sabato 31 dicembre 2011

Cambiamento

Accettare le sfide con coraggio, andare incontro ai cambiamenti. Non tutto deve sempre rimanere come lo è stato in passato. Fare al meglio e proseguire senza tanti rimpianti.
Cambiare il passato non è possibile, ma si può cambiare il futuro non rimanendo sempre rivolti con lo sguardo al passato.

Si deve provare il nuovo e considerare altri punti di vista, altre strade. Il cambiamento è sempre positivo. E' un'opportunità.
Queste sono le caratteristiche che distinguono i vincenti nei tempi buoni e chi sopravvive nei tempi bui.

venerdì 30 dicembre 2011

Hagakure (II, 90)

L'avidità. la rabbia e la stupidità vanno sempre insieme. Quando nel mondo accade qualcosa di male, se osserviamo con attenzione, vedremo che è in relazione con queste tre cose.
Se guardiamo ciò che vi è di buono, ci accorgeremo che non manca di saggezza, umanità e coraggio.

martedì 27 dicembre 2011

Così Einaudi oggi detta l'agenda


Un educatore appassionato, uno scrittore limpido, un divulgatore di classe, un bibliofilo competente, un agricoltore innovativo, un liberale autentico, un patriota convinto, un Governatore miracoloso, un Presidente esemplare: potrebbero essere tanti i percorsi da imboccare per ricordare degnamente Luigi Einaudi, scomparso a Roma cinquant'anni fa.
Ma nessuno, preso da solo, renderebbe giustizia a una figura di cui oggi possiamo riconoscere e ammirare, soprattutto, la sorprendente attualità. Tanto per cominciare, peccherebbe di ipocrisia il giornalista che, celebrando Einaudi, ne trascurasse la tenace e sfortunata battaglia contro l'Ordine dei Giornalisti: «Non esiste un albo di poeti e non può esistere un albo dei giornalisti… L'albo dei giornalisti (se non è volontario, ndr) è, tecnicamente, un istituto assurdo e ridicolo, moralmente uno strumento di schiavitù, un indice infallibile di tirannia».
Certamente, perciò, Einaudi non solo non apprezzerebbe che l'Ordine da lui criticato sopravviva, ma sarebbe sconcertato nel rilevare come, accanto a esso, sia cresciuta una giungla di corporazioni, nelle cui spire si sfianca ogni tentativo di promuovere una società più aperta, meno baronale, meno familistica, capace di premiare il merito e di promuovere l'autentica mobilità sociale. Einaudi vedeva giusto nel 1947, quando scriveva che «le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assoluto parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano all'orizzonte».
Proprio la mobilità sociale era un punto che a Einaudi stava molto a cuore, smentendo - se qualcuno ci crede ancora - il presunto profilo conservatore del suo liberalismo: lo conferma l'insistenza sul principio dell'«uguaglianza nei punti di partenza» che, ancorché depurato dall'«esagerazione retorica», esprime una «esigenza morale» e contiene una «grande virtù». E che può essere consolidato attraverso un sistema di tassazione ereditaria congegnato in modo da premiare «quelle sole famiglie che serbassero virtù di lavoro e di ricostruzione, non di mera conservazione» del patrimonio trasmesso. Qui emergono i tratti del welfare liberale, compassionevole e generalista, ma attento a non mortificare le potenzialità di autorealizzazione che rendono ciascuno imprenditore di se stesso, e a non consolidare rendite di posizione.
Perciò Einaudi non perdonava chi crede «che sia dannoso mettere tanta gente allo studio»; ma aggiungeva che per risultare strumento efficace di mobilità sociale la scuola non può essere mediocre. E qui viene la battaglia contro il valore legale del titolo di studio, nel quale Einaudi vedeva solo una fonte di inganno: «Quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti», per l'illusione creata che «il pezzo di carta dia diritto a qualcosa». Mentre è la qualità effettiva dell'istruzione, facilmente riconosciuta dal mercato, ad aprire le strade del progresso individuale. C'era naturalmente in questa posizione la diffidenza radicata verso ogni forma di monopolio, pur ammantata dalle migliori intenzioni, quale quella che giustificherebbe il modello statalista e centralista di origine «napoleonica» che, argomenta Einaudi, «non garantisce affatto la libertà della scuola». Einaudi non era contro la scuola pubblica, ma contro il monopolio pubblico dell'istruzione: «Importa - spiegava - esistano (nella scuola, ndr.) rivalità, emulazione, concorrenza perché perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene». È un peccato che Einaudi non abbia fatto in tempo a commentare la proposta del buono-scuola.
Monopoli pubblici e privati furono un'altra delle bestie nere di Einaudi, che vi vedeva, assieme a ogni tentativo di ingabbiare il mercato (che per lui era tutt'altro che privo di regole), uno strumento di efficacia pari al collettivismo nel distruggere la libertà. Perciò alla Costituente propose, senza fortuna, un articolo che esplicitasse nella Carta come «La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta»: nelle prime parole dell'articolo, troviamo addirittura un'anticipazione delle future elaborazioni di Bruno Leoni e della scuola di Public Choice (diversi esponenti della quale sono stati insigniti dal premio Nobel per l'economia) per i quali le scelte parlamentari, e quindi la politica, più che curarsi del bene comune tutelano specifici e robusti gruppi di interesse economico. Per arginare i quali, assieme ai conseguenti assalti alla finanza pubblica che l'hanno devastata nel giro di quarant'anni, sarebbe stata utile la diligente applicazione di quell'art. 81 della Costituzione di cui fu coautore lo stesso Einaudi.
Almeno su altre due questioni di bruciante attualità Einaudi avrebbe molto da dire. Innanzi tutto, sul sistema elettorale, a proposito del quale egli non aveva mai nascosto la netta contrarietà alla soluzione proporzionale, che irrigidirebbe «i partiti, i gruppi, le classi, i ceti sociali, le tendenze, le idee, dandone la rappresentanza esclusiva a talune persone elette perché mandatarie di quei gruppi o di quelle idee»: parole del 1944, non della settimana scorsa.
L'altro tema è l'Europa: dal Quirinale, il Presidente vigilò sui primi passi dell'integrazione comunitaria e prese partito sullo sfortunato tentativo di creare una comunità di difesa, il cui fallimento sembrò a un certo punto mettere a repentaglio tutto il percorso dell'Europa unita. Da federalista convinto, Einaudi oggi metterebbe in guardia contro i rischi di fare le cose a metà: per esempio, con un'unione monetaria che non risponda a un'autorità sovranazionale in grado di coordinare le politiche economiche. Di nuovo, sembra di sentirlo parlare di cose di oggi (ma siamo nel 1952), quando Einaudi ammonisce che una politica monetaria comune deve essere gestita da «un ente politico sovrano federale» a costo, altrimenti, di «fare un bel fiasco». O di alimentare sorrisetti e dispettucci.

domenica 25 dicembre 2011

Un Natale autarchico


Natale 2011. Natale di crisi. Da anni il potere d'acquisto delle famiglie si è ridotto, le difficoltà di arrivare al fine mese, ben prima delle ultime manovre. E’ una crisi ormai globale, che si fa sentire. Gli italiani però, preferiscono tirare la cinghia su regali e viaggi, senza rinunciare ai piaceri della tavola. Il Natale è sempre il Natale, come il Capodanno. Si torna a una tavola rigorosamente “made in italy”: 9 italiani su 10 hanno deciso di trascorrere le feste tra le mura domestiche con parenti e amici, cancellando i menù esterofili, con piatti “tricolore”. Questo quanto emerge da uno studio della Cia (Confederazione italiana agricoltori). 

Sono feste autarchiche. Tortelli, cappelletti, lenticchie, bolliti, arrosti e zampone sono immancabili. Il vino, lo spumante e il prosecco italiano sono preminenti su champagne e vini esteri. Questo Natale di crisi rinsalda il legame tra cucina e tradizione. Ci aggrappiamo a ciò che ci dona sicurezza per ricominciare. In questi momenti anche il cibo aiuta.La crisi porta anche alla moderazione e a una maggiore serietà, così finalmente archiviamo, spero, definitivamente quell'ostentazione dell'abbondanza che fa tanto cafona. Si torna al piacere di cucinare insieme, con tutta la famiglia, anche un solo piatto, magari legato alle nostre tradizioni, come le nostre paste ripiene che nascono dalla saggia inclinazione del recupero degli avanzi. Un sondaggio online condotto da Coldiretti rivela che “oltre la metà delle famiglie (54%), dove si cucinerà, dedicherà alla preparazione del menu della tavola di Natale un tempo superiore alle tre ore, ma in poco più di una su dieci (12%) si superano addirittura le otto ore”. Stare insieme in convivio è un modo di comunicare affetto e amicizia, coincidente con il messaggio natalizio che è quello di partecipare alla vita. Il pesce è un po’ démodé, se si esclude la riviera che ha una tradizione consolidata. Resiste, ma se ne fa un uso moderato. Si rinuncia all’aragosta e al caviale. Sulle tavole natalizie quest'anno regnano piatti tradizionali, preparati con ingredienti naturali e meno costosi. Comunque in grado di dare sapore e gusto alle festività 2011. La stessa ricerca sopra citata rivela che 7 chef stellati su 10 hanno dichiarato che “il menu sarà ispirato alla cucina tipica (73%), con i suoi sapori antichi ma rassicuranti e con ingredienti semplici e senza tempo”. Sempre secondo gli esperti, i prodotti nazionali, rivisitati per l'occasione, “trasmettono sicurezza (52%), danno l'idea di festa (44%) e, dato da non trascurare in un periodo di crisi come questo, costano di meno (38%)”. 


Pierangelo Raffini - Scritto per Leggilanotizia.it

«Temo si torni alla violenza Serve più impegno»

Il cardinale Angelo Scola sta preparando il primo Natale da arcivescovo di Milano. Nella sala tra il chiostro, piazza Fontana e l' abside del Duomo sono appesi i ritratti dei predecessori: Achille Ratti divenuto Papa come Pio XI, Ildefonso Schuster, Giovanbattista Montini futuro Paolo VI, Giovanni Colombo, Carlo Maria Martini, Dionigi Tettamanzi. 

Eminenza, nel discorso di Sant' Ambrogio lei invita a non parlare sempre e solo di crisi, ma di travaglio e transizione. Che cosa intende dire? «Dobbiamo considerare con molto realismo l' effettiva gravità della crisi economico-finanziaria. Però in tutti questi anni ho sempre avuto la percezione che la categoria di "crisi" da sola non riesca ad esprimere tutto quello che c' è in gioco. Quel che è avvenuto ha come orizzonte la mutazione inedita che si è prodotta dopo la caduta dei muri. Dopo la fine delle utopie del XX secolo, si sono succeduti rapidissimamente cambiamenti, più che epocali, inediti: la civiltà delle reti, la globalizzazione, la mutazione della percezione corrente della sessualità e dell' amore, la possibilità - irta di rischi - di mettere le mani sul patrimonio genetico, i grandi sviluppi della fisica micromolecolare che indaga l' origine del cosmo - si pensi alla cosiddetta "particella di Dio" -, e poi il "meticciato di culture", i flussi migratori... Mi pare chiaro che, se noi non collochiamo la lettura della crisi all' interno di questo travaglio inedito, non ne usciremo. Una lettura tesa ad individuare ricette tecniche non basta». 

Lei contrappone alla degenerazione della finanza il tema del gratuito. «Questo è un tema su cui la Caritas in veritate ha scommesso moltissimo, ma è stata snobbata dai mondi dell' economia e della finanza. Si confonde il gratuito con il gratis. Quando parlo di gratuità mi riferisco alla coscienza che il lavoro produttivo e il lavoro finanziario, come ogni altro lavoro, possiedono in se stessi una bontà e una bellezza che è possibile riconoscere e attuare. Per i nostri artigiani una bella sedia doveva essere ben fatta prima che ben pagata. Certo, anche l' utile ha valore, ma viene in un secondo momento. La gratuità così intesa è antidoto all' avidità». 

In Italia però si è assistito a una svolta politica, alla nascita di un nuovo governo, che segna anche un nuovo impegno dei cattolici. Come lo giudica? «Il richiamo autorevole che viene dal Papa e dai vescovi all' impegno politico non prefigura alchimie partitiche. Il riferimento è alla visione antropologica che la dottrina sociale si porta dietro nella sua triplice articolazione - principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive d' azione -, secondo la formulazione di Giovanni Paolo II che mentre correggeva la teologia della liberazione rilanciava la dottrina sociale della Chiesa».

Lei ha espresso gravi preoccupazioni sulle tensioni che stanno lacerando l' Europa. «Una volta si affrontavano i problemi di dialettica interna allo spazio europeo con la guerra. Ora li stiamo affrontando con lo spread: speriamo che dallo spread non si ritorni alla violenza». 

Teme davvero il ritorno alla violenza? «Sì, ho questo timore. Non penso a una guerra intraeuropea. Temo che i disequilibri del pianeta possano esplodere là dove la guerra è già in atto o incrociare la delicatissima evoluzione del Nord Africa. La speranza affidabile è che ci si muova tutti: la casa brucia. Per uscire dall' attuale "impagliatura", l' Europa deve ritrovare il meglio della sua storia. Solo così si potrà rivitalizzare la società civile. Inoltre non si può né si deve rinunciare al livello di guida e di indirizzo che la politica possiede per sua natura. In questo contesto la Chiesa italiana è chiamata ad approfondire con slancio deciso il cammino degli ultimi decenni, dal Convegno ecclesiale del 1976 in avanti. Abbiamo il dono del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Noi cristiani dobbiamo recuperare il nostro compito specifico, il compito educativo, a tutti i livelli, dal battesimo in avanti. Il risveglio dell' impegno politico diretto dei cattolici, se rettamente inteso, potrà poi dare un contributo alla rigenerazione del Paese». 

Ritiene che un primo passo verso il risveglio dei cattolici si sia compiuto con la formazione di questo governo? «È solo un segnale. Purché non la si metta in termini di potere. Ovviamente non c' è realtà associata in cui non sia implicato il potere. Ma che tipo di uomo è colui che è preso a servizio dalla società per guidarla, colui che assume un potere? Il problema non è come noi cattolici possiamo riprendere un' egemonia nel Paese. Il problema è vivere il potere nel suo aspetto di verità. Coloro che ascoltavano Gesù dicevano: "Costui parla con autorità" perché lo vedevano coinvolto in ciò che diceva. Gesù ha pagato di persona. La categoria della testimonianza è fondamentale. Gli statisti che hanno dato avvio all' Europa erano uomini che parlavano con autorità, perché erano per primi coinvolti nel progetto in cui credevano. Lungi da me sottovalutare la competenza, la tecnicalità, ma il motivo per cui uno si gioca ogni giorno nella vita viene prima di ogni ruolo o competenza: è il senso stesso del vivere. Lo sperimentiamo a Natale. Il "Dio con noi" cambia il senso della vita. Se Dio è con noi, io vivo in maniera diversa. Bisogna guardare in modo nuovo all' uomo e al suo essere in relazione. Giovanni Paolo II diceva che dalla seconda metà degli anni 60 si era aperta una grande contesa sull' humanum , ma in quegli anni tutti, anche nella durezza di certe fasi che il Paese ha attraversato, sapevamo cosa fosse l' humanum. Oggi noi dobbiamo riscoprirlo, ripensarlo». 

Sta dicendo che c' è un deficit della politica che da soli i tecnici non possono colmare? «Certo c' è un deficit della politica. Dobbiamo ripensarla in termini radicali. Non la impressiona il fatto di quanto poco si parli della storia recente? Accenno per esempio al rapporto tra movimento operaio e movimento cattolico. Anche i sindacati ne parlano troppo poco. Come si fa a leggere i cambiamenti radicali senza un riferimento a questa storia, per poter aprirci al futuro? Ricordo un colloquio con Augusto Del Noce che mi colpì molto. L' autore de Il suicidio della rivoluzione , profezia non piccola, intuì con molto anticipo che la Dc stava finendo perché aveva smarrito la testimonianza e aveva perso la cultura. Ho visto di persona fino agli anni 70 l' impegno gratuito di uomini e donne che, dopo aver lavorato duramente tutto il giorno, la sera trovavano l' energia per dare una mano nel gestire i mille campanili. Amministravano il Paese. Si tratta di intensificare il gusto, l' energia, la passione per la famiglia, il condominio, il campanile, il popolo». 

Qual è il suo giudizio sull' era di Berlusconi? La Chiesa gli ha concesso un credito eccessivo? «È presto per dare un giudizio complessivo. La mia attenzione è puntata sul compito della Chiesa e degli uomini di Chiesa - quindi su ciò che mi riguarda personalmente -, su quello che la grande tradizione chiama il bonum Ecclesiae . L' espressione, ovviamente, non va tradotta con "ciò che è vantaggioso per la Chiesa". Per esempio, si sta facendo un gran polverone sull' Ici; andiamo piuttosto a vedere cosa c' è da tenere e cosa c' è da correggere. Difendere il bonum Ecclesiae , liberi da ogni pretesa egemonica, significa per i cristiani portare in tutti gli ambienti la proposta del Vangelo, la bellezza dell' esperienza cristiana nel quotidiano della vita associata. Se questo sarà vissuto nella sua giusta forma, avremo uomini capaci di virtù non solo teologali - fede, speranza, carità - ma anche cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Sarebbero belle virtù anche per un politico». 

Lei proviene dal movimento di Cl. Non teme che, tra i quasi diciassette anni di potere di Formigoni, gli affari, gli scandali, Cl sia caduta in qualche eccesso? «Credo che Cl sia un fenomeno educativo ecclesiale formidabile, in cui ha primaria importanza la trasmissione tra le generazioni di una modalità persuasiva e vitale di essere cristiani. Tutto il resto, finché io ho potuto vedere dall' interno, cioè fino a vent' anni fa, è sempre stato considerato dell' ordine delle conseguenze, della responsabilità personale di chi si assumeva un determinato compito. Credo che questo adesso sia ancora più chiaro, più marcato ed evidente. Non ho rapporti particolari con il movimento rispetto a quelli con altre realtà associative. Però da quel che vedo e leggo, mi pare che il successore di don Giussani si stia muovendo decisamente in questa direzione: gli uomini che si sono giocati in politica portano lì la loro faccia e su questa base sono stati e saranno valutati dai cittadini. Conosco Roberto Formigoni da quando aveva 14 anni, anche se da tempo ci si vedeva assai di rado. Se è stato eletto per quattro volte consecutive presidente della Regione Lombardia, ci sarà una ragione. Non credo fossero tutti voti di Cl. La sorte di un politico alla fine la determina chi vota». 

Che idea si è fatto del caso San Raffaele? «Mi mancano troppi elementi per formulare un giudizio che ora si baserebbe solo su quanto apprendo dai media. Tutti dicono che è un luogo di grande eccellenza. Non ho ragione per dubitarne. Qualche interrogativo è nato talvolta circa la ricerca biotecnologica. La fede non blocca la ricerca, ma chiede allo scienziato di essere un uomo fino in fondo e quindi di assumersi la responsabilità di rispettare un' antropologia e un' etica adeguate». 

Come giudica la nuova giunta di Milano? «Su questo è sufficiente ricordare l' insegnamento di san Paolo: l' autorità legittimamente eletta dal popolo, viene ultimamente da Dio; finché non ci sono atti o leggi contrari alla legge di Dio, massimo rispetto, massima apertura. Ho incontrato il sindaco Giuliano Pisapia, come ho incontrato Formigoni e il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà. Ho trovato grande correttezza, grande attenzione, come a Venezia in Cacciari, Galan e negli altri interlocutori politici. La Chiesa cerca rispetto per la verità». 

Lei è nato a Lecco, che fa parte della sua diocesi, e si è formato a Milano. Come l' ha ritrovata? «Per me Milano è entusiasmante. Ho passato qui gli anni dell' università e quand' ero fuori ci venivo molto spesso. Devo ammettere di aver fatto fatica a staccarmi da Venezia, che è un grande dono per l' umanità; ma la formula del mio "ritorno a casa" è vera. Sarà forse un anticipo del crepuscolo dovuto all' età...». Non dica così, lei ha appena compiuto settant' anni. «Di anni non ne avrò davanti tanti e sempre a Dio piacendo. Credo che per l' uscita dall' attuale travaglio Milano abbia una funzione di protagonista di primo piano. La sua è una storia in cui l' elemento lavoro è già ben "rodato" a partire dal ' 700. Inoltre la magnanimità e l' accoglienza appartengono al Dna di questa "terra di mezzo". Anche se, come da ogni parte, c' è bisogno di un surplus di relazione, di rispetto, di narrazione, di umiltà nel lasciarsi raccontare dagli altri, di tensione al riconoscimento reciproco, per trovare quel "compromesso nobile" che è il fondamento dell' azione sociale e politica in una società plurale come la nostra»

sabato 24 dicembre 2011

«Manca quella forza capace di indurre a rinunce e sacrifici»

«Alla fine dell' anno, l' Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente». 
Benedetto XVI, circondato da cardinali e vescovi nella cinquecentesca Sala Clementina, ripercorre temi e avvenimenti dell' anno in una sorta di bilancio, il tradizionale discorso alla Curia prima di Natale è uno dei più importanti e attesi. E il Papa punta subito all' essenziale: nell' Europa affetta dalla «stanchezza della fede», dal «tedio di essere cristiani», spesso «manca la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici». Certo, «valori come la solidarietà, l' impegno per gli altri, la responsabilità per i poveri e i sofferenti sono in gran parte indiscussi», mormora il pontefice. Però «la conoscenza e la volontà non vanno necessariamente di pari passo». Perché «la volontà che difende l' interesse personale oscura la conoscenza, e la conoscenza indebolita non è in grado di rinfrancare la volontà». L' interesse personale o di gruppo, il bene comune. 

Benedetto XVI evoca l' immagine biblica della moglie di Lot che «guarda indietro» alla distruzione di Sodoma e Gomorra e viene trasformata in una statua di sale. Allo stesso modo gli uomini, a cominciare dai cristiani, sono tentati di «guardare indietro, a se stessi» e «diventano così interiormente vuoti, statue di sale!». Dalla crisi «emergono domande fondamentali», insomma: «Dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà?». La risposta è il tema centrale del suo pontificato, la necessità di una «nuova evangelizzazione» e di una riforma interiore. Tutto si tiene, nel magistero di Benedetto XVI: per il 2012 ha indetto l' «anno della fede»; già nel discorso alla Curia dell' anno scorso aveva paragonato il nostro tempo al «tramonto dell' impero romano», quando «si disfaceva» quel «consenso morale» senza il quale «le strutture giuridiche e politiche non funzionano». Ma il Papa guarda anzitutto alla Chiesa e riprende il memorabile discorso di settembre a Friburgo: «La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede». Nella sua Germania, il «Paese della Riforma» dove ha reso omaggio alla «passione profonda» di Lutero per la «questione su Dio», il Papa esortava la Chiesa a «liberarsi del suo fardello mondano e politico». Benedetto XVI sa che la «grande medicina» contro «la stanchezza» europea esiste già: è la «gioia» della fede vista in Africa come tra i giovani di Madrid. Che non erano mossi da interessi egoistici, «guadagnare il cielo», «sfuggire l' inferno» o «essere perfetti», no: «Questi giovani hanno fatto del bene - anche se è stato pesante, anche se ha richiesto sacrifici -, semplicemente perché fare il bene è bello, esserci per gli altri è bello. Occorre solo osare il salto».

martedì 20 dicembre 2011

Entusiasmo

Entusiasmo, dal greco "con Dio dentro di se". Significa il senso di essere allevati con il divino, di sentirsi "chiamati" inevitabilmente al di là della nostra finitezza umana, a fare o essere qualcosa che batte sempre le scarse risorse, la stanchezza, la durezza del momento, la bancarotta emotiva o finanziaria.
L'entusiasmo è contagioso. 
Forse non per tutti, ma per la maggioranza.
Ogni volta che qualcuno fa qualcosa per un ideale più alto che non sia lui stesso, li vicino c'è Dio.
Gli entusiasti sono sicuri di portare beneficio. 
Se sei in Dio, sei nell'Uno, sei nella soluzione, sei entusiasta.

Da evitare i freddi, i distaccati, i demoralizzatori, quelli che vedono solo i problemi e le difficoltà, i "mai contenti", i cinici. Sottraggono energia e trasmettono solo negatività. 
Non saranno mai felici nella loro vita.

L'importanza del lavoro

Dovete trovare quello che amate.
Il lavoro occuperà una parte importante della vostra vita e l'unico modo per essere davvero soddisfatti è fare quello che credete sia uno splendido lavoro. 
E l'unico modo per fare uno splendido lavoro è amare quello che fate. Se non l'avete ancora trovato, continuate a cercare. 
Non accontentatevi.

Steve Jobs

domenica 18 dicembre 2011

Rallentare

Ci sono giorni in cui avvertiamo la necessità di rallentare la nostra vita. Frenare bruscamente per vivere un po' di tempo con la lentezza necessaria. Quella che consente di riflettere meglio su se stessi, su ciò che siamo e facciamo. Vivere lentamente quando tutto attorno continua a muoversi alla stessa velocità di prima. Sensazione strana, ma che ti dona quiete e serenità di spirito. Ricercare il silenzio, muoversi piano soppesando ogni azione, guardarsi mentre la si compie. Diventare sensibili e percepire tutto di noi. Nutrire l'animo di attenzioni anche solo per un giorno, aiuta a sentirsi più consapevoli e liberi.

Disinvolti in smoking (il segreto è nei dettagli)


Gli scivoloni: dal risvolto dei calzoni alle scarpe

C' è una scena di assoluto (paradossale) culto stilistico nel prologo di «Agente 007. Missione Goldfinger». È quando James Bond-Connery dopo essere riemerso dalle acque carico di dinamite per combinare grossi danni, sfilandosi la tuta da sub rimane in smoking. Il gusto del dettaglio: da una tasca salta fuori perfino il fiore da mettere all' occhiello dell' irreprensibile giacca bianca. E via, con noncuranza, verso altri sfracelli di ogni tipo. Ecco il nodo essenziale dello smoking: indossarlo con disinvolta dimenticanza, con quella spensierata scioltezza (senza ricorrere all' ammollo come 007), che ci risparmi il grottesco effetto manichino, purtroppo tragicamente a portata di mano. Buon proposito di cui tenere conto, perché le occasioni sono aumentate, così come l' offerta risulta ormai più ampia e accessibile (grande distribuzione compresa) d' un tempo. 


Considerato fino a qualche tempo fa, soprattutto in Italia, ingombrante divisa per paludate occasioni formali tipo prima della Scala o ricevimenti alle ambasciate, lo smoking viene sempre più spesso richiesto anche per appuntamenti più scapigliati genere cinema-moda-design ma pure per serate private ipoteticamente glamour. E questo ovunque. Lo conferma l' autorevole Financial Times che recentemente ha dedicato all' argomento un ampio servizio. «Le nuove generazioni lo portano spesso, comprandolo magari ai grandi magazzini, affittandolo o, i più fortunati, rubandolo dal guardaroba di papà». «Attenzione però ai dettagli - ammonisce il quotidiano economico britannico - perché è la scelta dei dettagli a rendere disinvolti e a sottolineare la vostra personalità». Prendiamo per esempio certi smoking visti l' altra sera alla prima del «Don Giovanni» e vediamo come alcuni dei dettagli possano dire qualcosa su chi li ha indossati. La giacca doppiopetto del presidente Napolitano: classica, rigorosa, costituzionalmente su misura. Il papillon bianco del governatore lombardo Roberto Formigoni: un candido (da candidatura?) distinguo ma contemplato dalle regole. Il farfallino nero del goleador (anche nel cuore di Barbara Berlusconi) Alexandre Pato, finto come tanti altri ma con orrendo gancetto a vista: gli inconvenienti della prima volta. Infine le camicie del sindaco milanese Giuliano Pisapia e del suo assessore Stefano Boeri: il primo con colletto liscio, il secondo con punte alzate, decisamente più expò. Stili inconciliabili: chi l' avrebbe mai detto. 


Ma esiste un codice universale che consenta, tornando agli agenti segreti, di stare più nei panni dell' uomo di mondo James Bond che dell' imbranatissimo Austin Powers? Partiamo dalla giacca nera: mono o doppiopetto (uno o due bottoni che raddoppiano, rivestiti di tessuto). Bianca? Non facile da portare. Smoking tutto bianco? Contemplato preferibilmente sulle terrazze estive. Revers a lancia o sciallati (più americani) coperti di seta. Nel monopetto possibile il panciotto. Pantaloni leggermente stretti in fondo con banda laterale setosa e mai troppo lunghi come invece capita al presidente Obama: vietati i passanti, sì alle bretelle, molto eleganti e pure sì, se fa comodo in quanto contenitiva, alla fascia di seta in vita. La camicia è bianca (dei colletti si è detto), può avere bottoncini in madreperla o gioiello (esagerato) da richiamare sui gemelli ai polsi. Le scarpe? Il comandamento indicherebbe le pump con i fiocchetti o le pantofole in vernice, ma ormai vanno bene anche le stringate di vitello purché tirate a specchio, con calze nere sottili. Bello il fazzoletto al taschino. Con una marcia in più il papillon annodato manualmente. 


L' importante è non cadere nell' horror con la scusa della novità, precipitando sul risvolto dei pantaloni e sugli spacchi della giacca o slittando su camicie button down o scarpe lavorate e a pelle opaca. In realtà da qualche tempo in tema smoking c' è un clamoroso rimescolamento di carte che pur lasciando spesso di stucco i puristi ha contribuito a democratizzare un capo ritenuto difficile e un po' impolverato. Così sulle passerelle modaiole si sono visti il giovanilistico accoppiamento smoking-jeans, il temerario (ma non nostalgico) ricorso alla camicia nera, l' uso di materiali inediti come pelle, cashmere, jersey, maglia, tessuti biodegradabili, filati di visone, lane destrutturate. I più giovani trovano molto chic gli smoking in velluto e ormai risultano sufficientemente collaudati pure gli spezzati con giacche viola o fucsia, colori non storicamente in catalogo. Il Grande Gatsby si sarebbe convertito? Ai veri dandy fitzgeraldiani in teoria sarebbe concessa una sola variazione sul tema: il completo blu notte. Ma forse sono soltanto suggestioni letterarie. 

Gian Luigi Paracchini

venerdì 9 dicembre 2011

Tutti quei gesti quotidiani «cancellati» dalla tecnologia


Con la meticolosa acribia degli anglosassoni, il Daily Mail ha pubblicato nei giorni scorsi l'elenco delle cinquanta occupazioni che hanno stravolto la nostra vita nell'era della tecnologia spinta. Ovviamente l'hanno stravolta in meglio, a dispetto di ciò che pensano i più luddisti o i più dandy di noi - per intenderci, quelli che spediscono ancora bigliettini di carta di riso vergati con la stilografica. Poter consultare l'orario ferroviario di qualsiasi paese, prenotare il posto desiderato - corridoio o finestrino, in senso di marcia o in direzione opposta - pagare digitando semplicemente i dati della carta di credito, il tutto senza recarsi all'agenzia di viaggi, restando anzi incollati alla poltrona del proprio salotto, bè, difficile negarne la comodità. Spedire e ricevere email, comunicazioni quasi sempre prive di fronzoli o preamboli, che non irrompono nella giornata con la petulanza del telefono ma attendono di essere lette finché non avremo la voglia e/o il tempo di farlo, bè, non è forse l'invenzione più civile che ci sia?

Già, però com'erano belle quelle telefonate a sorpresa! E anche i preamboli in fondo ci aiutavano a scaldare la conversazione, ci permettevano di arrivare al punto meno impreparati, dandoci comunque mille indizi sulla vita personale dell'interlocutore, sfumature spesso implicite nel tono di voce che ci dicevano come gli andava, che umore aveva, e finivano per situare la ragione della sua telefonata in un cuore vero, un cuore con nome e cognome, che sentivamo palpitare a distanza. E forse anche le code all'agenzia, o peggio all'ufficio postale, lasciavano uno spiraglio al caso, ci tenevano interconnessi in una rete più limitata (quella dei tizi e delle tizie stipate con noi in coda), ma fervida di possibili imprevisti e tendenzialmente più promettente sul piano dei rapporti umani. Esisteva il tempo, esisteva lo spazio, esisteva la simpatia. Insomma, non è facile venirne a capo. Per me almeno, e per tutta la generazione «anfibia», non lo è.


Nella mia esperienza di «testimone attivo» tendo a distinguere due fasi dell'avvento tecnologico: quella in cui i beni e i servizi sono entrati nelle nostre case e quella, più recente, in cui usciamo di casa inseguendo i nostri beni e i nostri servizi. Nella prima c'è la scoperta degli acquisti on line e di una nuova socialità virtuale: Skype, chat, social network, amicizie che nascono e muoiono senza strette di mano. Nella seconda c'è la scoperta degli smartphone e la rapida trasformazione della vita pubblica nell'ambito condiviso dei semafori, delle sale d'aspetto, delle pizzerie.
Ai semafori, chi non sapeva la strada si guardava attorno spaesato e finiva per abbassare il finestrino e chiedere informazioni all'automobilista accanto. In quell'attimo si creava un contatto: certo, superfluo, eppure di solito sia il richiedente che il rispondente si allontanavano con l'aria soddisfatta. Ora gli automobilisti (esattamente come i turisti a spasso nei dedali delle zone pedonali) seguono le indicazioni del navigatore satellitare.
In sala d'aspetto dal dentista quasi nessuno sfoglia più le riviste, avendo da aggiornare il profilo su Facebook o da postare il twitt «Ho sempre avuto un terrore folle dei dentisti». 
In pizzeria non è più possibile sparare quattro scemenze sull'ultimo film di Kaurismaki senza che almeno un paio di amici si tuffino all'istante su Wikipedia e perdano un'eternità chini così (leggono intere voci!) per dirti che in realtà «L'uomo senza passato» non è del 2000 ma del 2002 e comunque l'attrice Pelcola non si chiama Maria bensì Markku, con due k. Eccoci a un paradosso coi fiocchi: siamo gente che sta in compagnia quando resta sola in casa. E sta sola quando esce in compagnia.

Crisi e lusso

Devo sinceramente ammettere che in questi giorni sono colpito da un forte disagio nel leggere, sui quotidiani, gli articoli sulle conseguenze che avrà questa crisi su moltissimi italiani e vedere, nelle stesse pagine, varie pubblicità a largo spazio su articoli di lusso e brillanti.
Forse è una sensazione tutta personale, ma ai miei occhi stride in modo eloquente.

mercoledì 7 dicembre 2011

5 buoni motivi per usare un tablet sul lavoro


I tablet computer sono nati per il business. Lo sanno in pochi, ma è la verità. Anche se è stata la Apple a imporli come prodotti di massa, i loro antenati, che risalgono alla fine degli anni Ottanta, sono stati progettati come strumenti professionali.
Come spesso accade per le tecnologie di frontiera, a quel tempo non hanno avuto successo nel mondo consumer. Non sono stati né usati, né capiti. Ma da allora (dal 2007 in effetti, quando HP lanciò sul mercato il primo tablet consumer, che si chiamava Pavilion tx1x00) le cose sono molto cambiate. Oggi il tablet è cool. E chi lo compra lo fa soprattutto per motivi che poco hanno a che fare con il lavoro.
Primo motivo: i tablet sono semplici e pratici, ma (sempre più) potenti. Provate a pensare alle cose che vi fanno arrabbiare del vostro computer e poi applicate la stessa selezione a un tablet: scoprirete che quest’ultimo non è afflitto da quei difetti. La sua batteria dura un giorno intero (un Graal che i laptop non sono mai riusciti a raggiungere), è incredibilmente semplice da usare (sia iOS che Android, i due sistemi operativi con cui la maggior parte dei tablet funzionano, sono progettati con la semplicità d’uso in mente), non si rompe quasi mai (funziona con memorie allo stato solido praticamente indistruttibili, non ha una tastiera e ha pochissimi pulsanti: insomma è monolitico e compatto e quindi assai poco soggetto a guasti), è pratico (si può infilare dovunque e con una tastiera esterna è in grado di fare (quasi) tutto quello che fa un computer tradizionale).

Secondo motivo: presto potranno fare di tutto. I nuovi tablet nascono nell’era delle App e questo ne fa strumenti estremamente versatili. Le App sono tantissime (oggi ce ne sono già più di 500 mila per i tablet della Apple e più di 370 mila per Android. Al momento la maggior parte non è dedicata al mondo del lavoro (i giochi la fanno tuttora da padrone), ma il trend sta cambiando rapidamente e presto, diciamo fra due anni al massimo, le App professionali saranno la maggioranza (noi in Aton ne abbiamo realizzata una, .onSales, e che rende la vita molto più facile alla forza commerciale con decine di funzioni avanzate. Gira sull’iPad e presto anche sbarcherà anche sui tablet Android). Pensate ai primi cinque software aziendali che vi vengono in mente: è probabile che tutti e cinque abbiano già un client che funziona su un tablet (o che l’azienda che li produce abbia un team di ricercatori che ci sta lavorando).
Fra due anni un tablet vi permetterà di fare gran parte di ciò che vi serve nella vostra giornata lavorativa, dalla scrittura di un documento in word a una query su un As-400.

Terzo motivo: ci permettono di concentrarti sul cosa e non sul come. È vero oggi, ma non lo sarà domani. Perché ci sono cinque buoni motivi che mi portano a credere che presto, anzi prestissimo, i tablet torneranno “a casa”, diventando uno dei cardini informatici delle imprese. 
I computer tradizionali, anche quelli semplici, sono complicati. Chi lavora in una piccola azienda trascorre parte considerevole del suo tempo a risolvere problemi legati al sistema operativo, a installare (o reinstallare) applicazioni, a trovare funzioni o impararne altre, a cancellare virus… Chi invece lavora in una grande azienda chiede tutto questo al tecnico interno, il che porta comunque via tempo. Un tablet riduce drasticamente queste complessità. L’uomo dei computer verrà comunque a trovarvi, di quando in quando. Ma lo vedrete senza dubbio meno di prima. Lui avrà più tempo per dedicarsi a migliorare l’ICT della vostra azienda, voi potrete concentrarvi di più sul vostro lavoro (quello vero).
Quarto motivo: sono uno straordinario strumento di marketing. La portabilità estrema, la qualità dello schermo, l’assenza di “fronzoli”, la durata delle batterie, fanno dei tablet l’oggetto ideale per presentare il proprio lavoro ad altri. Che si tratti di una presentazione di slide o di un video, di un sito web o di un’immagine, il contenuto che vuoi mostrare a un cliente (o a un fornitore, un partner, un collega…) farà un figurone su un tablet computer. In più, il tutto sta (quasi) in tasca. E con batterie che durano otto ore buone, se non di più, difficilmente vi lascerà a piedi nel bel mezzo della presentazione. I tablet mettono il marketing nelle mani di un numero maggiore di figure aziendali. Offrono la possibilità a un maggior numero di manager e dipendenti di trasmettere all’esterno messaggi strutturati e coerenti con la policy della vostra impresa. I contenuti chiave, quelli progettati per essere diffusi all’esterno, si diffondono con maggior velocità e l’azienda da ciò ha tutto da guadagnare. Sta già accadendo in alcuni settori, come il Fashion. E grazie all futura diversificazione dei tablet (più modelli, con caratteristiche diverse) tenderà a succedere anche in settori più difficili, come quello della manutenzione e della vendita, dove se il tablet cade e si rompe è un guaio.
Quinto motivo: la vostra azienda ve ne comprerà presto uno. Per i motivi sopra descritti e per il fatto che costa (o costerà presto) molto meno di un computer portatile, la vostra azienda sarà sempre più incline ad acquistare grandi quantità di tablet per i propri dipendenti (secondo IDC, nel 2011 i tablet rappresentano già il 15% del mercato totale dei personal computer). Già accade con il top management. Ma molte imprese scelgono già il tablet come regalo aziendale per dipendenti, partner, clienti e molto presto questo oggetto entrerà a far parte della dotazione standard di un numero sempre maggiore di figure professionali. È una buona notizia per chi li produce. Ma la è senza dubbio, per le ragioni di cui sopra, anche per voi che ve li troverete presto sulla scrivania senza bisogno di comprarli.