venerdì 27 febbraio 2009

L’Ala d’Oro, dove le “sfogline” sono di casa.

L'albergo e Ristorante ALA D'ORO è situato nel cuore del centro storico di Lugo ed è ricavato dal palazzo nobiliare dei Conti Rossi, una importante famiglia aristocratica della città. Dal 1998 fa parte del network di "Dimore d'Epoca", un’associazione di piccoli alberghi indipendenti ricavati da edifici storici. Il Ristorante è collocato all’interno dell’edifico e ne è parte integrante anche se, di fatto, è un esercizio aperto al pubblico indipendente dall’albergo sebbene gestito dalla stessa proprietà. La signora Nadia Montuschi, che si occupa personalmente della gestione del ristorante, è molto brava, attenta, curiosa e sensibile sia verso i cambiamenti del gusto, che verso la clientela. A dimostrazione di ciò, da alcuni mesi è stata inserita stabilmente nel menù anche pasta – rigorosamente fatta in casa - per i “celiaci” (persone che soffrono di un’intolleranza permanente al glutine). Il personale è molto professionale e di esperienza – ben guidato dal Maitre Eglio Geminiani - capace di far sentire a proprio agio il cliente. La percezione che ne ho sempre ricavata è quella di “sentirmi a casa”, tra amici. Il ristorante si presenta con due sale: la prima è la sala ristorante vera e propria, molto accogliente, mentre il salone è, diciamo, in aggiunta e capace di contenere un paio di centinaia di persone. Viene utilizzato per cene numerose, banchetti, matrimoni, ma anche momenti di cultura (ad esempio Caffè Letterario, una chicca della città di Lugo guidata in modo sapiente e capace da Claudio Nostri - socio insieme alla signora Nadia – che si occupa maggiormente della gestione alberghiera, tra l’altro schivo ma ottimo fotografo del bianco e nero). Costantemente gli avventori del ristorante possono godere della vista altresì di mostre di pittura e fotografiche di artisti noti od emergenti. Per me il ristorante è stata una piacevolissima scoperta perché vi ho trovato una cura e un’attenzione verso la cucina e la gastronomia veramente importanti. Personalmente ritengo che l’Ala d’Oro “paghi” un poco, paradossalmente, il fatto che sia uno dei ristoranti più antichi di Lugo, ma in realtà non lo dimostra affatto e la qualità dei cibi unitamente allo svolgimento in chiave attuale dei piatti del territorio ne fanno un locale da provare assolutamente. Più volte, infatti, mi è capitato di evidenziare, durante un confronto dei “siti culinari” tra amici, le eccellenze di questo ristorante annoverato mentalmente – ed erroneamente - solo tra gli alberghi. Segnalo, tra le altre cose, che sono presenti anche sul web con il loro sito (www.aladoro.it), sempre aggiornato nelle proposte e nelle offerte. In particolare ho un debole per la loro pasta perché le “sfogline”, che fanno parte permanente della brigata di cucina, sono delle “arzdore” nostrane e vero punto di eccellenza per il piatto principe della cucina romagnola. All’Ala d’Oro si potrebbe pranzare o cenare solo con le “minestre”, questo è un locale in cui si possono (ri)scoprire e apprezzare, oltre ai “mitici” (credetemi) cappelletti in brodo di cappone, tutte le paste - fatte rigorosamente a mano e tirate al matterello - quali le tagliatelle, i garganelli, gli strichetti, gli strozzapreti, la spoja lorda, i tortelli, ecc. Un merito a cui plaudo – e vorrei trovare in tutti i ristoranti - è quello di avere un menù contenuto, che varia in base alle stagioni, ma molto curato. Essendo appunto tutta la cucina oggetto di grande attenzione, come già scritto, segnalo da provare in ogni caso altri piatti, soprattutto in questa stagione, quali il coniglio e le carni in genere con una menzione particolare che riserverei ai fritti di pesce e all’italiana, appetitosi ma leggeri e digeribili. Tra i dolci ottimi il semifreddo all’amaretto o al torroncino con zabaione e la zuppa inglese. Nella scelta dei vini potrete trovare una bella selezione dei migliori vini locali e quelli più importanti di varie regioni italiani. indico infine, cosa non di poco conto per questi tempi, l’ottimo rapporto prezzo/qualità.
Ristorante Ala d'Oro - Corso Matteotti, 56 - 48022 - Lugo (Ra) - Tel. 0545.22388 - Chiuso sabato a mezzogiorno

giovedì 26 febbraio 2009

Osteria San Martino: la tradizione e l’innovazione a braccetto in cucina.

Chi sostiene che i giovani non sono attenti alle tradizioni potrà ricredersi andando all’Osteria di San Martino in centro a Lugo in Via Magnapassi 22. Il Maestro di cucina Emiliano Bucci, insieme ai due titolari Massimo Seganti e Willi Dalpozzo, sono tre ragazzi che in grado di smentire questo luogo comune.
L’Osteria sita nel centro di Lugo, si raggiunge attraverso una scala che riporta immediatamente a sensazioni d’altri tempi, in questi casi le scale sia in salita che in discesa (l’Osteria dei Poeti di gucciniana memoria) le associo ad un tempo che fu. Il luogo è gradevole, accogliente, il lungo tavolo all’ingresso, le sale contigue una all’altra che formano una specie di ferro di cavallo intorno alla cucina, i soffitti ampi a volte caratterizzano il luogo unitamente ad un grande camino centrale e ricorda immediatamente le antiche osterie medioevali. Tutto qui si alterna in un costante equilibrio tra la tradizione e l’innovazione, il luogo si diceva si contrappone all’età degli esercenti e del cuoco; il recupero di certe ricette tipiche della Romagna - ad esempio i curzul (letteralmente i lacci delle scarpe) al sugo di scalogno - a piatti innovativi che legano però le ricette ai sapori del territorio. Una ulteriore testimonianza di questo continuo altalenarsi è fornita anche dalla duplice locazione dell’osteria inverno-estate: dal 1 giugno infatti, da alcuni anni, viene sospesa l’attività nel luogo “storico” e si ripropone nella suggestiva locazione del giardino pensile, all’interno della rocca di Lugo – Piazza dei Martiri della Libertà 1 - da cui si gode la vista del Pavaglione e della piazza del monumento di Baracca rimanendo al fresco fornito della fitta vegetazione. Ovviamente si modifica anche la proposta gastronomica rendendola più attinente e rispondente al periodo estivo.
Si nota in molti particolari il gusto della ricerca sia per ciò che è stato e ciò che è, nella lettura del menù, nel recupero di vecchie ricette, nella proposizione di una notevole varietà di formaggi accompagnati da miele e marmellate anche molto casarecce e familiari, nell’offerta delle paste “ripensate” con gli elementi del territorio, nella proposizione dell’agnello difficilmente reperibile nelle proposte di un ristorante perché carne difficile che incontra il gusto di pochi ormai. In estate, in rocca, il menù si arricchisce di numerose proposte a base di pesce, dalle fragranti e delicate fritture al filetto di tonno appena scottato per citarne alcuni. Ottima sempre la scelta di dolci e la carta dei vini.
Rimanendo negli “equilibri” segnalo l’ottimo rapporto dell’Osteria San Martino in qualità/prezzo, che oggi è – e deve essere - un elemento assolutamente importante nel giudizio di un ristorante a fronte anche di proposte non sempre all’altezza e di una sempre maggiore attenzione della gente alla scelta del ristorante dovuta alle minori possibilità di spesa di un tempo.
L’unico appunto che mi sento di fare, molto bonariamente, è sulla scelta degli artisti che espongono all’interno dell’Osteria. Personalmente sono aperto a tutto ciò che è cultura in generale e arte in particolare, ma nel rispetto e nell’attenzione che un gestore deve riporre verso tutta la sua Clientela – di ogni ordine, età e grado – vale la pena valutare con una certa cura l’opportunità di certe opere in un luogo deputato alla Civiltà della Tavola. A non tutti garba avere di fronte determinati quadri mentre si porta una posata con il cibo alla bocca...
Osteria San Martino - Via Magnapassi, 22 - 48022 - Lugo - Tel. 0545 281928

mercoledì 25 febbraio 2009

Quel buon ragù oramai introvabile con più di cento anni di storia.

Quando ho attraversato per la prima volta il ponte vecchio ad Alfonsine immettendomi di fatto sulla “Viulèna” – la strada che gli abitanti identificano dal secolo XIX in quel tratto che dal ponte passa dalla piazza Monti - non mi aspettavo di compiere un viaggio di sapori legati, nella memoria, alla cucina di mia nonna “Gianina” (Domenica all’anagrafe).

La segnalazione della trattoria “Al Gallo” mi era arrivata, e caldeggiata, da Giovanni Barberini, allora Assessore alla Cultura del Comune di Lugo, che mi aveva riferito come questo locale fosse molto conosciuto nel territorio sia per la genuina qualità della sua cucina, sia per la storia. Posso confermare assolutamente questo giudizio.
La trattoria “Al Gallo” venne aperta nel 1872 da Caterina Pagani detta “la Biastmèna” (come da “buona” tradizione romagnola, mangiapreti e anche bestemmiatrice) nel luogo dove si trova ora e ottenne in seguito aiuto nella gestione dalla nipote Maria Faccani. Quest’ultima, oltre a ereditare la trattoria-locanda ne ereditò... anche il soprannome. Il locale venne distrutto durante i feroci combattimenti e bombardamenti avvenuti proprio in questa zona nella II guerra mondiale dove il Senio divenne di fatto “un fronte” molto caldo (testimone ne è la stessa Alfonsine praticamente cancellata nella sua parte storica). La Faccani, a guerra conclusa ricostruì la trattoria e l’albergo esattamente nello stesso luogo. Dal 1968 Gigiò e la Tina (Luigi Matulli e Tina Chiari) assieme alla figlia Iris subentrano alla gestione iniziale e da allora continuano a preparare i piatti tipici del territorio con passione ad una clientela molto affezionata. In questo locale che lavora tutti i giorni mattino e sera, domenica esclusa, è sempre meglio prenotare perché non è affatto scontato trovare il posto presentandosi semplicemente all’ingresso.

Entrando, soprattutto la sera, ci si immerge nel tipico ambiente della trattoria costituito dal bancone di fronte alla porta e due ampie sale perennemente gremite di persone e di quella allegra confusione data tipicamente dalla buona cucina miscelata generosamente con il vino e l’ambiente informale. Solitamente è la signora Iris che si propone subito, la tipica e semplice “azdora” romagnola che conquista subito la vostra simpatia. Il mio primo consiglio è quello di lasciarvi guidare da lei nella scelta del menù, non ve ne pentirete, il secondo è quello di arrivare preparati al “viaggio” gastronomico: è impegnativo, secondo i parametri che abbiamo oggi delle porzioni, se volete percorrerlo tutto. Il menù, come spesso accade nei ristoranti migliori, non è vastissimo, ma tutto questo va a vantaggio della qualità. Voglio segnalare comunque in particolare gli antipasti con ciccioli secchi e la selezione dei salumi romagnoli, i cappelletti e le tagliatelle al ragù, il coniglio e il pollo, ai ferri o alla cacciatora, e la zuppa inglese. Una cosa simpaticissima di sera è data dal fatto che alcune volte, ad un certo orario, esce la mamma della Sig.ra Iris con una della ciambella calda appena sfornata che offre a tutti i presenti e, vi assicuro, trova sempre spazio nello stomaco anche dopo una così abbondante cena.

Devo ammettere che la cosa che mi ha veramente “commosso” (naturalmente è un eufemismo, ma non tanto... ) è ritrovare molte ricette di più di un secolo fa, in particolar modo il ragù originale e immutato nella ricetta dall’apertura della trattoria più di cento anni fa. Nel ragù con le tagliatelle ho trovato la sublimazione della nostra tradizione in cucina, il punto di massima espressione della passione nel fare le cose buone senza tenere in considerazione il parametro tempo. Un ragù che ricordavo, come dicevo all’inizio, solo realizzato da mia nonna che metteva la stessa passione ed esperienza nella realizzazione di questo condimento, che mai sono riuscito a ricondurre ad una ricetta scritta poiché gli ingredienti, il processo e le quantità non quadravano mai, nella trascrizione, due volte di seguito.
A conclusione va detto che questa gestione famigliare della trattoria fa onore ai proprietari anche per i prezzi che vengono praticati che sono ormai veramente oramai – purtroppo -introvabili e fanno inclinare l’ago del rapporto prezzo/prestazione decisamente a favore di questo locale e speriamo che la Signora Iris riesca a mantenersi il più possibile nel tempo. Luoghi come questi bisognerebbe salvaguardarli “per legge”.

Ci vado regolarmente dal 2006 e ha mantenuto intatta sia la qualità che l'ottimo rapporto con il prezzo.
Trattoria Al Gallo - Piazza Vincenzo Monti, 38 - 48011 Alfonsine (Ra) - 0544.81133 - Chiuso la domenica

lunedì 23 febbraio 2009

Osterie delle Callegherie il sapore di New York

Qualcuno probabilmente ha già fatto questa esperienza, ma forse inconsapevolmente e quindi non ha colto tutto il “sapore” di una serata passata all'Osteria delle Callegherie. Per chi non lo sapesse, questo ristorante, nato nel 1999, è la copia di un altro, presente nella Grande Mela, che porta il nome di Viceversa (pronunciato in americano vaisiversa), realizzato dallo stesso architetto - imolese - e gestito da Franco Lazzari, imolese pure lui, ma ormai newyorkese a tutti gli effetti. Io ho avuto il piacere di visitarlo questo locale “fratello” anche recentemente e posso confermarvi che è l'esatta copia, differente solo negli spazi, più ampi e, naturalmente, nella “location”. Leonardo Mantovani, il titolare di Imola non me ne vorrà, ma New York... L'Osteria delle Callegherie, che deve il nome alla strada in cui si trova che fin dal medioevo si caratterizzava per la presenza di botteghe di conciatori di pelle – da qui il nome dal latino - è un locale che possiede un “pedigree” enogastronomico. Non solo perché precedentemente vi era già un'osteria, ma fin dai primi anni '50 era la sede di un circolo ricreativo che faceva cucina e, durante le serate estive, nel cortiletto interno dietro al locale, improvvisava una pista da ballo. Leonardo, per sua stessa ammissione, è un maniaco dell'ordine e della perfezione e appena seduti, se guardate con attenzione il vostro tavolo e l'ambiente che vi circonda, noterete che tutto è al “suo posto”, cito a titolo di esempio le tovaglie con i quattro lati che distano esattamente alla stessa distanza dal pavimento, i bicchieri perfettamente disposti l'uno dall'altro, le bottiglie esposte sugli scaffali con tutte le etichette rivolte ordinatamente verso l'esterno. Mi ha assicurato però che questa sua grande attenzione non sfocia nelle pericolose tendenze visibili nelle scene del film “A letto con il nemico”. La stessa cura e attenzione l'ha posta nel pensare al locale, con il risultato di un sapiente mix di neo-classico e moderno (il termine di moda è cool) che risulta apprezzato anche in una grande città (New York docet). Il suo amore e passione per il dettaglio si manifesta anche nella proposizione del menù, la strategia di una scelta limitata di piatti garantisce una freschezza certa e un'ottima qualità, grazie anche al Maestro di Cucina, Antonio Di Cesare, che ha la buona abitudine di girare tra i tavoli, per cogliere le impressioni e dare delucidazioni sulla genesi dei piatti e il loro processo di preparazione. Viene fatta una certa rotazione nei piatti presenti nel menù - in base alla disponibilità delle materie prime - ma come ho potuto rilevare la clientela più affezionata ed abituale non gradisce troppe novità od esclusioni. Confesso che io stesso, tempo addietro, protestai educatamente quando non trovai nella carta il mio dolce preferito: la cassata ai fichi caramellati - che è tornato nella lista a giusta causa – e che consiglio assolutamente di assaggiare. Sono meritevoli di segnalazione particolare inoltre le cappesante dorate con crema acida allo scalogno negli antipasti, i ravioli farciti alle patate e formaggio faviggiolo nei primi, la tagliata di bisonte al rosmarino per i secondi. Ottima la scelta di vini guidata Ivan il Sommeliers. Molto curata anche la "colazione di lavoro" che viene variata ogni settimana e si può ricevere anche via email ogni lunedì mattina. Complimenti anche per il sito, aggiornato (http://www.callegherie.it/). In ultimo mi preme consigliarvi di leggere anche il libro “Sale grosso e peperoncino” scritto dal giornalista Corrado Peli utilizzando i racconti dati dall'esperienza, di Leonardo Mantovani. Ne è uscito uno scritto piacevole e gustoso, leggero e rapido da leggere, che permette di vivere alcune ore di rilassatezza in questo mondo oggi particolarmente difficile. Il libro è edito dalla casa editrice La Mandragola.
Osteria delle Callegherie - Via callegherie, 13 - 40026 - Imolat - tel. 0542.24443 -riposo sabato a pranzo e domenica Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'Informazione di domenica 22 febbraio 2009

domenica 22 febbraio 2009

Esperienza e qualità al Giardino dei Semplici

Ritengo il Maestro di Cucina nonché titolare, Renzo Depellegrin, una persona che ha trasferito tutta la sua esperienza e conoscenza sia nei piatti che prepara, sia nell'ambiente in cui ti accoglie. L’amore profondo che nutre per quest’arte si coglie molto bene quando si inizia a parlare con lui di cibo. Nel tempo mi sono accorto come sia un uomo sempre attento ai cambiamenti del gusto e delle abitudini della società, tanto da adattare il suo modo di fare cucina a questi mutamenti. Proveniente dall'esperienza dell'ex Palazzo Tesorieri, sempre in Bagnacavallo, nel 2003 ha scelto di continuare il suo lavoro nella sede attuale: un granaio ristrutturato di un antico palazzo nobiliare del '700. Il ristorante si affaccia su un orto botanico – il giardino dei semplici – molto curato, grazie anche alla grande attenzione dell'Amministrazione Comunale per la cura della città in generale, e che, soprattutto in estate, regala tutta l'atmosfera di tranquillità e serenità tipica di questi luoghi.
Depellegrin, nonostante sia un veneto, è fortemente radicato in questa terra di Romagna e la passione per la ricerca storica legata alla gastronomia si evince nella sua cucina che propone. Accanto alle proposte tradizionali che spaziano dalle nostre minestre tipiche alla grigliata tipica romagnola, affianca una sapiente cucina innovativa che mantiene sempre un sottile legame con il territorio grazie al sapiente utilizzo di prodotti locali. Così si spiegano i Passatelli in fonduta con tartufo nero, i Garganelli S.Daniele o gli Gnocchi di patata con guanciale e porro su carbonara leggera. L’attenzione verso le mutate richieste della clientela hanno portato Il Giardino dei Semplici ad allargare al proposta gastronomica anche al pesce. Anche se questa è “una terra di mezzo” schiacciata tra gli Appennini e il mare, dove fino a quindici anni fa non si parlava di menù ittici nei locali, oggi appunto la situazione è cambiata e il cliente vuole trovare il pesce anche senza spostarsi fino in riviera. Con il pesce stessa strategia: una serie limitata di proposte mirate e sfiziose come il cous cous con gamberi e pesci alla mediterranea, gli spaghetti al granchio con peperoni o ancora il millefoglie di salmone con patate alle erbe del giardino, naturalmente dei semplici. Per gli “amanti” anche della quantità – leggi golosi - voglio rassicurarli che i piatti sono sempre generosi, ma mai a scapito della qualità.
Comunque tutta la proposta alla carta di Depellegrin ha un unico filo conduttore, è calibrata, attenta, misurata e vivace in quanto cambia con una certa frequenza seguendo la stagionalità. Non vi troverete mai di fronte un menù con una quantità enorme di voci, al contrario avrete un’offerta semplice, ma interessante, con qualche consiglio sulla proposta del giorno.
Per ciò che riguarda la proposta dei cibi vorrei evidenziare come i dolci mantengano alta la valutazione sulla qualità. Consiglio vivamente i soufflé e gli sformati, ma anche nella cucina del freddo troverete gustose proposte.
Il Giardino dei Semplici è fornito anche di un’ottima cantina in cui i cultori potranno trovare soddisfazione e divertimento accompagnando “sapientemente” i cibi con il nettare degli dei oppure facendosi consigliare, provando magari il locale “Burson” o affidandosi ad etichette più conosciute.
Il locale lo trovo gradevole, accogliente, con quell’aria di familiarità che si conviene a questi luoghi, mantenendo però una certa eleganza data dalla semplicità. Ancora una volta la tradizione romagnola si sposa con tocchi di innovazione e creatività, ad esempio i lampadari creati dallo stesso Depellegrin. In primavera-estate si può godere di un pergolato esterno che vi offre alla vista l’orto botanico e il giardino racchiuso dalle antiche mura della casa nobiliare.
Se dovessi muovere un appunto al locale lo individuerei nella mancanza di una “zona di ingresso”, appena si entra si è già in qualche modo in sala, ma comprendo anche che la logistica del locale non offriva forse grandi opportunità e naturalmente è voler in qualche modo “spaccare il capello in quattro”.
In ultimo il rapporto prezzo-qualità lo trovo adeguato alla proposta e quindi consiglio vivamente il viaggio.
Ristorante Il Giardino dei Semplici - Via Manzoni, 27 - 48012 - Bagnacavallo (RA) Italia
Tel. 0545.61156 - Chiuso giovedì

sabato 21 febbraio 2009

L'uomo del risentimento

"L'uomo del risentimento ha l'impressione quasi fiera di non poter mai raggiungere il benessere o il potere a cui aspira." Questo afferma Nietzsche spiegando "la morale dello schiavo" e continua in "Genealogia della Morale" che il NO è la sua azione creatrice, il NO è opposto a tutto quello che è "fuori", "l'altro", "che non sia io".

mercoledì 18 febbraio 2009

Il senso dell'esistenza

Oggi l'essenza del dolore sembra soprattutto legata alla difficoltà di reperire un senso per l'esistenza, allo sconcerto che il mondo procura, al bisogno irrisolto di comprendere quel che spiazza e amareggia. Cerchiamo un chiarimento sul senso della vita, sui suoi malintesi, sulle sue banalizzazioni. Se misuriamo la nostra esistenza solo sul successo, sul denaro, la bellezza, la giovinezza, come esseri umani collassiamo, svaniamo, inevitabilmente viviamo la nostra vita come un progressivo inarrestabile declino. Come diceva Voltaire "chi non possiede lo spirito della propria età, subisce i malanni dell'età." Il problema ruota tutto sulla costrizione di oggi ad essere "qualcuno" e così vengono meno i presupposti per essere un individuo.

lunedì 16 febbraio 2009

All'Osteria del Vicolo Nuovo la tradizione è buona regola

Forse solo i frequentatori più abituali sanno che in gennaio l'Osteria del Vicolo Nuovo ha festeggiato i 25 anni di attività dalla sua apertura. Il "vicolo nuovo" - così viene chiamato dagli imolesi - è un luogo che considero di quelli che rimangono nell'agenda delle persone che amano mangiare bene, ad un prezzo corretto e in un locale in grado di trasmettere e lasciare piacevoli sensazioni. Ambra e Rosa, le due titolari, hanno mantenuto negli anni un ottimo livello di qualità nella cucina, grazie a scelte di gestione molto precise legate alla genuinità e alla territorialità degli alimenti, ad una elevata attenzione nella preparazione e nella lavorazione dei cibi, a un' identità gastronomica precisa e costante nel tempo. Tutto questo tradotto in pratica significa scelta di una "brigata" di cucina composta anche di "sfogline" che garantiscono pasta fresca tutti i giorni, fiducia nei due Chef - anche loro donne - Stefania Baldissarri e Simona Sapori, in grado di coniugare tradizione ed innovazione nei piatti proposti, cura del rapporto con alcune aiutanti, ancora donne, che detengono un "patrimonio" - gelosamente custodito - di ricette per dolci molto gustosi; significa ancora grande attenzione al mutare dei gusti e delle richieste della società con proposte come quella dei "Piatti del Mezzogiorno", identificati da colori differenti in base alla loro contenuto - di terra, di mare o dell'orto - e proposti già da anni per una colazione di lavoro ad un giusto compromesso "qualità-quantità-prezzo", per arrivare alle nuove proposte dei menù a "KM ZERO" (menù composti di cibi tutti reperiti sul territorio) a prezzi contenuti - ho assaggiato ultimamente il menù dedicato alla riscoperta della cucina di cortile e l'ho trovato ottimo - ideati e sostenuti dallo Slow Food; significa infine la creazione di tanti piccoli eventi enogastronomici a tema, per vivacizzare e interessare un "target" sempre più ampio di persone. L'osteria, che nasce da subito con una bella scelta di vini, tuttora mantenuta, fu scoperta e "lanciata" inizialmente da Veronelli - poteva essere diversamente ? - e da qui poi iniziarono le segnalazioni su tante altre guide, da quella delle "Osterie d'Italia" alla Guida dell'Accademia Italiana della Cucina, a quella del Gambero Rosso, per citarne alcune, a testimonianza di un impegno professionale continuo che genera qualità. Personalmente trovo il "vicolo nuovo" un luogo dove ci si sente come a casa propria, un tempio del gusto dove si assaporano i cibi in libertà e tranquillità, un luogo che frequento fin dalla sua apertura - agli inizi mi ero innamorato in particolare del "Taglierino" della tradizione - e in cui torno sempre volentieri perché riflette esattamente la passione, l'impegno e il carattere della nostra terra, della Romagna, attraverso la giovialità di Ambra, le proposte di un menù contenuto nel numero dei piatti, ma saporito, invitante e attento anche alla tradizione (dalla Spoja lorda ai nidi al forno passando per il risotto allo spumante, fino allo stinco, alla spalletta di agnello o alle salsiccette arrostite, con i dolci che meritano un'attenzione particolare). Sul tema dei prezzi come ho già detto, trovo che - a dispetto di quanto sento dire a volte - ci sia attenzione ed equilibrio su questo fronte, mediamente un pasto completo - antipasto, primo, secondo, dolce e vino - si aggira tra i 42-45 Euro (ma chi riesce più oggi a mangiare in queste quantità). Non dimentichiamo mai che l'attenzione alla scelta dei prodotti, la loro freschezza e lavorazione fanno la differenza, unitamente al servizio e alla location, di un locale e la comparazione dei prezzi deve obbligatoriamente tenere conto di questi parametri.
Osteria del Vicolo Nuovo - Via Codronchi, 6 - 40026 Imola (Bo) - 0542.32552 - chiuso domenica e lunedì
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 15 febbraio 2009

domenica 15 febbraio 2009

Un po’ di storia… del cibo degli Dei


Pare che la parola cioccolata derivi da "cacahualt", composta da "cacahu" (cacao) e "alt" (acqua), ossia semi di cacao macinati ad acqua. Presso i precolombiani questa bevanda era un alimento d'élite, consumato solo in occasioni religiose e celebrative, come i matrimoni. Per i Maya, suoi inventori, la cioccolata doveva essere calda, in contrasto con la versione Azteca degustata fredda e berne una tazza rappresentava simbolo di ricchezza e ospitalità. L'imperatore Montezuma era solito berne più di cinquanta tazze d'oro. Sono i “Conquistadores” che portano il cacao in Europa dopo la Conquista del Messico (1521). All'inizio la bevanda non riscosse molto successo alla corte di Spagna, ma i monaci spagnoli rendono più amabile il cioccolato, privandolo delle spezie piccanti e mescolandolo con lo zucchero. Attorno al 1615 Anna d'Austria introdusse la bevanda in Europa e per tutto il secolo detrattori ed estimatori del cacao si dettero battaglia. I primi ritenevano l'alimento dannoso alla salute perché risvegliava ira, agitazione, lussuria, e lasciava un abbondante residuo terroso sul fondo delle tazze. Gli estimatori invece, come gli alti prelati della chiesa che lo assumevano come bevanda anche nei giorni di digiuno, affermavano trattarsi di un vero farmaco ricostituente, antidepressivo, capace di rendere vigili e favorire gli sforzi. Nel 1671 un cuoco di casa Plesslin-Praslin versa per errore dello zucchero caldo sull’impasto di mandorle e cioccolato, cristalizzandolo. Il risultato è così goloso che il duca lo battezza con il proprio nome: nascono le Praline al cioccolato. Durante il '700 prevalse la schiera degli amatori della cioccolata, anche se era ancora una mistura farinosa dal retrogusto oleoso, e nel corso della giornata gli appartenenti alle classi elitarie ne bevevano a tutte le ore. La moda si diffuse anche in Italia e nacquero i primi caffè. Ben presto nacquero anche le prime fabbriche di cioccolato, dislocate soprattutto in Piemonte, di cui la prima in assoluto fu la – ancora - assai rinomata "Caffarel". Questa regione ha avuto un ruolo importante per la diffusione della cioccolata, qui vede la luce anche il mitico "gianduiotto” (1852) unendo la pasta alle nocciole tritate e tostate. Pure Bologna contribuì (1796) con la nascita della famosa ditta Majani, i cui cremini FIAT (1911) rimangono ancora oggi un’icona di “cioccolata di lusso”. Nell'800 l’olandese Van Houten aprì una nuova frontiera nel settore del cioccolato, separando efficacemente dai semi del cacao la polvere e il burro, sua anche l’idea di trattare il cacao con alcali per ridurre l’amaro. Nasce il moderno cioccolato industriale, a tavoletta, che fece esplodere il consumo di cacao. Nel 1875 lo svizzero Peter presenta il cioccolato al latte, grazie alla collaborazione con un’azienda di alimenti per l’infanzia, sua vicina di casa: la Nestlè. Ancora nel 1923 a Cuneo nascono i famosi Cuneensi al rum, come nel ‘35 è sempre a Torino che vede la luce il Pinguino o Moretto. Nel ‘46 infine nel piccolo locale aperto quattro anni prima ad Alba, il pasticcere Pietro Ferrero, inventa una crema morbida di cioccolata e nocciole antenata della Nutella.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 14 febbraio 2009 - Estratto della relazione del Convegno sul Cioccolato tenutosi per la manifestazione "Castel Guelfo in Cioccolato"

venerdì 13 febbraio 2009

Il vuoto dentro

Vi è mai capitato di vivere un momento della vita che in qualche modo "segna" un cambiamento nella vostra esistenza ? Si prova quella sensazione di vuoto dentro, la mente gira a mille in innumerevoli pensieri, ma non focalizza veramente qualche cosa in particolare. Ci si sente scavati, asciutti, privi di desideri, necessità o quant'altro. Sembra di essere stati attraversati da parte a parte, si comprende che qualcosa è capitato, che è cambiato per sempre, ma non se ne coglie esattamente la portata. Qualcosa è terminato, si è concluso, una parte della tua vita se ne è andata, ma tu sei lì in balia dell'esistenza, incapace di una reazione o anche solo di un pensiero concreto. Si è in un limbo tra ciò che è stato e ciò che sarà, ma non si vive nemmeno nel presente.

martedì 10 febbraio 2009

Regole

Per produrre ogni terreno ha bisogno di riposare, pertanto è importante darsi regole nella vita lavorativa. Riposare, mangiare a orari regolari, quando si è in libertà leggere cose che non centrino nulla con il proprio lavoro, frequentare amicizie diverse dal proprio ambiente lavorativo. Tutte queste attività sono utili e "produttive", permettono di ricrearsi e acquisire nuove energie per tornare poi al lavoro con passione. Mai accettare un lavoro a metà, un riposo a metà, spendersi o rilassarsi, totalmente, in un caso o nell'altro, senza confondere i due momenti. Pena un'accumulo di affaticamento e una progressiva perdita di stimoli.

lunedì 9 febbraio 2009

Quando si mangiava anche sette volte al giorno...

II Carnevale è sicuramente una delle feste più sentite in Romagna, come d'altronde in molte parti d'Italia e del mondo. Collocandosi temporalmente fra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera, era nell'antichità interpretato come tentativo di risvegliare la vita, legata ai raccolti, al termine della stagione fredda. Non per nulla gli antichi Greci lo celebravano in onore di Bacco, dio del vino e della vita. Proprio questo legame alla terra e quindi alla vita, faceva del Carnevale - nel passato - una festa in cui si esprimeva la volontà di sovvertire l'ordine sociale e naturale e per questo a tutti era concesso di mascherarsi ed inventarsi una nuova identità per un giorno di pazzia, una specie di “orgia vitale” nella quale i defunti si sarebbero misteriosamente mescolati ai i vivi. La tradizione cattolica poi la trasformò nel periodo di feste allegre e spensierate che precedono la Quaresima. In Romagna il costume tipico del Carnevale era un camicione bianco, che veniva indossato in rappresentazione proprio delle anime dei morti. Questa maschera veniva chiamata “la vecchia” e, soprattutto i giovani contadini, andavano in giro per le case così bardati ricevendo offerte di cibo (formaggi, salami, salsicce) e vino – abbondante - con cui prendevano sbronze mirabolanti. Nel nostro territorio ancora oggi esistono le tradizionali feste della “Segavecchia” - molto sentite - con cui si conclude il Carnevale. Segnalo come su questo punto, ma non è l’unico, ci siano attinenze con le tradizioni celtiche ancora vive in alcuni paesi nordici o anglosassoni. Durante tutto l'Ottocento e nei primissimi decenni del Novecento, il carnevale era una festa continua durante la quale le attività preferite erano le maschere, i corsi di recite e le feste da ballo. Questa usanza era comune a tutta l'area romagnola e, particolarmente nell'entroterra, nei piccoli centri affollati per l'occasione da giovani contadini che partecipavano alle feste e scorrazzavano per il paese col solo intento di divertirsi il più possibile sfogando, in tal modo, la sofferenza di una povera vita quotidiana caratterizzata da lavoro e stenti. Dal punto di vista del cibo il periodo di Carnevale era caratterizzato dalla frequenza con cui si mangiava, molte fonti storiche dell'Ottocento e dei primi del Novecento riportano che “...il martedì grasso si mangiava sette volte anche se durante l'anno era difficile unire il pranzo alla cena”. La Romagna è veramente particolare da questo punto di vista e, come si può rilevare dai racconti dello Stecchetti, a volte veramente minuziosi nel riportare quantità e tipologia del cibo. Le occasioni di festa erano fantastiche opportunità per pantagrueliche mangiate, fossero il Natale, il Carnevale o un matrimonio. Il fatto poi che venga riportato da più fonti che “si mangiava sette volte” non deve stupire perché, al di là della veridicità o meno di queste affermazioni - se non erano sette erano cinque o sei - il 7 è un numero caratterizzato da una forte valenza magica e simbolica in Romagna. Dal sabato grasso al martedì il Carnevale viveva il suo momento culminante e coinvolgeva tutti, dai più giovani ai più anziani, si mangiava abbondantemente piadina fritta, salciccia, carne di maiale in genere e dolci. Oggi sopravvive soprattutto la tradizione dei dolci, quasi tutti fritti in olio o – dove sopravvive la tradizione - nello strutto, tra i quali possiamo citare tra i più “famosi”: i raviolini variamente ripieni, le sfrappole. le tagliatelle fritte e le castagnole. Ma, ad esempio, un tempo l’ultimo giorno di Carnevale era tradizione mangiare la gallina più vecchia del pollaio, perché altrimenti - si diceva - sarebbero morte anche tutte le altre. Il Carnevale quindi era il sogno di abbondanza e prosperità, l'unica vera opportunità per poter sfogare la propria rabbia di povertà e la propria fame di pane. Inoltre un altro motivo che incentivava a mangiare molto per questa festa era dato dal periodo che seguiva il Carnevale. Alle dieci dì sera dell'ultimo giorno del Carnevale, veniva infatti suonata una campana che con i suoi rintocchi avvertiva che ci si doveva affrettare a mangiare la carne rimasta, perché a partire dalla mezzanotte si sarebbe entrati nel periodo di Quaresima, un lasso di tempo caratterizzato dall' astinenza dalle carni, allora diffusamente e rigidamente praticata. Da quel momento infatti si “appendeva la padella al chiodo” per poi riutilizzarla solo con l'avvento della Pasqua.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'informazione di domenica 8 febbraio 2009

venerdì 6 febbraio 2009

L’eleganza si può imparare…

I giornali e le riviste sono piene di articoli sul ritorno o meno dell’eleganza, sulla sua importanza, su quello che veramente significa. L’eleganza è una connotazione distintiva della persona che la esprime anche attraverso gli abiti e il modo di vestire. Eleganti non si nasce per un “imprinting” particolare, perché si hanno delle possibilità economiche oppure perché si viene da una famiglia con delle tradizioni – anche se in quest’ultimo caso può aiutare – si può diventare se si è interessati alla propria persona e ci si ama. L’eleganza non è legata allo stereotipo “abito-camicia-cravatta”, ma è qualcosa che si può esprimere anche nel cosiddetto “casual”, se questo è il modo di sentire o di appartenere della persona. L’eleganza non risiede nel mostrare "brand" o etichette particolari, ma è qualcosa che si esprime e si comunica attraverso la cura dei dettagli che, nella somma, danno un’immagine complessiva identificativa del singolo, che diviene riconoscibile tra gli altri. E’ un lavoro di pazienza, di ricerca, di curiosità, di lettura, di interpretazione e adattamento, di approfondimento, di attenzione e riflessione anche su noi stessi, che porta come risultato la scoperta del proprio stile che, appunto, ci contraddistingue. La conseguenza di questo lavoro sta nella sicurezza che tutti i giorni si è in grado di esprimere nella vita, sia essa professionale o personale, e che proviene dalla propria interiorità che ha metabolizzato certezze.
Se togliamo la percentuale – esigua – delle persone che non sono assolutamente interessate al modo di vestire, tutte le altre cercano in qualche modo un tocco di eleganza. A questo proposito, un altro luogo comune è legato all’equazione “eleganza=costo”, cosa assolutamente non vera e oggi, in particolar modo, grazie all’avvento degli outlet è possibile farsi un guardaroba di tutto rispetto senza rovinarsi. Basta seguire poche affermate regole, documentandosi un minimo e, se approfittiamo delle svendite dei negozi, farsi dare qualche consiglio dai commessi.

mercoledì 4 febbraio 2009

Avere una sicurezza... ha qualche significato oggi ?

Ho sempre avuto la convinzione, avvalorata ancor più oggi dalla situazione mondiale, che il significato che si pone dietro alla parola sicurezza sia quanto di più vaporoso ci possa essere. Sicurezza può significare sapere sempre ciò che succederà, quindi niente emozioni, niente rischi, niente sfide, nessuna crescita che, per me, vuol dire morte interiore. La sicurezza è in realtà un mito creato dalla nostra società in un certo momento della storia.
In realtà l'unica sicurezza che possiamo avere e che vale la pena perseguire, è quella interiore, quella che veramente ci può aiutare e essere di supporto. E' la fiducia in noi stessi, nel sapere che, qualunque cosa accada, noi sapremo farvi fronte. Questa si che è una sicurezza durevole.
Le cose potranno volgere al peggio, potremo perdere molto o tutto, ma noi ci sentiremo come delle rocce, intatti nel senso del proprio valore. Sicurezza interiore significa anche coscienza di sapere affrontare tutto, compresa quella mancanza di sicurezza esterna che tanto si teme, capace di toglierci ogni capacità di vivere, di crescere e di realizzarsi pienamente.

lunedì 2 febbraio 2009

L'importanza di preparare la tavola


La convivialità e la conversazione si dimostrano i grandi “facilitatori” del gusto e, perciò, il centro di questa esperienza tornano a essere il cibo e l’alimentazione, in altre parole la cultura della tavola. Soprattutto in momenti di crisi come questo, dove si torna un po’ intimisti, dove si ricercano le cose un po’ perdute, un po’ trascurate, momenti di piacere solo per se stessi, attimi di felicità e pace in un mondo che pare sconvolgere qualsiasi regola, riapproriamoci del gusto, di questo antico sapere. Non dimentichiamo mai che la cultura della tavola è la cultura di un popolo, che si tramanda anche attraverso la memoria dei cibi e quindi della tradizione. Ricordiamo e riflettiamo che l’arte e la cultura costituiscono la base comune su cui ciascuno, partendo dal proprio grado di istruzione, misura e confronta l’esperienza del gusto. E allora se il cibo è - e deve essere - felicità, apparecchiamo ogni giorno la tavola come se avessimo ospiti, in famiglia ma anche se siamo soli. Provate a farlo – così quasi per gioco - qualche volta tanto per “capirne il sapore”, presumibilmente la sera quando certamente tornate a casa dopo le vostre attività e anche il mondo un poco si ferma, rallentate e degustate il momento. Scegliete con cura l’arredo, non per stupire, ma per godere. Il piacere del palato merita il miglior vetro, il miglior servizio, il miglior tessuto, la migliore apparecchiatura. Il piacere che il cibo può dare deve essere accompagnato da tovaglie e tovaglioli freschi di bucato, le posate sistemate in modo curato. Tutto come in un ottimo ristorante. Soprattutto oggi che andare al ristorante costa, il ristorante possiamo farlo noi, può diventare un motivo di novità e di ricerca che coinvolge il partner, la famiglia e, mi ripeto, noi stessi. E crea un “effetto domino” perché porta ad interessarsi di tutto ciò che concerne la Civiltà della Tavola: storia, regole, usi e costumi. Non dimentichiamo mai che la nostra fortuna, uno dei patrimoni più grandi, è avere una cultura del pasto che tutto il mondo ci invidia e cerca di copiare. Datemi retta, gli spuntini davanti alla televisione lasciamoli agli anglosassoni, oppure se proprio se c’è l’evento maximo imperdibile, e la plastica - assolutamente riciclata mi raccomando – riserviamola ai pic-nic fuori porta, al fiume o in collina, senza esagerare. L’improvvisazione alimentare nei parchi o nelle spiagge segnala un’occasione felice e spensierata, che non voglio certo condannare anzi, ma sulle tavole di casa – o ancora peggio sui divani – si trasforma invece in pressapochismo infelice. Un segnale di una “degenerazione” dei costumi, e personalmente ritengo anche dell’educazione, che si propaga velocemente a tanti aspetti della vita e ad atteggiamenti mentali, di cui si vedono i risultati tutti i giorni. D’altronde un nostro antico e illustre antenato ci ha lasciato a imperitura memoria una frase, e ognuno di noi dovrebbe scolpirsi mentalmente e non dimenticare mai, che recita, più o meno, così “…fatti non foste per viver come bruti… “.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 31 gennaio 2009

Quel sapore toscano giunto fino a Castel Guelfo

A Castel Guelfo da alcuni mesi c’è un nuovo ristorante – Il Torracchione - che propone quasi esclusivamente cucina toscana. Forse la cosa non è ancora molto nota, ma all’interno dell’Outlet, nella nuova zona di negozi appena ultimata, ha aperto i battenti questo locale che fa parte di una piccola catena già presente anche nell’Outlet di Barberino del Mugello (all’uscita del casello autostradale sulla Bologna-Firenze). Questo esercizio fa parte di una catena, così detta di “Food Franchising”, ma a dispetto della diffidenza che solitamente si nutre verso queste soluzioni, posso testimoniare che il “format” e la cucina che esprime, almeno nei luoghi da me provati, risultano di buona qualità. I locali sono ben ambientati con un arredamento rustico che ricorda immediatamente le vecchie osterie o i casolari di un tempo e le suppellettili sono realizzati con materiali quali: pietra e mattoni a vista per le pareti, pavimenti in cotto o in pietra, soffitti con travi a vista o a cassettone, tavole e sedie di legno, piatti e bicchieri in coccio, tini, botti di vino e grandi camini rustici con griglia e girarrosto. Non manca un grande bancone dove, in bella evidenza, si trovano tanti prodotti e le varie tipologie di carni servite. Il menù è interessante e sufficiente, con la presenza di piatti – alcuni anche locali – che si ispirano in maggioranza alle tradizioni della cucina rustica toscana. Troviamo cosi negli antipasti crostini e crostoni con vero pane toscano, affettati misti e tante minestre di “sapore” popolare della regione che fu la culla del Rinascimento. Tra i secondi si può ottenere soddisfazione nel palato con piatti come la ribollita, la trippa alla toscana (con il pomodoro), l’immancabile fiorentina con fagioli bianchi all’olio, il pollo alla diavola o ai ferri, contorni al forno e formaggi di pecora. Buona anche la selezione dei dolci. Le porzioni sono abbondanti e i prodotti - regionali e tradizionali – li ho trovati di buona qualità. Interessante anche la selezione dei vini, in grado di accontentare anche i gusti più esigenti, ma ho trovato gradevole anche il vino “nero” che è proposto in caraffa e la birra, tutto alla spina. Il personale è motivato, sorridente e solerte, prende le ordinazioni con palmari wi-fi (senza fili per intenderci), che trasmettono in tempo reale le vostre scelte alla cucina, miscelando così giustamente tradizione e innovazione per offrire un buon servizio al cliente. Ne risulta un’organizzazione efficiente che vuole soddisfare le molte richieste soprattutto concentrate nelle ore di punta all’interno del centro commerciale. La caratteristica di essere dislocato all’interno di quest’outlet è per di più un vantaggio, sia per la fruibilità da parte del cliente che da mezzogiorno, tutti i giorni, può sedersi a tavola “a orario continuato” fino a tarda notte, sia per l’avventore occasionale o curioso, che sa di poter contare su un’apertura non condizionata, finalmente, da giorni di chiusura o orari particolari. Sono un convinto assertore del fatto che la ristorazione deve essere un business-servizio sempre a disposizione dei clienti, come avviene in tanti altri paesi. A riprova di quanto affermo, sono andato in orari diversi e ho potuto notare dall’afflusso come la cosa sia apprezzata. Sono rimasto favorevolmente colpito altresì dal rapporto qualità/prezzo, che ho trovato equilibrato, essendo possibile soddisfare la propria “fame” rimanendo sui 18/20 Euro – ricordo che le portate sono “generose” - ma naturalmente la cifra può crescere se si decide di scegliere un pranzo o una cena con tutte le classiche portate. L’unica critica che muovo è l’eccessiva presenza di tavoli all’interno del locale che costringe, nei momenti di massima affluenza, a sederti a poca distanza dagli altri e questo, se ormai nelle grandi città nessuno ci fa più caso, in provincia può essere un poco fastidioso. Mancando un po’ di riservatezza inevitabilmente il convivio ne viene un po’ a soffrire.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 1 febbraio 2009