuale del 30%) e semola. L' amido e le proteine si legano al liquido finché si ottiene un impasto giallo, morbido e filante che la gramolatura (in fase industriale è il passaggio in grandi coni d' acciaio) porta alla giusta consistenza. A plasmare il tutto nel prodotto finale ci pensano le trafile. Stampi, in sostanza, dove da una parte entra l' amalgama torchiato e dall' altro spuntano come per magia farfalle, conchiglie, penne, stelline, spaghetti, bucatini e maccheroni
vari. Con la storica trafila in bronzo, quella dei vecchi laboratori artigianali, si ottiene una pasta dalla superficie rugosa, capace di trattenere meglio il sugo - come pretendono i grandi chef - ma più difficile da portare al punto giusto di cottura. Troppo complicato per chi a casa non può stare con il cronometro davanti ai fornelli. E così i pastifici industriali lavorano con trafile in teflon: durano di più e sfornano prodotti più impermeabili, capaci di resistere più all' ebollizione senza scuocere. La pasta, a questo punto, è a un passo dalla nostra tavola. L' ultimo passaggio è quello dell' essiccazione, necessaria per ridurre dal 30% al 12,5% la percentuale d' acqua. Una volta si faceva all' aperto, su rastrelliere in legno. Oggi è una scienza precisa, dove si dosano durata e calore. I puristi scelgono temperature più basse (fino a 50 gradi) - che consentono di salvaguardare al meglio le caratteristiche organolettiche - e tempi più lunghi (anche tre giorni). L' industria ha più fretta. E lavora fino a 100 gradi chiudendo il ciclo in 5 ore, ottenendo così prodotti migliori anche con qualità di grani un po' meno pregiate. Tutto il processo è naturale. Niente sali né conservanti, come prevede quella dieta mediterranea celebrata dai dietologi di tutto il mondo. «La pasta è costituita per l' 80% di quei carboidrati quelli che dovrebbero soddisfare il 55% del nostro fabbisogno energetico giornaliero - spiega Antonio Pinto del dipartimento di Scienza dell' Alimentazione della Sapienza di Roma - . Le sue virtù principali? I suoi sono carboidrati "buoni",
non derivati da grassi animali, ha solo un 1,4% di grassi e un contenuto glicemico bassissimo». L' opposto insomma di quella gastronomia a stelle e strisce verso cui ci vede lanciati il "Wall Street Journal". La dose "consigliata" è di 80 grammi a porzione, pari a 285 calorie («si può mangiare due volte al giorno sacrificando il pane», assicura Pinto) e anche se tra gli ingredienti mancano alcuni amminoacidi essenziali come la lisina e trionina, basta lavorare di fantasia con i sughi («ad esempio con parmigiano e ragù») per arrivare a un' alimentazione perfettamente bilanciata. Gli spaghetti, con il 30% circa del mercato, restano la forma preferita. Ma le abitudini e i gusti stanno cambiando e obbligano i big a guardare in nuove direzioni. I numeri raccontano già un pezzo di questa metamorfosi. C' è il boom delle paste regionali (trofie, paccheri e cavatelli), è esplosa la pasta integrale (+27% l' anno scorso). «La gente oggi legge di più le etichette, guarda con la lente d' ingrandimento ai valori nutrizionali», racconta Nespoli. E l' industria si adegua. «Anche nel tempio sacro della pasta ormai è di casa un pizzico di sperimentazione», continua il guru di casa Barilla. Tradotto in progetti concreti significa che si sta cercando di trasformarla - senza snaturarla - in un piatto completo. Qualcosa del genere è già arrivato sugli scaffali. «In America abbiamo lanciato la Pasta Plus - conclude Nespoli - . Pasta normale, ottima, cui però abbiamo aggiunto lenticchie e ceci, Omega3 da semi di lino, fibra d' avena. È andata bene e grazie al suo successo abbiamo guadagnato una quota del 2% del mercato Usa». Le Cassandre a stelle e strisce dovranno farsene una ragione. «La pasta è più buona, più sana e, cosa che in crisi economica non guasta, molto più economica dei loro piatti ad alto rischio colesterolo - conclude De Cecco - . I consumi stanno crescendo anche lì. Dovranno rassegnarsi a sopportarci ancora a lungo».
Repubblica — 30 giugno 2008 - Ettore Livini

lunedì 4 agosto 2008

La preparazione a regola d'arte di un panino perfetto

Più che re sarebbe meglio chiamarlo conte. Dobbiamo, infatti, al conte Sandwich l’ingresso del panino in cucina, a metà del Settecento, il quale non pensava certo di essere l’inventore di un modo diverso e veloce di mangiare, quando prese l’abitudine di farsi servire delle fette di pane imbottite di roast-beef al tavolo di gioco. Il suo unico scopo era quello di non interrompere le partite. Da allora il panino è diventato un vero protagonista della cucina polisensoriale unendo, di fatto, tutti e cinque i sensi sia nella preparazione che nella degustazione. Gli ultimi dati a disposizione parlano di un consumo, in Italia, di oltre mezzo miliardo di panini l’anno. Ultimamente è all’attenzione anche dei grandi maestri di cucina – precursore fu il nostro Gualtiero Marchesi che nel 1954 inventò il “Grattacielo” in onore della costruzione del Pirellone a Milano – che oggi pubblicano anche ricette e lavorazioni particolari, trattando il panino-sandwich alla stregua di un grande piatto di cucina (vedi il panino “Pepita” del catalano Ferran Adrià).

Noi imolesi non siamo differenti dal resto del paese negli usi e costumi ed il panino per molti rimane il pasto della pausa pranzo per questioni di tempo, praticità o necessità. Sia nel centro città come nella zona industriale è cresciuta sensibilmente, in quantità e varietà, l’offerta da parte degli esercizi commerciali anche se proposte creative o ragionate, ad esempio nel bilanciamento delle calorie e della compatibilità degli ingredienti, è ancora appannaggio di pochi bar nel nostro territorio.
Estremamente versatile, il panino può essere spuntino o piatto unico, va bene quando si è soli o in compagnia, in ufficio e nel tempo libero. In questo periodo “vacanziero”, complice anche la crisi economica, diventa il vero passepartout per la spiaggia, il fiume o un’escursione. Naturalmente rigorosamente fatto in casa.

Quello che era considerato un vero e proprio simbolo del mangiare “veloce” sta raccogliendo nel tempo apprezzamenti e nobilitazione, accontentando anche i nutrizionisti. Ma esiste una sorta di tipologia per il “il panino ideale"? Partendo dalla regola “aurea” che il semplice è sempre il migliore, anche preparare un panino necessita di attenersi a certe regole; come un piatto occorre valutare attentamente quantità, ingredienti e condimenti per far trionfare l'equilibrio degli accostamenti e l'eccellenza degli ingredienti, magari scelti tra quelli che esprimono al meglio i sapori del nostro territorio o di quello italiano in generale. Fondamentale la scelta del pane. Si può andare da quello detto all’americana “passato” prima nel tostapane a quello più rustico toscano, passando dalla baguettina francese fino alle varie michette con farina e lavorazioni di vario tipo. Orientarsi sull’integrale offre anche una buona serie di vantaggi: nutrizionali, calorici e di benessere.

Il contenuto deve essere gestito con intelligenza, deve saziare non esagerando. Tra i prodotti più utilizzabili cito la bresaola, il prosciutto sgrassato, la coppa, il culatello, il roast beef, la mortadella, il salame tagliato fine, la finocchiona, il pollo (adoro i “club sandwich”), le uova sode, la ricotta, la mozzarella, accompagnati ad esempio da foglie di lattuga, radicchio tenero o fettine di pomodoro. Per impreziosirlo si può aggiungere aceto balsamico o spremere del pomodoro sul ripieno, ma (sarebbe) rigorosamente vietato utilizzare sott’oli, maionese, olio, salse e paté vari che finiscono non solo “nell’arrotondare” la vostra figura, ma sono micidiali per il gusto e il sapore degli altri ingredienti. E’ come usare la panna nelle minestre: uccide il piatto. Personalmente mi piace molto usare anche formaggi come il brie o pecorini freschi, ma avverto che se mischiati con la carne rallentano la digestione. Per la versione da “spiaggia” sconsiglio l’uso delle carni rosse a favore del tonno con abbondanza di lattuga, pomodoro, melanzane o zucchine; le verdure sono ideali per queste mete calde.

In ultimo il confezionamento e la conservazione. Ponete attenzione ai dosaggi e ad un certo ordine nella composizione dei contenuti rendendo armonioso il vostro panino, pieno ma non traboccante; fate attenzione alla conservazione utilizzando anche borse frigo per mantenere inalterate certe caratteristiche di freschezza. Sarete ripagati, come si diceva all’inizio, da tutti e cinque i sensi. L’odore degli ingredienti, il pane croccante, i sapori degli elementi amplificano una semplice esperienza di “finger-food” che altrimenti diviene solo un modo per nutrirsi.
Un’ultima curiosità per chi è “interessato” alle calorie. Un panino di un nostro buon salame nostrano conta circa 370 Kcal, mentre un panino prosciutto e mozzarella ben 510 Kcal, non sempre è scontato ciò che sembra.
Scritto da Pierangelo Raffini 

venerdì 1 agosto 2008

L'audacia

In quel che fare, o sognar puoi, t'impegna.
L'audacia ha in se magia, potere e genio.
Dà inizio sol, la mente poi l'aiuta, comincia, e l'opra tua sarà compiuta.
Goethe