mercoledì 29 giugno 2011

Mission e motivazione personale

Riflettere e pensare alla propria mission è essenziale. La mission rappresenta la nostra ragion d'essere. Se individuiamo la nostra mission e la scriviamo, avremo l'effetto di far si che i nostri valori più profondi e le nostre aspirazioni si imprimano nella mente fino a divenire un tutt'uno con noi stessi. 
Ci accompagnerà nel nostro cammino. Se noi concentreremo tutte le nostre energie sugli obiettivi stabiliti dalla nostra mission, troveremo vera soddisfazione interiore e ci sentiremo potenti. 
La nostra motivazione più grande però non è mai legata al raggiungimento dell'obiettivo in se, quanto a ciò che ci darà raggiungerlo, a come ci farà sentire, alle sensazioni che proveremo.
La motivazione diventa ancora più forte se impariamo a pensare allo stato d'animo in cui saremo una volta raggiunto l'obiettivo proposto. Questo pensiero, questa immagine, diventano degli incredibili propulsori.

domenica 26 giugno 2011

Mumble, mumble...

Sto leggendo un libro e rifletto su quanto l'autore afferma...
Ripenso all'adolescenza e comprendo in tutta la sua pienezza un aspetto su cui mi sono soffermato varie volte invero, ma questa mattina riesco ad averne precisi i contorni. Nell'adolescenza si forma intorno al nostro corpo una corazza, invisibile, ma che continua ad ispessisrsi per tutta l'età adulta. Frutto delle esperienze, delle delusioni, delle ferite patite. E più è grande e profonda la ferita, più è forte la corazza che si sviluppa intorno. Ciò forma il tuo carattere e ti condiziona negli atteggiamenti, nei pensieri, nell'approccio alla vita in età adulta. Se vuoi mutare ci devi poi lavorare sopra. Duramente.
Quante volte le lacrime non sono uscite e si sono depositate sul cuore che, con il tempo, lo hanno incrostato e paralizzato...

venerdì 24 giugno 2011

Olivetti e Jobs: due vite parallele

Adriano Olivetti (1901-1960) aveva ereditato dal padre la fabbrica di macchine per scrivere e calcolare che porta il suo nome. È stato un imprenditore di successo, il più rivoluzionario industriale della storia italiana, un raffinato intellettuale, un grande editore, uno sfortunato uomo politico. La sua impresa è stata un’avventura culturale ma più ancora il sogno di un’azienda che, accanto alle macchine per scrivere, produceva idee di libertà e di responsabilità, progetti civili, insediamenti sociali nel Canavese, l’idea di un mondo migliore, persino una casa editrice (la straordinaria esperienza delle Edizioni di Comunità).
Carlo De Benedetti lo ha tratteggiato in tre parole: «materiale » nel dirigere la fabbrica, «un vero padrone nel senso ottocentesco del termine», «esoterico » nel rapportarsi con le persone (prima di assumere qualcuno lo sottoponeva a un esame calligrafico), «esteta» nel concepire le cose che fabbricava.
Per definire Steve Jobs (e ringraziarlo per come ci ha migliorato la vita) basterebbe rileggere il testo del discorso pronunciato a Stanford nel 2005 in occasione della festa del graduation day: «Il vostro tempo è limitato, quindi non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciatevi intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altri. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui lasci affogare la vostra voce interiore».
Aldo Grasso - Corriere della Sera

venerdì 17 giugno 2011

I tre pilastri dell'immobilismo

“Da più di vent’anni le «riforme» sono il grande mito della politica italiana. Invocate da tutti, promesse da tutti, dalla destra, dalla sinistra, quasi mai realizzate da nessuno. Ma regolarmente, imperturbabilmente, promesse sempre di nuovo da tutti. Sono il grande mito perché per giudizio unanime (ultimo quello del governatore Draghi: «L’Italia ha un disperato bisogno di riforme») sono la sola cosa da cui il Paese può sperare la salvezza: e cioè di riguadagnare il terreno che stiamo perdendo in tutti settori, di riacquistare efficienza, di ricominciare a crescere, di tenere insieme le sue varie parti.

Che cos’è che in Italia impedisce di «fare le riforme»? La risposta è semplicissima: la loro impopolarità. Ci troviamo ad essere strangolati da un paradosso micidiale: proprio perché sono così vitalmente necessarie, le «riforme» suscitano un’opposizione fortissima in grado di bloccarle. Enormemente più forte che in altri Paesi, questo è il punto. Ciò accade perché altrove, in genere, una riforma vuol dire un provvedimento impopolare sì, ma che non cambia le regole del gioco, non cambia il principio sul quale la società è costruita. Da noi invece no. Le riforme di cui noi abbiamo più bisogno, infatti, sono quelle che dovrebbero rompere proprio il meccanismo con cui funziona la nostra società, mutarne alla radice lo spirito e la mentalità. Quando in Italia si dice «riforme», bisogna esserne consapevoli, si dice in realtà «rivoluzione». E la più difficile tra le rivoluzioni: quella culturale.

Qualunque sia il provvedimento a cui si pensi per modernizzare il Paese, per rimetterlo in carreggiata, ci si accorge subito, infatti, che esso va immancabilmente a colpire uno dei tre pilastri sui quali si regge gran parte della società italiana: il privilegio, il corporativismo, la demagogia. Certo: bisogna scorgere i concreti, concretissimi interessi particolari, settoriali, che ognuna di queste cose alimenta e tutela. Ma tali interessi, però, non avrebbero mai potuto costituirsi e solidificarsi come hanno fatto, senza una premessa di tipo essenzialmente culturale condivisa dall’intera società italiana. Che qui ha la sua anima, la sua più vera antropologia.

In Italia qualunque individuo così come qualunque istituzione, qualunque impresa capitalistica non sopporta né il merito, né la concorrenza, né controlli indipendenti. Qualunque categoria, qualunque organismo non sogna altro che monopoli, numeri chiusi, carriere assicurate, condoni, esenzioni, ope legis, proroghe, trattamenti speciali, pensioni ad hoc, comunque condizioni di favore. E quasi sempre ottiene quanto desidera. Ricorrendo, come ho detto, all’arma vincente della demagogia. Specie a partire dagli anni Settanta, infatti, corporativismo e privilegi hanno progressivamente soffocato la società italiana costruendo (o avvalendosi di già pronte) costruzioni ideologiche menzognere, le quali avevano regolarmente al proprio centro i «diritti», la «democrazia», la «solidarietà»: parole d’ordine, discorsi, che agitando ogni volta la bandiera del bene e del giusto in realtà sono serviti unicamente a promuovere il più spietato particolarismo o a saccheggiare le casse pubbliche. Spessissimo a tutte e due le cose insieme.

È contro questa autentica muraglia socio-culturale – la quale nella sua essenza non è né di destra né di sinistra, potendo essere indifferentemente entrambe le cose – che da decenni s’infrange, o meglio si spegne appena levatosi, qualsiasi vento riformatore italiano. L’imponenza di quella muraglia, infatti, ha l’effetto di porre in una condizione di eterna minoranza la dimensione del bene comune, dell’interesse collettivo, che in tal modo non riesce ad avere alcun peso politico determinante. È per questo che le riforme non si fanno, e in particolare non si possono fare proprio quelle che ci servirebbero di più.
Il dispositivo corporativistico-demagogico-antimeritocratico è divenuto lo strumento grazie al quale da due decenni il cuore maggioritario della società italiana reale neutralizza la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza. Lo strumento grazie al quale essa neutralizza di fatto tanto la destra che la sinistra all’insegna della loro comune, certificata, impotenza; grazie al quale, infine, ne cancella i profili, ne vanifica identità e programmi. L’iperpoliticismo resta sì, dunque, come un carattere tipico della sfera pubblica italiana. Ma esso non è più il predominio del comando politico sulla società, com’è stato fino alla fine della prima Repubblica. Ora è piuttosto la penetrazione/subordinazione capillare e diffusa, l’uso continuo della politica da parte delle infinite articolazioni corporativo-antimeritocratiche della società. La quale realizza per questa via una sua antica vocazione: servirsi del potere, disprezzandolo”.

Ernesto Galli Della Loggia - Corriere della Sera

mercoledì 15 giugno 2011

La vera felicità esige la disciplina

Quando Jaya Row, brillante manager di Bombay laureata in microbiologia, decise di approfondire lo studio dei Veda, gli antichi testi sacri indiani, suo marito temette che volesse chiudersi per sempre in un ashram (monastero induista).

 Trent’anni dopo invece, madre e nonna, insegna ai manager di aziende internazionali come Coca Cola e Ibm la sua ricetta della felicità, ovvero come vivere una vita pienamente spirituale ma del tutto terrena, perché «in questo mondo nasciamo e in questo mondo dobbiamo essere felici per poter dare il meglio di noi stessi». 

Attraverso l’organizzazione da lei fondata, Vedanta Vision, la studiosa insegna la vera essenza della tradizione spirituale indiana. «La mia storia non fa notizia, eppure i media mi cercano, così come le grandi aziende, perché in ogni uomo sorge spontaneo il desiderio di felicità», dice circondata da amici a Torino, dove ha tenuto un seminario dal titolo promettente «Vivere ispirati: il sentiero verso la felicità». Quel sentiero sul quale si incamminò fin da piccola – «una bambina come tutte» – dopo essersi innamorata di «un’incomprensibile lezione di filosofia» che, a soli 12 anni, si trovò per caso ad ascoltare con la mamma. Di lì il desiderio sempre più chiaro, maturato nei frangenti di un’esistenza convenzionale ma diventato scelta di vita, di trasmettere agli altri esseri umani quella ricetta «di cui non vanto alcun copyright perché gli indiani hanno la spiritualità nel sangue». Con il valore aggiunto che, diversamente dagli altri maestri spirituali, Jaya ha conosciuto da vicino l’umanità di cui parla, «la noia di vivere, i musi lunghi di impiegati e direttori che non si accorgono del sole che da milioni di anni sorge alla giusta distanza perché non ci bruciamo né geliamo». 

Il lavoro non distrae l’uomo dalla felicità perché «il lavoro intenso è riposo, diceva Swami Rama Tirtha». Le parole di chi l’ha preceduta servono a Jaya da collante per un discorso che parte dall’uomo e riconduce all’uomo attraverso il filo della sua intima natura che «è buona».

La religione non c’entra, come non c’entrano le inclinazioni e la personalità di ognuno, perché la felicità è per tutti. Presa coscienza della possibilità di essere felice, sta dunque all’uomo, l’unico essere in grado di trasformare se stesso, imparare scientificamente a diventarlo: l’ingrediente chiave è il «corretto self-management», cioè la perfetta disciplina della propria vita, il sapere come siamo fatti e di che cosa abbiamo bisogno, grazie a una «spiritualità scientifica» che ci conduce per mano in un costante lavoro di introspezione, in una parola «ispirazione». 

«Noi stessi siamo la causa della nostra insoddisfazione», ragiona, «il male che ci avvelena la vita deriva da ostacoli e nemici immaginari che restringono il nostro mondo rendendoci mediocri. Qualcuno ha mai odiato una tigre perché è feroce? Così non dovremmo odiare qualcuno perché diverso da noi». 

Le difficoltà lubrificano la nostra mente, la esercitano. A questo punto Jaya prende a prestito la tradizione giapponese per raccontare la storia dei pescatori che, trasportando il pesce in vasche, si accorsero che non arrivava fresco perché si muoveva poco. La soluzione? Misero gli squali nelle vasche e il pesce tornò vivace e fresco. Jaya Row ama raccontare storie che risvegliano la coscienza, bussola del self-management, sentinella che vigila sulla nostra attenzione. 

«Dedichiamo ogni mattina un po’ di tempo all’introspezione, troviamo lo spazio per ascoltare musica e soprattutto mettiamoci in relazione con il mondo, e capiremo che il successo degli altri è anche il nostro». Un percorso che inizia dal desiderio materiale, passa attraverso l’ascolto delle emozioni e l’esercizio della mente per trovare il suo traguardo naturale nell’appagamento dello spirito, così come «un adulto non desidera più i giocattoli perché è cresciuto». In quest’ottica, pensare positivamente non è difficile. 

Naturale chiedersi, ora, se Jaya sia felice. «Non ancora del tutto, ma un giorno lo diventerò», dice con un sorriso. Del resto, «le persone di successo camminano sempre in salita. Ma la vetta è là ad aspettarle, perché la meritano». 

Marzia De Giuli - La Stampa

martedì 14 giugno 2011

Alla fine abbiamo tutti gli stessi rimpianti

"Bisogna rompere tanti tabù e provare a realizzare se stessi"

Non tutti sono capaci, come Tiziano Terzani di dire: «La fine è il mio inizio». La fine è spesso carica di rimpianti per i sogni traditi, gli amori lasciati andare, gli amici perduti. Della morte, scaramanticamente si parla poco (tranne che in serie cult come Medium e Ghost Whisperer, piene di spiriti inquieti e torti da riparare), ma c'è chi ha avuto il coraggio rompere il tabù. Randy Pausch, professore di informatica alla Carnegie Mellon University di Pittsburg, condannato da un cancro al pancreas (se ne è andato nel 2008) le ha dedicato la sua ultima lezione. Titolo: Realizzare i sogni dell'infanzia.


E se certe volte è possibile riacchiapparli in extremis, come Jack Nicholson e Morgan Freeman nel film «Non è mai troppo tardi», è anche vero che bisognerebbe pensarci prima... Forse, proprio per questo, i «cinque rimpianti» raccontati da Bronnie Ware, blogger australiana ma anche cantante folk e assistente dei malati terminali, donna dalla mille esperienze, assumono un valore speciale. Ripresi da centinaia di siti, diventeranno un libro. «Ho passato con molte persone dalle tre alle ultime 12 settimane della loro vita. «Quando veniva loro chiesto che cosa avrebbero fatto diversamente, e che cosa avrebbero cambiato, le risposte erano sempre le stesse. Così le ho scritte». Leggetele su www.inspirationandchai.com/Regrets-of-the-Dying.html.

1. Mi sarebbe piaciuto di avere il coraggio di vivere una vita vera per me stesso, non la vita che gli altri si aspettavano da me. Questo, dice Bronnie, è il rimpianto più comune. Quando la gente si guarda indietro, vede le false partenze e i sogni non realizzati. Se Randy Pausch, consiglia di puntare su obiettivi possibili, lo psicoanalista Giancarlo Ricci invita «a non abbandonare mai i propri desideri, a non cederli, senza riflettere. La vita è moneta vivente».

2. Non avrei voluto lavorare tanto. Il lavoro è la nuova, crudele divinità. L'ha smascherata Michela Marzano nel saggio «Estensione del dominio della manipolazione» (Mondadori), che spiega l'appiattimento sui miti di carriera e denaro. Ricorda Bronnie: «Quasi tutti gli uomini avevano questo rimpianto, e solo alla fine si rendevano conto e di aver rinunciato, in nome di uno stile di vita, o un po' più di soldi, a veder crescere i figli o all'amore di una compagna. Non c'era tempo». 

3. Avrei voluto avere più coraggio nell'esprimere i miei sentimenti. L'autenticità si perde da bambini. «Si cambia, In nome dei buoni rapporti, delle regole sociali, della necessità e della convenienza - spiega Ricci -. Tutti sentono di avere tradito se stessi e le proprie emozioni. Molti sviluppano malattie legate all'amarezza e al risentimento che si portano dentro». Essere se stessi, paga. Se si rompe una relazione sbagliata, si vince in ogni caso.

4. Mi sarebbe piaciuto restare in contatto con i miei amici. Adesso che siamo tutti su Facebook l'amicizia sembra a portata di mano, ma quando facciamo un bilancio - sostiene Bronnie - «ci accorgiamo di aver lasciato svaporare le amicizie. Invece è importante tenere stretti i legami».

5. Avrei voluto concedere a me stesso la possibilità di essere felice. Ogni storia è diversa, eppure, sostiene Daniel Todd Gilbert, direttore dell'Hedonic Psychology Laboratory di Harvard, la felicità è scelta. Certe volte fingiamo di essere contenti - avverte Ricci - «e riduciamo tutto al mondo degli oggetti e al denaro. Riprendiamoci l'umanità». Con la speranza che i rimpianti degli altri ci insegnino a vivere meglio. 

Roselina Salemi - La Stampa

sabato 11 giugno 2011

La vacanza dell'assassino


Dunque Cesare Battisti, il killer che ha assassinato quattro persone e reso paralizzata per sempre una quinta - senza dimostrare mai, a differenza di altri suoi colleghi nel crimine, pentimento per i suoi delitti o pietà per le sue vittime e i loro familiari, a parte una frettolosa dichiarazione di queste ultime ore - potrà godersi deliziose vacanze a Copacabana, coltivare le sue amicizie altolocate.
La Francia - che ha rifiutato a suo tempo l'estradizione di Battisti in Italia - è forse il Paese migliore del mondo, quello che combina nella misura più felice o meno infelice ordine e libertà, i due poli della vita civile. Ma anche la Francia è culla di qualche supponente e spesso ignorante conventicola intellettualoide che trancia giudizi ignorando i fatti. In questo caso, per pura ignoranza - mista a civetteria - alcuni autentici e/o sedicenti intellettuali hanno scambiato Battisti per un martire della Resistenza, come se noi dichiarassimo che un fascistoide antisemita quale Papon è un eroe della Résistence.
Con i terroristi di casa loro, quali i membri di «Action Directe», il governo francese ha usato il pugno di ferro e non ci sono state grandi proteste. Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro disse il presidente Pertini - hanno colpito l'Italia più aperta e civile; hanno assassinato non già corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell'Italia migliore, un'Italia più libera e democratica che avrebbe potuto essere diversa da quella di oggi; uomini come l'avvocato Croce, l'operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati. (Il 5 maggio 2003 in un'intervista sul Corriere, Toni Negri si dichiarava solidale con Berlusconi in quanto entrambi perseguitati dalla magistratura). Non a caso, all'epoca dei processi contro i brigatisti rei di omicidio, quando alcuni giurati declinavano per timore l'incarico, ad offrirsi di sostituirli era, ad esempio a Torino, un militante antifascista resistente come Galante Garrone; sempre a Torino, un altro impavido comandante partigiano, il grande storico Franco Venturi, appresa la notizia del rapimento Moro e della mattanza della sua scorta - eravamo per caso insieme, nella presidenza della facoltà di Lettere - disse che forse si sarebbe dovuto ritornare in montagna. La profondità politico-filosofica delle Brigate Rosse può essere riassunta nella frase di quel brigatista pentito il quale dichiarò che, avendo avuto nel frattempo una figlia, aveva capito che non è lecito uccidere un papà, come se fosse invece meno grave uccidere chi è soltanto zio. Francesco Merlo ha scolpito con la sua consueta forza la malafede di tutta questa vicenda, ricordando, egli scrive, il ghigno ammiccante di Battisti che non ha neppure la dignità del duro. Si pensi, per contrasto, alla dignità con la quale altri pure passati attraverso quegli anni di piombo - ad esempio Sofri - hanno saputo fare i conti con se stessi.
Ora Battisti potrà scrivere in pace i suoi gialli - anzi, noir suona più fascinoso - anche perché è un genere in cui si muove bene, grazie alla sua familiarità con gli assassinii. Mi viene in mente un vecchio racconto di fantascienza, in cui si immagina che i fatti e gli eventi obbediscano a un copione in cui tutto è già stato scritto da sempre, ma in cui ci sono errori di stampa che, tradotti in realtà come ogni parola di quel testo misterioso, creano assurdi pasticci: ad esempio, se invece di scrivere «negare i fatti» si digita «annegare i gatti», ecco che ciò provoca una strage di felini. Forse, in quel testo, si è fatta confusione tra due Cesare Battisti, il patriota di cent'anni fa e il killer di oggi, e a finire impiccato a Trento, quella volta, non è stato quello che era previsto.

martedì 7 giugno 2011

Regole e tabù? Non fanno più per noi - La perdita dei Valori e di una Morale

La nuova morale - Sos del Censis : italiani sempre più narcisi e aggressivi Non gestiscono le pulsioni, è boom di droghe e farmaci





Regola numero uno: faccio quello che mi pare. Questa è la nuova morale degli italiani: individualismo spinto, insofferenza per le regole, attenzione centrata sui propri bisogni e sul proprio tornaconto, fino al punto di alzare la voce e le mani.
Di fronte a un aumento negli ultimi 5 anni - delle minacce e delle ingiurie del 35,3%, delle lesioni e delle percosse del 26,5% e dei reati sessuali dell’ordine del 20%, il Censis ha provato a indagare sul perché in questo Paese stiamo dando di matto con una frequenza inedita e montante. E ne è nata una indagine - «La crescente sregolazione delle pulsioni» - presentata ieri mattina a Roma.
Il criterio che governa l’agire degli italiani è che ognuno è arbitro unico dei propri comportamenti: decido io cosa è meglio fare. Così pensa l’85,5% degli italiani. Le regole - ovviamente - ci sono ma possano essere aggirate in molte situazioni: sono i vertici delle istituzioni a dare l’esempio in questo senso, dalle moratorie, agli slittamenti, alle deroghe, fino ai condoni.
Se uno vuole divertirsi non può fare a meno di eccedere e trasgredire, pensa il 44,8%. E poiché viviamo in un mondo di prepotenti, è accettabile e ammesso difendersi anche con le cattive maniere, sentenzia un altro 46,4% (ma ben il 61,3% di quanti abitano nelle grandi città, dove i conflitti sono più esasperati).
Se questo vale per le leggi civili, figuriamoci per quelle morali. Tra chi si dice cattolico, per esempio, la doppia morale è la regola: per raggiungere i propri fini bisogna accettare i compromessi secondo il 46,4%, quanto - poi alla morale sessuale, lascia il tempo che trova per il 63,5% degli intervistati, che diventa 80% tra i giovani.

Questo individualismo rende soli e sbandati, ed espone gli italiani a nuove dipendenze e vecchie fragilità psicologiche. Per cui diminuisce in generale il consumo di sostanze stupefacenti (tra il 2008 e il 2009 i consumatori sono calati del 25,7%, passando da 3,9 milioni a 2,9 milioni circa), ma non quello della cocaina - droga dell’aggressività - tant’è che sono aumentati del 2,5% i coicainomani in carico ai Sert. In crescita, invece, i consumi di bevande alcoliche tra i giovani, che si ubriacano regolarmente in misura del 16,6% (oltre un milione in termini assoluti), 1,7% in più rispetto allo scorso anno.
Anche un fenomeno in sé positivo, come i social network, dice il Censis, può celare un sintomo di malessere: la difficoltà a stabilire relazioni reali e la tendenza a sostituirle con quelle virtuali. Dal settembre 2008 al marzo 2011 gli utenti di Facebook sono passati da 1,3 milioni a 19,2 milioni.
Ogni utente trascorre su Facebook mediamente 55 minuti al giorno, è membro di 13 gruppi, e ogni mese «posta» 24 commenti, invia otto richieste di amicizia, diventa fan di quattro pagine e riceve tre inviti ad eventi. La medesima fragilità si esprime nella difficoltà ad accettarsi per quello che si è, e così nel 2010 sono stati circa 450mila gli interventi di chirurgia estetica effettuati in Italia. Anoressia e bulimia sono le prime cause di morte tra le giovani di 12-25 anni, e ne sono colpite circa 200mila donne.

Pulsioni sempre più distruttive evolvono, spesso, in depressione conclamata. Il riscontro è nel consumo di antidepressivi: le dosi giornaliere sono più che raddoppiate dal 2001 al 2009, passando da 16,2 a 34,7 per 1.000 abitanti, ovvero segnando un preoccupante incremento del 114,2%.
«L’Italia - spiega il direttore del Censis, Giuseppe Roma è stato sempre un Paese di individualisti. La stessa crescita economica degli ultimi decenni è nata dal desiderio di mettersi in proprio e progredire. Questo fenomeno - tuttavia - è stato accompagnato da una politica che ha accettato, a fronte della crescita e dello sviluppo, di chiudere un occhio su molte regole. Esistevano, però, allora, vari fattori di coesione sociale che ci consentivano di arginare gli eccessi di questa deriva: la famiglia, la scuola, i partiti, la chiesa. Quando tutto questo è saltato, gli italiani sono stati esposti - senza difese e senza antidoti - a tutte le sollecitazioni della modernità: Internet, i social network, la forte competitività, i raffronti con modelli irraggiungibili, la conflittualità sociale. Lo stress è stato terribile: in qualcuno ha scatenato l’aggressività, in qualche altro la depressione, in molti l’alienazione».


Stefano Masci  - La Stampa

NOI, SOLDATI NELLA GUERRA DEI FATTI NOSTRI

L’Italia è una Repubblica fondata sull’aggressività e lo psicofarmaco? Sembrerebbe proprio di sì. Negli ultimi cinque anni le minacce e le ingiurie, stando a un rapporto del Censis appena pubblicato, sarebbero aumentate del 35,3%. Detto altrimenti, il controllo delle pulsioni e il rispetto delle regole in Italia sono in pericolo. E questo è l’aspetto out del processo in corso; mentre l’aspetto in riguarda invece l’aumento degli stati di depressione combattuti con l’aiuto di farmaci ora in netto aumento. Possibile? Direi sicuro.

Da tempo gli psicologi e i sociologi ci segnalano la fine di quelle che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk chiama le «banche dell’ira», ovvero le istituzioni che permettevano di mettere a deposito, in modo fruttifero, le frustrazioni, i risentimenti, gli odi, l’ira, suscitate dalle tensioni sociali e personali che attraversano le società moderne, e non solo quelle. Le fondamentali banche dell’ira erano, da un lato, il cristianesimo, ovvero la Chiesa cattolica, in Italia, e l’ideologia socialista e comunista, dall’altro, in Europa. Rinviando gli individui frustrati al Regno dei Cieli o alla società socialista o comunista, si raccoglieva il risparmio delle persone e lo si metteva a frutto, erogando in futuro un credito che maturava, come ci ricorda in un capitolo del suo libro Marco Revelli (Poveri, noi, Einaudi). Nella disgregazione di queste istituzioni, che hanno perso la loro presa sulla società, non ci sono più contenitori capaci di mantenere la pentola in ebollizione senza però farla esplodere. Il rancore e il risentimento sono il vero mood della società postmoderna che consuma le proprie energie frustrate nella microconflittualità segnalata del Censis. Secondo la ricerca, resa ora nota, l’85,5% degli italiani si ritiene l’unico arbitro dei propri comportamenti. Non ci sono regole condivise; ovvero, non c’è una morale collettiva, valori, su cui commisurare la bontà o meno delle proprie azioni presenti e future. L’effetto positivo o negativo diventa l’unico metro di calcolo per cui un comportamento individuale è da ritenersi giusto o sbagliato. La depressione è l’altra faccia del risentimento e del rancore, poiché ogni fallimento individuale, patito come tale, e che non trova un capro espiatorio su cui scaricarsi, rimbalza indietro come un boomerang, e produce uno stato di tristezza, abbattimento, caduta dell’autostima e conseguente bisogno di autopunizione. Ci si scaglia contro gli altri, in questa individualizzazione del risentimento, non più canalizzato verso obiettivi collettivi, e questo è lo stato euforico, aggressivo, che ci tenta tutti dinanzi ai fallimenti veri o presunti; o invece ci rivolge a una sorta di catatonia, il sonnambulismo diurno che connota molte delle nostre espressioni individuali, che è curato in vari modi e maniere, spesso con il ricorso alla pastiglia. Oggi ciascuno di noi è, come scrisse il Poeta, dopo l’esperienza della Prima guerra mondiale, nel 1936: Ognuno sta solo sul cuor della terra/trafitto da un raggio di sole:/ed è subito sera. In effetti noi tutti combattiamo ogni giorno, da mattina a sera, e anche oltre, una battaglia continua con cose, persone, entità invisibili o assenti, una guerra mai dichiarata, e proprio per questo logorante, che ci fa diventare minacciosi e ingiuriosi con il vicino della porta accanto, chiunque esso sia, oppure cadere in una forma di tristezza inspiegabile, perché qualsiasi cosa succede o facciamo non c’è nessuno che ci dia una mano: è la guerra dei fatti nostri.

Marco Belpoliti - La Stampa

Ricordati sempre di quanto sei ricco

Possiedo Amore
Credo in Dio
Possiedo salute
Non ho guai legali
Ho dei sogni
Ho una casa
Ho un lavoro
Ho degli interessi
Ho delle passioni
Devo ricordare sempre quanto sono ricco !

Comunicare

Comportarsi con franchezza, dire quello che ci detta il Cuore, essere affettuosamente aperti e sinceri con le persone, migliora radicalmente la nostra capacità di comunicare e il nostro potere di persuasione aumenta. 

domenica 5 giugno 2011

Siate affamati. Siate folli. Dovete trovare ciò che amate.

Stanford Report, 14 giugno 2005 - Testo del discorso di Steve Jobs, capo di Apple Computer e (allora) Pixar Animation studio, in occasione della consegna dei diplomi celebratasi il 12 giugno 2005.

Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”.

Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università.

Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.

Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.

Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete... questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia parla di amore e di perdita.

Fui molto fortunato - ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta da noi due soli in un garage sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione - il Macintosh - un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni... quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una Società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona - che pensavamo fosse di grande talento - per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro Consiglio di Amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante.

Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare.

Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie. La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.

La mia terza storia parla della morte.

Quando avevo diciassette anni, ho letto una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa.
Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto - tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento - sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore.
Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi ‘addio’.

Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene.
Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale:
Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso non vogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo perché è come dovrebbe essere: la Morte è la migliore invenzione della Vita. E’ l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita del vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio’e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità.

Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalog, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idealista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.

Siate affamati. Siate folli.

mercoledì 1 giugno 2011

Profitto senza rischio: la tentazione di Giuda

Tesoriere avido e inetto prima ancora che traditore


Il primo a raffigurare Giuda all’ultima cena che, isolato dagli altri apostoli, si gira a guardarci negli occhi mentre lo stiamo guardando nell’affresco sul muro del refettorio delle Terziarie francescane nel Convento di San Onofrio delle Contesse a Firenze, è stato il Perugino, intorno al 1495. Da quel momento in poi l’immagine di Giuda che si volta e fissa negli occhi lo spettatore tornerà nell’affresco della Cena di Giovan Antonio Bazzi, detto il Sodoma; in quello di San Bartolomeo a Monte Oliveto; in pittori di fine Cinquecento come Bernardino Poccetti in Santo Spirito a Firenze e della Controriforma come Daniele Crespi, che dipinse nella Milano di Carlo Borromeo; e anche in un dipinto di Pieter Paul Rubens. Perché così tanti artisti hanno presentato Giuda come specchio ammonitore di chi lo sta osservando? Probabilmente per catturare meglio l’attenzione sul tradimento di Gesù che è l’elemento centrale di ogni raffigurazione dell’ultima cena. Centrale perché il suo tradimento è avvolto ancora oggi dal mistero. Così non deve stupire che lo stesso Benedetto XVI, grande studioso della vita di Gesù, il 18 ottobre del 2006 proprio a Giuda abbia dedicato le sue riflessioni, nell’udienza generale in San Pietro. — già qualche tempo fa, in Indagine su Giuda. Vita e morte dell’uomo che cambiò il corso della storia (Castelvecchi), Massimo Centini ha ben messo in risalto quanto questa figura di «traditore» abbia da sempre attratto pensatori e filosofi, anche fuori della cosiddetta cerchia degli specialisti. A partire da quel vero e proprio documento della cultura gnostica che fu il Vangelo di Giuda.

Ha scritto, in merito, James Hillman: «Nella storia di Gesù siamo colpiti immediatamente dal motivo del tradimento; lo schema ternario (il tradimento di Giuda, dei discepoli dormienti, di Pietro) che si ripete nel triplice rinnegamento dello stesso apostolo, ci parla di qualcosa di fatale, ci dice che il tradimento è essenziale alla storia di Gesù e che perciò il tradimento è nel cuore del mistero cristiano» . Tant’è che gli gnostici parlavano di un «mistero del tradimento» . Pregevoli sono le pagine sul confronto tra il tradimento di Giuda e quello di Pietro nel libro del grande medievista Friedrich Ohly, Il dannato e l’eletto. Vivere con la colpa (Il Mulino). Indispensabile per chi voglia approfondire la questione è poi la lettura del celeberrimo «Le tre versioni di Giuda» contenuto in Finzioni di Jorge Luis Borges (Einaudi, traduzione di Franco Lucentini). Borges trae spunto dalle tesi del teologo svedese Nils Runeberg che nel 1904 aveva scritto Kristus och Judas, un libro in cui sosteneva essere Giuda lo specchio di Cristo. Che bisogno c’era di tradire Cristo? Davvero per coloro che dovevano trarlo in arresto era un problema «riconoscerlo» ? Era proprio necessario che tra gli apostoli dovesse esserci un delatore? No. Secondo Runeberg, Giuda era stato l’unico tra i discepoli a intuire la tremenda missione di Gesù e aveva fatto in modo da renderla possibile. Discorso ripreso dal teologo canadese William Klassen, che in Giuda, traditore o amico di Gesù? (Bompiani) definisce il nostro personaggio come «l’uomo più ingiustamente diffamato dalla storia» . Sostiene Klassen che tra gli apostoli Giuda era quello su cui Gesù poteva contare maggiormente in quella circostanza decisiva: «Ricordiamo che senza la morte di Gesù non ci sarebbe stata la resurrezione e senza la resurrezione forse non ci sarebbe stato il Cristianesimo» . Secondo Klassen nei Vangeli non viene mai detto che Giuda ha «tradito» Gesù, ma solo che lo ha «consegnato» .

Se Giuda avesse saputo che Gesù sarebbe finito nelle mani di Pilato, forse non avrebbe accettato di consegnarlo. Quantomeno non in quel modo. Per quel che riguarda poi i trenta denari, «chiunque fornisse informazioni ai sacerdoti del Tempio veniva pagato, era la regola» . «Inoltre, se Giuda avesse voluto davvero tradire Gesù e farlo finire in croce, avrebbe chiesto un compenso ben più alto di trenta denari» . Una notazione interessante. Il medievista Giacomo Todeschini — già autore de I mercanti e il tempio, di Ricchezza francescana e di Visibilmente crudeli, tutti e tre pubblicati dal Mulino — nel libro Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino) sostiene la tesi che elemento centrale di quella vicenda sia proprio il prezzo (incredibilmente basso) per il quale l’apostolo traditore consegnò Cristo a coloro che lo avrebbero crocefisso. Ed effettivamente trenta denari sono pochi, molto pochi, come taglia per una figura di quel rilievo politico, oltreché religioso, e per un tradimento di quella portata. Ad ogni evidenza Giuda, che pure tra gli apostoli svolgeva funzioni di economo, non fece bene il proprio interesse di traditore. E come scrisse nel 1759 Adam Smith, la mancanza di attenzione per il proprio interesse è all’origine di un disprezzo sociale «ben meritato» . Nascosto nelle pieghe della storia di Giuda c’è dunque — oltre ai temi etici di cui abbiamo detto e che per secoli sono stati ampiamente dibattuti — qualcosa che attiene all’economia. Qualcosa su cui è utile soffermarci. Quella somma di denaro che i sacerdoti del Tempio avevano pagato a Giuda, in se stessa alquanto modesta, appare come un modello di inadeguatezza economica, un esempio dei paradossi a cui poteva condurre il primitivismo della scelta compiuta. Era infatti la scelta economica di Giuda, scrive Todeschini, «a creare, prima ancora che il suo tradimento, un dilemma per coloro che, sin dai primordi dell’era cristiana elaboravano la sua immagine oppure la ricevevano per il veicolo di discorsi, prediche, figure visibili sulla pergamena, sulla carta, sui muri delle chiese...

Perché un apostolo, un eletto dunque, non a caso rappresentato prima del suo tradimento nei panni di un signore rispettabile e potente, aveva potuto decidere di tradire e cioè consegnare chi era all’origine della sua stessa fortuna in cambio di una somma insignificante?» . Basilio di Cesarea e Ambrogio di Milano, seguiti in ciò da molti autori cristiani del V e del VI secolo, attribuirono questo «abbaglio valutativo» a un’ispirazione del demonio. Ma come aveva potuto il diavolo impadronirsi di uno dei dodici apostoli? Ci era riuscito perché Giuda era un corrotto, un disonesto già prima di consegnare il suo signore in cambio di quei trenta sicli che bastavano appena a comprare un piccolo campo di terra. Che fosse un poco di buono lo si desume dal Vangelo di Giovanni, l’unico dei quattro ad approfondire la sua storia. Giuda Iscariota, l’uomo di Kariot, il «sicario» , o colui che era venuto da «fuori la Giudea» oppure «l’uomo che porta le borse» , quello «che già gli interpreti medievali considerano segnato come estraneo e come economicamente competente già dal suo nome, compare fugacemente» , osserva Todeschini, «nei Vangeli sinottici e poi negli Atti degli Apostoli; la sua presenza è discontinua e anzi nei tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca la sua figura appare abbastanza definita soltanto nel momento della vendita e della consegna, ossia del tradimento di Cristo» .

Invece nel Vangelo di Giovanni — che, va detto, è il più ostile agli ebrei — Giuda appare con una sua specifica storia. La storia di una ben definita coerenza criminale. La sua «improvvida decisione di vendere il tutto a poco era connessa e da tempo, dicono poi sulla scorta di Giovanni i padri della Chiesa, all’indole di deviante economico: di amministratore disonesto dei beni di Cristo e della comunità apostolica» . Ma da cosa si desume che Giuda sia un disonesto, un falso apostolo, un impostore? Dalla storia di Maria Maddalena, la peccatrice che lava i piedi di Cristo, li asciuga con i suoi capelli e poi spalma sul corpo di Gesù un unguento prezioso. Secondo i Vangeli di Matteo e Marco, un imprecisato apostolo disapprova lo sperpero di quel liquido di grande valore, vendendo il quale si sarebbe potuto ottenere una grande quantità di denaro da dare in elemosina. Nel Vangelo di Luca è invece il fariseo Simone che definisce «fuori luogo» quell’unzione, non per lo spreco di una ricchezza, bensì per l’inopportunità di un gesto come quello di Maria Maddalena, che tocca con le sue mani impure il corpo di Cristo. Finché Giovanni sostiene che è Giuda a protestare: sarebbe meglio, dice il futuro traditore, convertire quell’unguento pregiato in monete da distribuire ai poveri, i quali ne hanno più bisogno. Più di Cristo, che, per definizione, non ha bisogno di nulla. Nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca— nota l’autore del libro— Cristo approva l’omaggio della Maddalena e redarguisce gli apostoli troppo oculati, oppure il fariseo che non comprende il valore del pentimento e delle lacrime della peccatrice; nel Vangelo di Giovanni, invece, il rimprovero di Cristo è indirizzato solo contro l’apostolo Giuda. È a questo punto che l’evangelista osserva che «l’apparente attenzione di Giuda per i poveri e per un impiego economico e avveduto della ricchezza non dipende da una sua reale attenzione per i bisogni dei poveri, e cioè da una sua particolare competenza economica, ma dal fatto che, essendo avaro e ladro dei beni che gli apostoli gli hanno affidato in custodia, rimpiange il guadagno mancato» .

Giuda, dunque, tradisce perché il suo ruolo di amministratore delle sostanze apostoliche lo ha reso disonesto, ma anche perché, in conseguenza della sua propensione ai facili guadagni, mira a realizzarne sempre di più, ogni qual volta gli sia possibile. Il fraintendimento e la disapprovazione dell’unzione della Maddalena fa il paio con la svendita di Cristo per trenta denari: discendono entrambi dalla incomprensione di un valore e da un errato conferimento (o non conferimento) di fiducia. Giovanni colloca Giuda e la Maddalena agli antipodi. E, mentre secondo Matteo, Marco e Luca, la «perfidia» è in certo modo innescata dall’avidità di Giuda, secondo Giovanni questa «perfidia» precede la rozzezza di Giuda e in un certo senso la determina. Matteo è invece quello che più si sofferma sul successivo pentimento di Giuda, rimorso che lo spinge ad impiccarsi. Osserva Todeschini che la drammatica fine di Giuda conteneva implicazioni che solo il futuro avrebbe rivelato. A ben guardare, scrive, «questo epilogo portava di nuovo sulla scena, accanto a Giuda, i sacerdoti ebrei: a loro infatti veniva restituito il prezzo della colpa e, mentre Giuda moriva impiccato, sarebbero stati loro, secondo Matteo, a comprare con quel denaro impuro e dunque non restituibile al Tempio, un pezzo di terra da adibirsi a luogo di sepoltura dei peregrini, ossia degli stranieri» . Terreno che, negli Atti degli Apostoli, diverrà il luogo stesso in cui Giuda si darà la morte. La tradizione medievale riprenderà poi il collegamento tra un pagamento illecito, abominevole, impuro e una terra separata dalle altre, adatta alla morte vergognosa o alla sepoltura di chi è senza patria. Preciserà all’inizio del Duecento Guglielmo di Auxerre che la svendita di Gesù per trenta sicli d’argento compenserà la svendita della purezza di Adamo in cambio di una mela dell’albero nell’Eden. Poi Cipriano di Cartagine, Giovanni Crisostomo e Agostino faranno di Giuda il capostipite di quanti sembravano opporsi tra il II e il IV secolo all’unità della Chiesa come quella riassunta dalla formulazione del credo di Nicea: vale a dire gli eretici. Lo si descrive come un infiltrato nella comunità apostolica. Lo si associa a Simon Mago, che voleva acquistare il potere taumaturgico degli apostoli («Tutti e due» , mette a fuoco Todeschini, «vivono il miracolo della rivelazione del verbo in termini di appropriazione individuale mediata da un pagamento in denaro: in entrambi i casi il denaro sembra loro il mezzo attraverso il quale un Valore sacro può essere scambiato così da produrre un utile personale; e una fine maledetta punisce tutti e due gli autori di così improvvide transazioni» ). Giuda diventa dal IV secolo, in Occidente, la rappresentazione di un’umanità degradata a causa di insensate scelte economiche che appaiono lesive della sacra organizzazione assunta dalla società dei cristiani. Lui e tutti gli eretici sembrano aver smarrito il «sale» della grazia divina e ciò li rende incapaci di cimentarsi con il tema del valore. Di ogni valore.

Il peccaminoso commercio di Giuda, scrive l’autore di questo libro, «introduce un discorso sulla bruta incapacità di agire e produrre di chi non comprenda o rifiuti o abiuri le verità cristiane; questa incapacità, questa renitenza e questa resistenza si rivelano, per analogia con la storia di Giuda così come viene ricostruita dalla patristica, altrettante forme di una molto quotidiana e comunissima ottusità intellettiva, spesso rivelata da modi grossolanamente sbagliati di calcolare il valore e il prezzo delle cose e delle persone» . Ambrogio di Milano e Agostino d’Ippona insistono molto sull’incomprensione da parte di Giuda del gesto di Maddalena che sparge unguento su Gesù. Ambrogio anche sulla similitudine tra Cristo venduto da Giuda e Giuseppe venduto dai fratelli. Non si trattava, come potrebbe sembrare, di oziose disquisizioni, scrive Todeschini, ma dell’inizio di un ragionare, molto europeo, sulle equivalenze tra valori e anche sugli errori di valutazione che accomunavano, in epoche diverse, reprobi di differente specie come, da un lato, Giuda e i fratelli di Giuseppe e, dall’altro, i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme e i mercanti ismaeliti. «Ciò che accomunava Giuda ai fratelli di Giuseppe era indubbiamente una mancanza di fede-fiducia nel Valore superiore, che dunque svendevano; nello stesso tempo gli Ismaeliti e i sacerdoti del Tempio venivano collegati tra loro da definizioni che ne sottolineavano la bestialità: chi commerciava con loro evidentemente derivava la propria incompetenza valutativa da un’eccessiva vicinanza con la realtà ferina di coloro che volevano acquistare le sacre figure di Giuseppe e del Cristo per dissacrarle» . Stesso discorso vale per la natura bestiale e selvatica di Giuda, che gli impedisce di stabilire un valore giusto (stavolta per un eccesso opposto) dell’unguento di Maddalena. La frequenza con cui il testo patristico e poi altomedievale insiste sull’uso di metafore di fallimento commerciale sottolinea che la complicità di Giuda e degli ebrei è stata all’origine di una rovina, frutto in sostanza di una incapacità di ragionare e calcolare correttamente. Si comincia ad alludere «a tutti coloro che, per la propria naturale inconsapevolezza delle regole più profonde dello scambio, per la loro naturale stoltezza, finiranno per imbrogliarsi da soli, dunque per fallire e vergognosamente sparire» .

C’è una linea che congiunge Ambrogio, Origene, Agostino, Ilario di Poitiers, Agobardo di Lione, Pascasio — siamo giunti nel IX secolo — per la quale il «furto» di cui è accusato Giuda risulta essere un’azione non conclusa dall’atto di rubare, ma piuttosto un comportamento, indotto da una natura deviata, il cui più notevole effetto è quello di alterare la natura degli scambi basati sulla fiducia che si instaura in una comunità — nel nostro caso quella cristiana — sulla base dei valori a cui la comunità stessa fa riferimento. Dopodiché diverranno sempre più centrali la contrapposizione tra Giuda e Maddalena e la sovrapposizione di Giuda agli ebrei, in particolare all’epoca della loro espulsione dal regno di Francia (1182). Il banco dell’usuraio ebreo diventa il luogo metafisico della «morte» della ricchezza cristiana. Il tradimento viene descritto come derivante dal fraintendimento di valori economico-sociali. Nelle parole di Giordano da Pisa, di Bernardino da Siena o di Matteo di Agrigento come nelle pitture di Pietro Lorenzetti, del Ghirlandaio o del Perugino, Giuda è raffigurato come il vicino della porta accanto che ignora le regole dell’economia «civile» e del «bene comune» senza neanche rendersene conto. L’animale che gli sta vicino (un cane, talvolta un gatto che segnala una natura infida) la borsa che gli pende dal fianco o che lui stesso stringe nel pugno cercando di nasconderla, alludono alla sua falsità, alla sua natura ingannatrice e perfida. A fronte poi di un volgo esperto soltanto di un’economia del quotidiano e del bisogno, il «grande mercante» fa riferimento a Maddalena e — sulla scia della metafora di quel che a Giuda appare come uno spreco dell’unguento — sceglierà di «sprecare» (in realtà, di investire) una parte della sua ricchezza monetaria, specializzata, internazionale, derivata dall’appartenenza a un mondo di transazioni a rischio, in un’amministrazione dell’assistenza e della carità anch’essa complicata e difficile. «Sarà infatti la faticosa gestione degli ospedali, delle case di accoglienza, dei Monti di Pietà fondati a partire da un’elargizione al pubblico di quantità superflue di ricchezza privata, a dare concretezza all’investimento caritativo scaturito da un’economia oligarchica. Se la conduzione delle avventure economiche di questi ardimentosi finanzieri ricava senso e appare giustificata, come ripetono i teologi tra Tre e Quattrocento, a partire dai rischi che la rendono peculiare, l’amministrazione delle realtà assistenziali risulta estremamente rischiosa» . E Giuda, come si è detto all’inizio, comincia da quell’affresco del Perugino a guardare noi, che stiamo guardando i quadri in cui è raffigurato, come ad ammonirci che è lui la chiave del messaggio. Messaggio che contrappone — per quel che riguarda l’economia— il perseguimento dell’interesse immediato (o per meglio dire quello che appare come l’interesse immediato) alle scelte economiche sensate e lungimiranti basate sui valori e sulla fiducia. Fiducia che discende dal comune riconoscimento dei valori stessi. Che è poi ciò che caratterizza la modernizzazione economica europea nel periodo che va dalla mutazione — a cavallo di Quattro e Cinquecento — degli equilibri tra mercati, alla cosiddetta «nascita della scienza economica» nel XVII secolo. «La consapevolezza, lungamente appresa, di far parte del gregge incapace forse di comprendere ciò che propriamente significhi valore, peserà a lungo nel costruirsi, al di là dei mercati, del Mercato, sull’agire economico di chi, la massa, stava fuori dal cerchio magico dei competenti, degli ispirati, dei professionisti della ricchezza...

Soltanto l’affidarsi agli ispirati, ai sacerdoti preposti alla gestione della pubblica felicità, ai "filantropi della finanza", avrebbe potuto placare l’inquietudine di chi ormai sapeva di vivere nello spazio economico come "nella casa di un altro"e che solo affidandosi, ovverosia fidandosi, avrebbe potuto sfuggire al destino dei traditori del pubblico Bene, per accedere al "cielo della ricchezza"» . Giuda diventa così una figura fondamentale che ci guida sul terreno del rapporto tra credulità e mercato, tra scelta e fiducia. Per capire qualcosa di più a proposito del contrasto fra la prudenza quotidiana nel fare la spesa o nella gestione dei propri affari, e l’azzardo spericolato da cui può capitare di essere tentati. Giuda compie un gesto tragico perché non sa riconoscere il «vero» valore. Valore che si può ben individuare solo nel contesto di un insieme di valori morali, sottraendoci al quale rischiamo di perdere ogni orientamento e di finire in un precipizio come può essere considerato (ancora oggi) quello delle bolle speculative. Ha compiuto, l’Iscariota, un viaggio nei secoli assai più lungo e movimentato di quello degli altri apostoli. Per voltarsi a guardarci dall’affresco del Perugino in modo da metterci in guardia dai rischi che corriamo se cediamo alla tentazione di porci fuori da un sistema di valori. Quello cristiano, nel suo caso. Ma questo discorso può essere esteso anche ad altri sistemi di valori, purché siano ispirati da un’etica trascendente.

Paolo Mieli