mercoledì 30 novembre 2011

Le ultime volontà di Adriano


Trovandosi in punto di morte, Alessandro Magno convocò i suoi generali e comunicò loro gli ultimi tre desideri:

1 - Che la sua bara fosse portata a spalla e portata dai migliori medici del suo tempo.


2 - Che i tesori che aveva conquistato (argento, oro, pietre preziose), fossero sparsi lungo la strada che portava alla sua tomba, e. ..


3 - Che le mani fossero a penzoloni fuori dalla bara, e ben in vista.


Uno dei suoi generali, scioccato da questi desideri insoliti chiese ad Alessandro quali erano le sue ragioni.


Alessandro spiegò:


1 - Voglio che i medici più eminenti portino la mia bara per dimostrare loro che non hanno, davanti alla morte, il potere di guarire.


2 - Voglio che il suolo sia coperto dei miei tesori perchè tutti possano vedere che i beni materiali conquistati in questa terra, qui rimangono.


3 - Voglio che le mie mani oscillino al vento, in modo che la gente possa vedere che siamo venuti al mondo a mani vuote e a mani vuote ce ne andremo quando perderemo il tesoro più prezioso che é IL TEMPO.

domenica 27 novembre 2011

Considerazioni sulla vita

La vita a volte ti segna con esperienze traumatiche, fisiche o spirituali, che ti segnano e fungono da spartiacque per la nostra esistenza. Acquisisci consapevolezza a caro prezzo. Non tutti ce la fanno, alcuni soccombono e si portano alla deriva della vita, altri si rassegnano e forse è peggio. La vita in questi momenti non perdona. 
Se sei impreparato, pigro, distratto, se mostri debolezza, non ne esci. 

Altre volte la vita ti permette di costruirti interiormente, accade quando riesci ad esprimere organizzazione personale, capacità di durata allo sforzo, disciplina, resistenza alla fatica, dedizione completa alla tua vita e agli obiettivi. E' una sorta di via iniziatica che richiede tolleranza, pazienza e sviluppo delle proprie doti interiori di consapevolezza.

Quelli come me continuano a riflettere per fare i conti con la propria coscienza, con la propria anima, non per darsi una compiacente pacca sulla spalla.
La fede fa la differenza. La fede non ammette dubbi. Pochi dubbi e la promessa di un futuro migliore aiutano a tenere comportamenti migliori in termini di risultati finali. E non è una questione di età. Chi ha un progetto ha fede, chi ha fede ha un progetto.



Come sarà il nostro futuro con le Apps

sabato 26 novembre 2011

Creatività

Creatività significa unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili. 
Nella vita servono creatività e capacità di cambiare. Occorre essere in grado di fare a pezzi gli schemi del già vissuto, del già visto, del già provato. Avere la capacità di lasciare andare le cose vecchie e abbracciarne di nuove.

La prima colonna della creatività è il coraggio, la seconda è la conoscenza. Non è importante una conoscenza specifica, lo è maggiormente una diffusa ed estesa. Più conosci, più puoi mettere insieme le cose in modo inaspettato. E l'inaspettato paga.
La terza colonna è l'immaginazione, che significa la capacità di generare idee che prima non esistevano oppure la generazione di diversi modi di vedere una situazione.

Gianni Rodari spiegava che attraverso lo sviluppo di un atteggiamento creativo, l'uomo maturo si forma e sarà in grado così di cambiare il corso delle cose e della sua vita, in base alla sua capacità di usare la propria immaginazione. Quante persone non sfruttano questa capacità.
Allenamento e sforzo su attività nuove e stimolanti, creano mappe cerebrali nuove fino a tarda età.

E' importante continuare a guardare le relazioni possibili tra le cose e le situazioni. Farsi sempre la sequenza di domande: come ? cosa ? chi ? dove ? quando ? quanto ? perché ? Aiuta a chiarire e delineare il problema organizzandolo e aprendolo a nuove connessioni.
Allenarsi a far finta di non poter sbagliare liberandosi dalla paura del giudizio degli altri. Spesso il limite alla nostra creatività è spesso la paura del giudizio altrui. Occorre ricordarsi che, comunque vada, qualcuno vi criticherà sempre. 

Una buona pratica è quella di dedicarsi spesso ad un semplice " brainstorming" trovando un posto che ci fa sentire a nostro agio e sereni. Si definisce il problema e si trovano soluzioni creative, poi si definisce  con chiarezza la situazione finale di gradimento. Mettete sul tavolo tutto ciò che può ispirarvi e... scrivete, disegnate, scrivete e scrivete ancora. Immaginate situazioni diverse e datevi delle risposte. Al termine valutate tutto ciò che è emerso e cogliete la soluzione che più vi rappresenta.

Altra colonna della creatività è il viaggiare. Se si può occorre viaggiare. Risparmiando sul resto. Abituatevi a vedere le cose anche in modo diverso. Mescolando le esperienza con la nostra cultura, spesso produce soluzioni innovative, oltre ad elevare il nostro livello di consapevolezza. Mai dimenticare che il nostro non è l'unico mondo possibile. 

domenica 20 novembre 2011

Mala educación a pranzo & cena



Quando l’educazione vien mangiando. In tempi di fast food, di cibi che si assaporano con le mani, come la pizza e l’hamburger, di pasti consumati velocemente anche davanti al televisore o al computer, di cellulari sempre accesi, le etichette cambiano. Però resistono. «Sfamarsi è un bisogno fisico, ma il pasto resta sempre un rito sociale a cui non si può rinunciare», scrive il Guardian, nostalgico delle vecchie abitudini e soprattutto «del sacro momento del tè servito in tazze di porcellana, ora sostituito dal veloce cappuccino caramellato di Starbucks». Bisogna rimediare «insegnando ai bambini come ci si comporta», suggerisce il giornale inglese, proprio come mostra il quadro «La preghiera prima del pasto» di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, in cui piccoli commensali pranzano con compostezza e in religioso silenzio.
Allora ci si chiede, le buone maniere a tavola interessano ancora?
«Più di prima. Le abbiamo dimenticate — risponde Giuseppe Scaraffia, storico e scrittore —. È da tempo immemorabile che si viene giudicati per come si mangia. Marcel Proust era criticato perché durante le cene si spostava con il piatto a ogni portata tra un invitato e l’altro, Charles-Maurice de Talleyrand si soffiava il naso senza fazzoletto, con le dita, in presenza dei commensali e Napoleone Bonaparte nella fretta si puliva le mani sui pantaloni di cashmere bianchi».
Anche oggi, «in molti film si scherza sullo smarrimento del novellino davanti alla molteplicità delle posate — continua —. Chi augura “buon appetito” fa la figura del provinciale. Chi non versa l’acqua alle signore è un cafone. E certo, bisognerebbe conversare equamente con il vicino di destra e con quello di sinistra, ma non è facile perché anche lui è impegnato nella stessa cosa con chi gli sta accanto».
Negli anni Cinquanta ci pensava Donna Letizia, Colette Cacciapuoti Rosselli, a invocare il buon gusto e a risolvere i piccoli dilemmi nella popolare rubrica «Il saper vivere»: «Quando si mangia i gomiti sono accostati al corpo e le mani non vanno mai abbandonate in grembo», consigliava. Oppure, «la minestra va gustata senza risucchi, appoggiando lateralmente il cucchiaio alle labbra». E ancora, «il tovagliolo non deve essere mai introdotto nel gilet o legato al collo, lo si spiega parzialmente distendendolo sulle ginocchia».
 La signora del bon ton aborriva lo stuzzicadenti («proibito alle signore e sconsigliabile agli uomini») e insegnava l’arte della conversazione («non si parla a voce alta e con chi è seduto lontano»). «Una saggezza ancora attuale, il ton a cui deve aspirare la società», conclude Scaraffia.
Ma la maleducazione a tavola può anche essere la conseguenza di un’infanzia viziata e capricciosa: «È bene insegnare da subito ai più piccoli come ci si comporta — afferma Anna Oliviero Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza —. L’imitazione è il loro grande strumento. Se l’adulto ha un atteggiamento corretto il bimbo lo farà suo. Bisogna dargli il tempo di imparare e non desistere dal ripetere e dall’agire. Senza creare piccoli drammi, con tranquillità si assimila meglio. È importante la sequenza con cui si fanno le cose. Il pasto è un rito ma anche un ritmo, se viene interrotto e frammentato si perde il valore pedagogico».
Cenare con i quattro figli e il marito, per Maria Teresa Orlando, 42 anni, magistrato di Napoli, è uno dei momenti più belli della giornata ma è ancheil tempo dei capricci e delle lotte. «Il padre è più severo, ci tiene che restino in modo corretto a tavola. Con me, invece, scherzano un po’ di più. Ho insegnato loro che sul tavolo si appoggiano sempre i polsi, qualche volta gli avambracci e mai gomiti, però l’hanno trasformata in una filastrocca da fare al contrario». Ma arrivano anche le soddisfazioni: «Il più piccolo mangia meglio degli altri tre e ha imparato a farlo da solo a un anno e tre mesi. Poi, scherziamo, ci raccontiamo la giornata e cerchiamo di restare tutti seduti fino alla fine».
Si dispera, invece, Marina Struzzo, 38 anni architetto di Venezia: «Nicola ha 7 anni, parla con la bocca piena, beve rumorosamente e agita per aria le posate. Insomma, è un piccolo selvaggio», sorride.
Urge l’aiuto di un’esperta: «L’esempio dei genitori è fondamentale — spiega Lucia Rizzi, specialista di terapie comportamentali e in televisione con «S.O.S. Tata» su Sky e La7 (è in uscita il suo libro «Fate famiglia», edito da Rizzoli) .
Stare a tavola in modo corretto significa dare al cibo l’esatta importanza. «Bastano poche regole: non rispondere al cellulare, non accendere il televisore. La tavola va apparecchiata e sono banditi i vassoi da portare in giro per casa. Il bambino molto piccolo vuole stare a tavola con i grandi, magari nei primi anni gli si può concedere di prendere qualcosa con le mani, poi sarà lui che vorrà crescere e avrà gli strumenti giusti per farlo. Non sottovalutare la formalità del “per piacere” e del “grazie” e creare un’atmosfera positiva, tirando fuori degli argomenti sereni».
«diventa, così, una forma di rispetto per noi e per gli altri con cui condividiamo un momento importante — spiega lo chef stellato Alfonso Iaccarino, titolare del Don Alfonso 1890 a Sant’Agata sui Due Golfi —. Con la fretta, la distrazione, consumando il pasto in piedi si compromette anche la nutrizione».
Le (buone) maniere cambiano «ma non resistono soltanto al ristorante — aggiunge —. Capisco e noto una trasformazione sociale più alla portata di tutti, però una certa americanizzazione del mangiare proprio non mi piace». Cioè? «Aprire il frigo e ingerire quello che capita. In Italia, invece, la cultura della tavola regge, soprattutto la sera. Adoro vedere una famiglia (nonni compresi) pranzare e cenare insieme con i più piccoli e regalarsi grandi sorrisi».
di Rossella Burattino - La 27esima ora - Corriere della Sera

lunedì 14 novembre 2011

Elogio della Gentilezza (come Resistenza alla Volgarità)


LA GIORNATA MONDIALE DELLA «BUONA EDUCAZIONE» I RIFERIMENTI NELLA LETTERATURA.


Non ci sarebbe nessun bisogno della Giornata mondiale della Gentilezza, che si celebra tutti gli anni il 13 novembre. 


Eppure la gentilezza, nell' epoca del cosiddetto politicamente scorretto baldanzoso e dilagante, ha un che di anacronistico, come se fosse una categoria medievale, edificante e moralistica. Ma se solo la si oppone alla volgarità ecco che acquista tutta la sua urgenza, perché la gentilezza, così come la intendiamo oggi, non è affatto quella dei secoli scorsi: quella del Cortegiano, il famoso trattato di Baldassar Castiglione o del «giovin signore», il pupillo di Giuseppe Parini. Non è più la cortesia, un valore che appartiene alla cavalleria o alla nobiltà di sangue, ma pertiene alla sensibilità di tutti gli uomini, siano essi ricchi o poveri. Poi però ti guardi intorno e ti accorgi che la gentilezza, in questa sua estensione orizzontale, è quasi diventata un tabù, un' attitudine per nulla all' altezza dei tempi. Diciamolo pure: un' inclinazione ritenuta noiosa, da fessi, una virtù da deboli di spirito o da falliti. In effetti la gentilezza, se è vero che confina anche con la generosità, dovrebbe essere gratuita: che gesto gentile sarebbe quello che si aspettasse in cambio un compenso? I volontari di Genova, i ragazzi che sono andati a spazzare il fango dopo i giorni dell' alluvione, sono partiti con qualche pretesa di guadagno? Lo psicanalista inglese Donald Winnicott considerava la benevolenza e l' altruismo indicatori di salute mentale. Se ne può dedurre che non stiamo tanto bene. 

Ma forse, tutta la sua pessima reputazione sta nel fatto che la gentilezza viene identificata in nient' altro che in un gesto occasionale e autogratificante per chi lo compie, non una forma mentis ma un' espressione capricciosa del comportamento, qualcosa che si avvicina all' ipocrisia e che somiglia alla beneficenza che lasciamo distrattamente cadere sul piatto del mendicante un giorno sì e cento no. Del resto, qualcuno sostiene che l' elemosina è un atto inutile se non dannoso. La gentilezza ha perso l' alone aristocratico del tempo che fu, per diventare l' esatto opposto dell' aggressività «virile»: si potrebbe ritenere addirittura che si tratti di una barriera protettiva della propria vulnerabilità, una difesa preventiva contro l' aggressività altrui. Più una virtù da santi che da gente comune capace di stare al mondo. Daniel Defoe si avvicina all' accezione moderna: per il padre di Robinson Crusoe, il gentiluomo era il borghese sobrio, contrario alla sopraffazione e all' avidità mercantilistica. Sta di fatto che se in passato era definibile a occhi chiusi come status symbol, la gentilezza ha finito per occupare un campo semantico impervio, sdrucciolevole, ambiguo: persino Hitler poté apparire «gentile» alla sua segretaria, ma si trattava evidentemente di un errore ottico per eccesso di vicinanza (la gentilezza va valutata da lontano). Se invece è la negazione della prepotenza, dell' iracondia e dell' indifferenza; e se la si intende non solo nella sua manifestazione esteriore, deve avere qualcosa a che fare anche con la mitezza, di cui Norberto Bobbio scrisse un memorabile elogio: per il filosofo si tratta di una qualità morale, che coinvolge il rapporto con le altre persone, un' empatia suscettibile di essere coltivata e affinata con impegno dall' individuo e dalla comunità. Una ferma mitezza suona come un ossimoro. Una ferma gentilezza un po' meno, ma ambedue richiedono una buona dose di umiltà personale e di benevolenza, di comprensione per l' altro, ma anche, come sostiene Bobbio, di intransigenza a difesa della propria e altrui dignità. Eccolo lì il suo anacronismo: la gentilezza, è una resistenza (personale ma soprattutto sociale) al peggio che oggi rischia di sommergerci, come i rifiuti sommergono molte città (la Napoli dell' Ottocento apparve a Goethe come una «città gentile»). Una resistenza democratica. E per questo, alla fine, non va disprezzata nemmeno quando la si intenda semplicemente (ma non proprio semplicemente) come buona educazione. Gratificante, perché no, per l' individuo e per la società. 


Di Stefano Paolo

domenica 6 novembre 2011

QUELLE VITE GIOCATE (E PERSE) AI VIDEOPOKER


A Vicenza, una donna distrutta dalla dipendenza si toglie la vita. A Torino salvano un uomo "sull'orlo del suicidio". Tra finti derubati (denunciati) per coprire i soldi svaniti e neo-rapinatori (arrestati) per rientrare del denarn buttato, è allarme sociale.
Una malia che t'invade piano ma poi si impossessa di ogni pensiero. di ogni intenzione, di ogni attimo della giornata, ormai vuota a perdere. A perdere tutto. Al punto di perdersi. Una febbre che sale, linea dopo linea, tasto dopo tasto: fino a bruciarti, dentro e fuori, qualsiasi altro desiderio e pure il capitale. Un'influenza che non c'è verso di debellare, di scacciare: schiacciare il pulsante, nella solitudine chiassosa di un bar, come la sola maniera di sentir pulsare la vita. Giocare e giocare (e pendere, perdere) in modo che non sia mai finita. Lei aveva quarant'anni, un lavoro, una famiglia serena. Viveva dalle parti di Vicenza e faceva l'impiegata: una tranquillità schermata però da una dipendenza malata, con lei sempre più prigioniera dei videopoker del quartiere. Le era sempre piaciuto giocare, infilare una monetina per hobby e guardare il punto entrare. Ma il lieve passatempo s'era fatto lentamente il senso di tutto e l'ossessione di ogni minuto: sicché, invece del punto, entravano a rotta di collo in quella fessura, predisposta all'usura della propria serenità, sempre più monetine. Fino a costruire una pila infinita, fatta prima del proprio stipendio e degli averi personali. poi del risparmio di famiglia. Una pila alta, in pochi mesi, più di 80mila euro. t familiari hanno provato a farla desistere ottenendo promesse non mantenute. Hanno allentato i baristi della zona perché l'aiutassero a non buttarsi via in quel modo, ma lei cambiava esercizi, ripetendo la sua mano quello abituale: infilare la moneta, premere il tasto, infilare di nuovo. Disperati, hanno schierato pure psicologo e comunità di recupero, ma a quel punto lei ha detto "basta" e l'ha fatta finita con il gioco e con la vita, che ormai tendevano ad assomigliarsi fino a confondersi. «Chiedo scusa a tutti. Non ha più senso per me vivere», ha lasciato scritto, prima di infilare la testa dentro un cappio.
Storia tragica ed estrema, ma da noi la dipendenza da videopoker, anche per via della crisi che si mangia le sicurezze e incita alle scorciatoie, sta facendo ogni giorno più guasti. Se tentare la fortuna è sempre stato, nei momenti di difficoltà economica, l'unico miraggio consentito, la pozzanghera dove tuffarsi pensando di poter fare il bagno, be', nessun gioco come il videopoker&simili oggi possiede tanta forza di distrazione di cassa e di volontà personali. Potendo garantire, a differenza di "grattini' e lotterie varie, l'assenza di una mediazione psicologica alla spesa: davanti a te solo una fessura, mentre dai le spalle al mondo, che ti fa sentire meno in colpa e unico padrone (ma è solo pia illusione) del tuo gesto iterato. Mica è un caso se le mafie - l'inchiesta sulla 'ndrangheta nel Ponente ligure è nata dalla richiesta di installare video-poker - stanno giocando anch'esse la partita. Qualche storia di ordinaria dipendenza di questi tempi? A Torino, Roberto P., 40 anni, operaio specializzato, tre figli, è finito al reparto psichiatrico delle Molinette dopo che s'è presentato al Pronto soccorso piangendo: «Aiutatemi, il videopoker mi ha fatto impazzire*. E i medici han spiegato che s'è salvato con l'ultima «briciola di energia e volontà: la dipendenza dal videopoker lo aveva condannato, era a un passo dal suicidio». E ancora, un infermiere romano lo scorso 9 settembre e un impiegato umbro lo scorso 27 settembre, hanno finto entrambi di aver subito una rapina, dopo aver perso tutto al videopoker, mentre un infermiere spezzino. dopo aver infilato l'ultima moneta, s'è fatto lui stesso rapinatore, alleggerendo una banca del Carrarese, per rientrare del denaro svanito. Poi, c'è la donna di Prato, denunciata per danneggiamento, che ha scagliato uno sgabello sul videopoker davanti al quale giocava il marito; c'è l'uomo che di macchinette ne ha distrutte sette in un bar di Trieste dopo aver perduto, senza riuscire più a smettere. migliaia di euro: e c'è la coppia denunciata in ottobre a Torino per aver lasciato la bimba di 3 anni in auto: papà e mamma nel bar a giocare e lei, aperta la portiera, in strada piangente, soccorsa da una passante. Dipendenze rovinose e fallimenti economici di tanti che già faticano a guardare avanti, mentre la Corte dei Conti - quasi un beffardo contrappasso - quantificherà di nuovo alla politica, entro sessanta giorni, a quanto ammonta (tre anni fa lo valutò in 98 miliardi di euro: bruscolini, giusto l'importo di due Finanziarie!) "il contenzioso che i concessionari dei giochi hanno con lo Stato creditore", senza che nessuno, neppure in questi giorni magri, si decida a mettere mano al settore.
Cesare Fiumi (Sette - Corriere della Sera)

Uomini nuovi

Tutti gli scandali, il decadere dell'onestà e dell'onore, l'impudenza nella certezza dell'impunità, la passione per il denaro che spazza via convenzioni, dignità, rispetto di sé stessi, l'amoralità, divenuta inconscia, rivelano il male profondo che esige rimedi di pari intensità.

E' stata la passione per la ricchezza, la voglia di essere potenti non importa con quali mezzi, la frenesia di onori; è stato il materialismo, l'appagamento spregiudicato degli istinti, a corrompere gli uomini, e, mediante loro, le istituzioni.

Come riusciremo ad uscirne ? Potremo uscire da questo decadimento solo attraverso un'immensa rettificazione morale, reinsegnando agli uomini ad amare, a sacrificarsi, a vivere, lottare, sperare e a morire, se necessario, per un ideale superiore.

Contano solo la fede, la fiducia ardente, l'assenza completa di egoismo e di individualismo, la tensione di tutto l'essere verso il "servizio", per quanto ingrato possa essere, ovunque si svolga. Il servizio di una causa che va oltre l'uomo. Contano solo la qualità dell'anima, le sue vibrazioni, la volontà di tener alto al di sopra di tutto un ideale, nel disinteresse più assoluto.

Sarà necessario formare uomini nuovi per cambiare il Paese.


venerdì 4 novembre 2011

Se il logo va alla guerra (da Tripoli a Kabul)


Spot negativi, le aziende cambiano strategie

L' attrice Anne Hathaway è stata pagata per indossare un collier di diamanti nella notte degli Oscar. Si parla di 750mila dollari per un mega spot al traino della luccicante statuina hollywoodiana. I teorici del marketing lo chiamano «product placement», ma è il parente prossimo di quello che una volta si chiamava «pubblicità occulta». Il concetto è banale e sfrutta il desiderio di partecipare ad un mondo che consideriamo affascinante. È lo stessa solleticazione dell' umana invidia che si ripropone quando si associa un marchio a una celebrità: attori, campioni, cantanti, tutti reclutati per mostrare a noi consumatori che potremmo anche assomigliargli se bevessimo quel caffè, guidassimo quell' automobile o viaggiassimo con quella valigia. Solo in Italia si pagano «testimonial» per almeno 450 milioni l' anno. 
Il problema è che non sempre si possono scegliere i propri ambasciatori o il luogo dove mostrare i prodotti. Il golfista Tiger Woods si può cancellare dagli spot dopo aver scoperto le sue infedeltà coniugali e, dopo l' attentato dell' 11 settembre, si può evitare di mandare in onda intere campagne pubblicitarie nelle televisioni affollate di dramma. Ma è impossibile licenziare i talebani che viaggiano su pick up Toyota, tagliagole liberiani che sfoggiano magliette dell' Inter, libici che asciugano le mani insanguinate su una tuta Adidas, terroristi iracheni nascosti dietro a passamontagna della Nike. Qui non ci possono essere contratti con clausole di protezione contro i «cattivi ragazzi». «Venir associati alla tragedia della guerra è l' ultima cosa che un' impresa vorrebbe per i suoi prodotti - sostiene il pubblicitario Ignasi Clarà -. L' effetto è pessimo, come quando un marchio viene accusato di sfruttare il lavoro minorile». Il fenomeno però dilaga, come la globalizzazione che porta gli stessi brand in tutto il mondo. Solo vent' anni fa non avveniva affatto. I vietnamiti bruciati dal napalm americano negli anni ' 60 non indossavano Dolce e Gabbana contraffatti. Ancora nella prima guerra del Golfo (1990-1991), Saddam Hussein avrebbe pagato oro per mostrare una vittima dei bombardamenti alleati con una maglietta del Barcellona sponsorizzata dall' Unicef. Invece nella guerra di Libia i reporter fotografavano pro o anti gheddafisti, con indosso firme internazionali, viaggiare su camionette con imbullonate sopra mitragliatrici contraeree. 
Clara Alberti, di Toyota in Spagna, ha raccontato al giornale La Vanguardia che la casa giapponese ha cambiato stile dei propri pick up per sfuggire all' identificazione tra brand e violenza. «La scritta Toyota a lettere maiuscole sul retro è stata resa meno visibile». «Forse l' unico che ha tentato di rovesciare a favore di un prodotto comune la spontanea repulsione per la guerra è stato Oliviero Toscani. Lo fece fotografando gli abiti laceri di una vittima della Guerra di Bosnia come fossero maglioncini appena usciti dalla fabbrica. Lo scandalo portò il marchio al centro dell' attenzione» spiega Nino Florenzano del Laboratorio Creativo Maverick. Gli altri casi rientrano nella normalità del meccanismo di emulazione. Il kalashnikov in mano a guerriglieri di ogni latitudine è stata la miglior pubblicità per il mitra sovietico. Così come i gipponi Hummer che hanno creato una versione civile per beneficiare dell' immagine di potenza degli americani a Bagdad. Ad alcuni la guerra piace. A pochi, per fortuna.