venerdì 26 ottobre 2007

Mai guardare quelli che fanno peggio



Sebastiano Zanolli

Agosto 2007, faccio l'alternativo.

Carico la famiglia in auto, direzione Brennero, Norimberga, Heidelberg, Friburgo, lago di Costanza da dove scrivo in questo momento.
Da una terrazza di un hotel di Uberlingen, di fronte al Bodensee...a pochi
chilometri dalla Svizzera e dall'Austria, guardo l'acqua scura che rimane
comunque chiara come un buco sulla superficie della terra, come una entrata ad un altra dimensione.
Attorno brillano le luci aranciobianche delle case e del lungolago...
Silenzio.
Nuvole basse a pettinare il cielo e stelle tremule a fare vibrare l'aria fresca del
Baden Wurttemberg...

Io, italiano, in un posto cosi , devo dire, non smetto di farmi domande.
É da quando sono partito che mi faccio domande.
E giro e rigiro con la mia audi che nemmeno mi da la soddisfazione di cambiare marcia e fa tutto da sé.
Senza risposte, senza spiegazioni, solo con dubbi, solo con me.
Certo rischio di sembrare stupido, è o non è il momento della globalizzazione?
Siamo una cosa sola con l’Europa e ormai viaggiamo tranquillamente anche tra
Slovenia, Polonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Cipro, Lituania, Malta, Slovacchia…
Ma le domande affiorano nel mio testone italiano dopotutto.
La mamma mi diceva sempre di non guardare mai quelli che fanno peggio e le
parole della mamma valgono di più ogni giorno che aggiungi alla collana dei
giorni della tua vita.
E allineo le domande come soldatini di piombo perplessi.

Mi sento un vecchio.
Solo i vecchi dal basso delle loro riflessioni barbose e senza speranza, sempre
lamentosi e nostalgici, sempre rimuginanti come bombe ad orologeria si fanno
certe domande.
Ma poi penso che mica è peccato farsi domande.
Per quanto banali.
Per quanto masochiste e anti-scioviniste siano.
Sapete no cos’è lo sciovinismo?...è una manifestazione eccessiva di patriottismo e/o di nazionalismo.
Io italiano, in un posto così, in un paese che abbiamo spazzolato ai mondiali di
calcio, non posso smettere di farmi domande che mi ridimensionano il mio amor di patria.

Ma perché in Germania i marciapiedi sono sempre puliti e i cestini hanno sempre un sacco nuovo?
Sono solo io ad essere fortunato?
Perché in Germania ai distributori ogni pompa ha un secchiello con acqua pulita e un tergivetri che funziona benissimo?
Perché nei campi di fiori coltivati nel mezzo del nulla trovi un tavolo,le forbici, la carta da regalo, un listino ed un cestino dove lasciare i soldi in base a quello che da solo raccogli?
Perché il controllore mi fa pagare i biglietti del traghetto e si fida del fatto che io gli dica che siamo in tre a bordo e mio figlio ha meno di sette anni anche se sono solo in auto e la mia famiglia é a zonzo per la nave?
E perché per imbarcarci con altre 200 auto ci abbiamo messo solo dieci minuti...?
Perché il custode del museo ha speso un quarto d’ora con me per farmi
risparmiare quattro euro attraverso l’uso più accorto della carta famiglia per le
attrazioni di Norimberga?
Perché il signore di prima é tornato sui suoi passi di quasi un chilometro per
spiegarmi la strada più panoramica che mi porta a Meersberg?
Perché, mentre disattento telefonavo e correvo sulla linea di mezzeria, tutti mi
facevano segno che ,no, cosi non si guida, é pericoloso....
Perché i quartieri di immigrati non sembrano ghetti e hanno bidoni per la raccolta differenziata che tutti usano?
Perché ci sono piste ciclabili anche nel mezzo delle città medievali?
Perché a Norimberga funziona lasciare biciclette pubbliche a disposizione dei
cittadini e in Italia, in tutti i posti in cui si è provato, le biciclette sono scomparse come in una magia del mago Copperfield?
Perché i ministri che usano le risorse pubbliche per uso privato danno le dimissioni se scoperti?
Perché anche i punkabestia qui gettano le lattine nei bidoni?
Perché poi ci ammirano tanto e noi prendiamo tanto per ifondelli loro?
Ma poi davvero mi interessa cosa succede in Germania?

Ma no…la Germania, con tute le sue rogne è un pretesto per arrabbiarmi con me stesso e la mia incapacità, a volte impossibilità, di cambiare le cose dove vivo.
E’ vero che dopotutto rimango in Italia e forse nel complesso preferisco il mio Paese al loro.
Ma mi chiedo se non lo preferisco solo perché ci sono nato e qui c’è tutta la mia
vita.
Me lo dovrei chiedere quando vedo le code in autostrada, le code all’ufficio
imposte, le code per il ritiro dei referti medici, le statistiche sulle auto blu, mezzo milione in Italia, 54.000 in Germania, la complessità delle dichiarazioni fiscali, i giorni necessari per avere una ecografia o una TAC…
Quando vedo costruire senza le valutazioni di impatto ambientale, quando vedo
come si creano ghetti impossibili da gestire lasciando poveri disgraziati stranieri ad arrabattarsi senza integrazione mescolandosi a disgraziati criminali in un brodo mortale per tutti.
Certo siamo un popolo di grande simpatia…calore…colore.
Certo ci sono le eccezioni, casi, esempi eclatanti che strappano sorrisi e riscaldano il cuore proprio per la loro eccezionalità.
Ma basterà?
Basterà per fare fronte alla marea montante che prevede grandi alleanze fra
europei?
Basterà per portare i risultati che solo una comunità integra e solidale può portare?

Basterà per trovare soluzioni vere ad un mondo che somiglia ad una equazione a 6 miliardi di variabili…?
Credo di no .
Credo che si debba partire per un grande viaggio.
Un viaggio che inizia rinunciando a rinunciare.
Smettendo di accettare tutto.
Alzando la voce quando il sistema ci chiede di chiudere un occhio…o due.
Non accetterò più l’arroganza del burocrate .
Non accetterò più la somministrazione di servizi pubblici scadenti.
Non accetterò più di farmi rappresentare senza esprimere la mia opinione.
Non accetterò più di vedere sporcare le nostre strade, il nostro mare, le nostre
montagne senza reagire.
Non accetterò un sistema educativo che deprime anziché innalzare.
Non accetterò di essere uno tra tanti, pedina tra le pedine, sbattuto tra i furbi e
destinato ad essere mangiato.
Non accetterò senza combattere nulla che mi spinga a credere che ognuno per sé e Dio per tutti.
Perché qui io ci vivo.
E magari ci vivranno i miei figli.
Forse.
Ma è abbastanza per volere un posto buono dove stare e da lasciare a chi verrà
dopo.
Il sole é scomparso sopra Costanza, inghiottito dall’acqua scura ed io rimango con i miei dubbi e con la certezza che domani si ricomincia e non è mai troppo tardi per fare i conti con il futuro.

martedì 23 ottobre 2007

Monito senza tempo

I potenti cominciarono a trasforamre la dignità in arroganza e il popolo a trasformare la libertà in licenza. Ognuno afferrava quello che poteva, strappava, rubava.
Tutto si divise in partiti e questi dilaniavano lo Stato che stava tra loro. Lo Stato veniva governato dall'arbitrio di pochi. Avevano in mano il tesoro, le provincie, le cariche, la gloria e i trionfi.
Gli altri cittadini erano oppressi dalla povertà, oberati dal servizio nelle Legioni. I capi spartivano le prede con pochi, mentre le persone venivano cacciate dalle loro terre se, per disgrazia, queste erano desiderate da un potente vicino. I capi dei partiti al potere profanavano e devastavano tutto, nulla premeva loro, nulla tenevano per sacro.
Finchè sprofondarono nell'abisso che si erano preparati con le loro mani.

venerdì 19 ottobre 2007

Il tramonto dei valori e la forza della non violenza


Di questi tempi molte persone deplorano il generale decadimento della moralità nel nostro mondo, ad esso imputano la miriade di problemi che dobbiamo affrontare
(la Repubblica, MERCOLEDÌ, 26 SETTEMBRE 2007, Pagina 33 – Cultura)

DALAI LAMA

Le nostre vite si spogliano di significato quando perdiamo i valori di etica e giustizia. Abbiamo tutti un medesimo diritto a perseguire la ricerca della felicità; nessuno vuole dolore e sofferenze. Eppure, giustizia ed eguaglianza sono principi strettamente umani. Non dovremmo sacrificare questi valori andando all´inseguimento del potere o della ricchezza materiale. Al contrario, dovremmo adoperarli per servire gli interessi altrui. Perché ciò accada, tuttavia, abbiamo bisogno che le nostre radici siano solidamente ancorate nell´etica. Se non siamo guidati da un senso di etica e moralità, le nostre azioni tenderanno a perseguire il nostro solo tornaconto personale, a discapito di quello altrui. Un simile atteggiamento è l´ostacolo maggiore che si frappone alla causa della giustizia e dell´uguaglianza.

Di questi tempi, molte persone deplorano la generale perdita di etica e moralità nel nostro mondo, e ad essa attribuiscono la miriade di problemi che dobbiamo affrontare. È mia opinione che se intendiamo perseguire con successo un cambiamento effettivo della nostra società, dobbiamo promuovere i valori etici.

Se metteremo gli altri prima di noi stessi, ciascuno di noi ne trarrà beneficio. Sono convinto che un impegno deciso in questa direzione assicurerà pace e stabilità alle nostre società. Poiché il prossimo necessita della felicità tanto quanto noi, non dovremmo mai sfruttarlo per servire i nostri egoistici fini. Indipendentemente da quale possa essere il vantaggio materiale che ne deriviamo, se noi che dobbiamo condividere questo pianeta dalla nascita fino alla morte perdiamo il rispetto, l´amore, l´amicizia e la solidarietà gli uni nei confronti degli altri, le nostre vite si svuoteranno di significato.

D´altro canto, se ogni nostra giornata la trascorriamo concentrandoci su pensieri amabili, alla sera sentiremo di essere in pace e ciò a sua volta ci concederà un sonno profondo e ristoratore. Se invece da quando ci svegliamo la mattina indulgeremo in pensieri e azioni poco amabili, la nostra vittoria sugli altri ci lascerà l´amaro in bocca e anche il nostro sonno ne sarà disturbato.

La compassione è una delle più importanti cose che rendono significativa la nostra vita. È fonte di tutte le gioie e felicità durature. È il presupposto di un cuore buono, il cuore di colui che agisce nell´intento e col proposito di aiutare il prossimo. Per mezzo della gentilezza, l´affetto, l´onestà, la verità e la giustizia verso chiunque altro, di fatto ci garantiamo il nostro stesso beneficio. Non si tratta di una teoria elaborata e complessa, ma soltanto di comune buonsenso. È innegabile che la considerazione per il prossimo dà soddisfazione e che la nostra felicità è inestricabilmente legata alla felicità altrui. Né del resto è impossibile negare che se la società soffre, anche noi soffriamo di conseguenza. È lampante infatti che quanto più i nostri cuori e le nostre menti sono afflitte da malanimo e rancore, tanto più diventiamo spregevoli. Pertanto, anche se dovessimo respingere qualsiasi altra cosa – religione, ideologia, saggezza – non possiamo eludere queste cose necessarie, amore e compassione.

Nel corso delle nostre vite prendiamo spesso decisioni incaute e malconsigliate che danneggiano gli altri o noi stessi. Lo facciamo per ignoranza. Crediamo che un determinato comportamento ci darà la felicità, mentre di fatto ci porterà sofferenza. Sentimenti di rabbia e l´impulso a vendicarci spesso ci spingono a far del male agli altri nell´errona convinzione che ne trarremo beneficio e che ciò potrà apportarci una certa felicità. Al contrario, ciò apporta sofferenza, non soltanto per le vittime delle nostre azioni, ma anche per noi stessi. Per quanto ci si possa sentire legittimati e giustificati, fare del male al prossimo, anche in nome della vendetta, influisce gravemente sulla nostra pace interiore e crea in noi le premesse per la sofferenza.

Gli esseri umani devono convivere e dipendono gli uni dagli altri da molti importanti punti di vista. Nella società umana ci occorrono pertanto codici morali di comportamento, utili a vivere in pace e in armonia gli uni con gli altri. Anche se le vittime possono avvertire il bisogno psicologico di sapere che giustizia è fatta, infliggere dolore e sofferenza a qualcun altro serve soltanto ad aggravare il male che già è stato commesso e non migliora affatto il potenziale di felicità di chiunque sia coinvolto. Invece della vendetta, è il concetto di perdono che dovrebbe essere incoraggiato e approfondito.

Se davvero agiamo perché abbiamo a cuore il benessere del nostro prossimo, riconosceremo il potenziale impatto delle nostre azioni sugli altri e regoleremo la nostra condotta di conseguenza. Quando ci facciamo prendere dalla collera, smettiamo di provare compassione, amore, generosità, perdono, tolleranza e pazienza tutte insieme. Ci priviamo, in pratica, di tutto ciò di cui è fatta la felicità. E non soltanto la collera annienta immediatamente le nostre facoltà di giudizio, ma tende a diventare rabbia, rancore, odio e malvagità, tutti sentimenti sempre negativi perché causa diretta del male inflitto ad altri.

Se invece riusciamo a dissipare la collera e l´odio, se riusciamo a ragionare per analizzare la situazione, adottando una prospettiva più ampia e guardando gli altri punti di vista, ne germoglia il perdono, il risultato finale di questa analisi, il frutto della pazienza e della tolleranza. Se siamo davvero pazienti e tolleranti, il perdono giunge naturale.

Anche se possiamo aver vissuto in passato un profondo dolore, maturando pazienza e tolleranza ci sarà possibile far scomparire la rabbia e il rancore. Se analizziamo con chiarezza la situazione, ci è possibile renderci conto che il passato è passato, che continuare a provare rancore e odio non ha scopo alcuno. Odio e rancore non cambiano la situazione, ma creano ulteriore putiferio nella nostra mente, diventando causa per noi di infelicità prolungata. Ovviamente, potremo ancora ricordare che cosa è accaduto, ma dimenticare e perdonare sono due cose diverse. Non c´è nulla di male nel ricordare semplicemente quello che è accaduto, ma sviluppando il senso del perdono sarà possibile lasciar svanire tutti i sentimenti negativi associati a ciò che ha avuto luogo. È per questo motivo che il perdono ci dà la libertà: perdonare non significa farla passar liscia ai colpevoli, a coloro che si sono macchiati di qualcosa. Perdonare significa liberare la vittima. Se si riesce a perdonare, non ci si deve più preoccupare di chi ha commesso qualcosa di male nei nostri confronti, di come gliela faremo pagare. Si sarà liberi, liberi da questo pesante fardello.

È mio sincero auspicio e desiderio che il perdono arrivi a essere considerato qualcosa di enormemente efficace non soltanto nella vita privata di ciascun individuo, ma altresì nell´arena delle relazioni pubbliche e finanche nell´ambito dei rapporti internazionali. L´idea che avere a cuore il bene altrui sia questione limitata alle interazioni tra i singoli è soltanto miope. La compassione, come pure il perdono e la tolleranza ai quali essa dà vita, appartengono ad ogni sfera di attività. In quanto fonti di pace interiore ed esteriore al tempo stesso, sono valori fondamentali per la sopravvivenza a lungo termine della nostra specie. Da un lato, sono valori propri della nonviolenza, dall´altro danno significato alle nostre vite e ci permettono di essere autenticamente costruttivi.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Siate affamati, siate folli




A soli 20 anni, insieme a Stephen Wozniak, fondò la Apple che ebbe la sua prima sede nel garage dei genitori e in soli dieci anni divenne una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti.
Già questo renderebbe la storia di Steve Jobs straordinaria. Ma il meglio viene
adesso...

A trent'anni paradossalmente Jobs venne licenziato dalla società da lui stesso fondata. Così fondò una nuova società, la Next e poi la Pixar, la casa produttrice del primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, e che oggi è lo studio di animazione di maggior successo nel mondo.

Successivamente Apple comprò NeXT e Jobs ritornò a dirigere la Apple, dove, negli ultimi anni ha intrapreso l'avventura degli IPod, l'ultima dimensione in fatto di musica. Cosa gli permise di ottenere simili risultati? Possiamo intuirlo leggendo un discorso pronunciato il 12 giugno del 2005 in occasione della cerimonia annuale per il conferimento delle lauree all'università di Stanford.

Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale.

Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”. Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel
bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università. Infine, diciassette anni dopo ci andai.
Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i
risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti. Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna.
Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio: il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’ e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante. Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di
calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora
possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’ e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo. Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in
qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro
ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete... Questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia parla di amore e di perdita. Fui molto fortunato - ho trovato cosa mi piacesse fare nella vita piuttosto in fretta. Io e Woz fondammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo appena vent’anni. Abbiamo lavorato duro, e in dieci anni Apple è cresciuta da noi due soli in un garage sino ad una compagnia da due miliardi di dollari con oltre quattromila dipendenti. Avevamo appena rilasciato la nostra migliore creazione - il Macintosh - un anno prima, e avevo appena compiuto trent’anni... quando venni licenziato. Come può una persona essere licenziata da una Società che ha fondato? Beh, quando Apple si sviluppò assumemmo una persona - che pensavamo fosse di grande talento - per dirigere la compagnia con me, e per il primo anno le cose andarono bene. In seguito però le nostre visioni sul futuro cominciarono a divergere finché non ci scontrammo. Quando successe, il nostro Consiglio di Amministrazione si schierò con lui. Così a trent’anni ero a spasso. E in maniera plateale. Ciò che aveva focalizzato la mia intera vita adulta non c’era più, e tutto questo fu devastante. Non avevo la benché minima idea di cosa avrei fatto, per qualche mese. Sentivo di aver tradito la precedente generazione di imprenditori, che avevo lasciato cadere il testimone che mi era stato passato. Mi incontrai con David Packard e Bob Noyce e provai a scusarmi per aver mandato all’aria tutto così malamente: era stato un vero fallimento pubblico, e arrivai addirittura a pensare di andarmene dalla Silicon Valley. Ma qualcosa cominciò a farsi strada dentro me: amavo ancora quello che avevo fatto, e ciò che era successo alla Apple non aveva cambiato questo di un nulla. Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare.
Non potevo accorgermene allora, ma venne fuori che essere licenziato dalla
Apple era la cosa migliore che mi sarebbe potuta capitare. La pesantezza del successo fu sostituita dalla soavità di essere di nuovo un iniziatore, mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita. Nei cinque anni successivi fondai una Società chiamata NeXT, un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una splendida ragazza che sarebbe diventata mia moglie.
La Pixar produsse il primo film di animazione interamente creato al computer, Toy Story, ed è ora lo studio di animazione di maggior successo nel mondo. In una mirabile successione di accadimenti, Apple comprò NeXT, ritornai in Apple e la tecnologia che sviluppammo alla NeXT è nel cuore dell’attuale rinascimento di Apple. E io e Laurene abbiamo una splendida famiglia insieme.
Sono abbastanza sicuro che niente di tutto questo mi sarebbe accaduto se non fossi stato licenziato dalla Apple. Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica
cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il/la vostro/a findanzato/a che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi.

La mia terza storia parla della morte. Quando avevo diciassette anni, ho letto
una citazione che recitava: “Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, uno di questi c’avrai azzeccato”. Mi fece una gran impressione, e da quel momento, per i successivi trentatrè anni, mi sono guardato allo specchio ogni giorno e mi sono chiesto: “Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?”. E ogni volta che la risposta era “No” per troppi giorni consecutivi, sapevo di dover cambiare qualcosa. Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto - tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento - sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore. Un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Effettuai una scansione alle sette e trenta del mattino, e mostrava chiaramente un tumore nel mio pancreas. Fino ad allora non sapevo nemmeno cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che con ogni probabilità era un tipo di cancro incurabile, e avevo un’aspettativa di vita non superiore ai tre-sei mesi. Il mio dottore mi consigliò di tornare a casa ‘a sistemare i miei affari’, che è un modo per i medici di dirti di prepararti a morire. Significa che devi cercare di dire ai tuoi figli tutto quello che avresti potuto nei successivi dieci anni in pochi mesi. Significa che devi fare in modo che tutto sia a posto, così da rendere la cosa più semplice per la tua famiglia. Significa che devi pronunciare i tuoi ‘addio’. Ho vissuto con quella spada di Damocle per tutto il giorno. In seguito quella sera ho fatto una biopsia, dove mi infilarono una sonda nella gola, attraverso il mio stomaco fin dentro l’intestino, inserirono una sonda nel pancreas e prelevarono alcune cellule del tumore. Ero in anestesia totale, ma mia moglie, che era lì, mi disse che quando videro le cellule al microscopio, i dottori cominciarono a gridare perché venne fuori che si trattava una forma molto rara di cancro curabile attraverso la chirurgia. Così mi sono operato e ora sto bene. Questa è stata la volta in cui mi sono trovato più vicino alla morte, e spero lo sia per molti decenni ancora. Essendoci passato, posso dirvi ora qualcosa con maggiore certezza rispetto a quando la morte per me era solo un puro concetto intellettuale: Nessuno vuole morire. Anche le persone che desiderano andare in paradiso nonvogliono morire per andarci. E nonostante tutto la morte rappresenta l’unica destinazione che noi tutti condividiamo, nessuno è mai sfuggito ad essa. Questo prché è come dovrebbe essere: la Morte la migliore invenzione della Vita. E’ l’agente di cambio della Vita: fa piazza pulita dl vecchio per aprire la strada al nuovo. Ora come ora ‘il nuovo’ siete voi, ma un giorno non troppo lontano da oggi, gradualmente diventerete ‘il vecchio’ e sarete messi da parte. Mi dispiace essere così drammatico, ma è pressappoco la verità. Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. E, ancora più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra
intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare. Tutto il resto è secondario. Quando ero giovane, c’era una pubblicazione splendida che si chiamava The whole Earth catalogé, che è stata una delle bibbie della mia generazione. Fu creata da Steward Brand, non molto
distante da qui, a Menlo Park, e costui apportò ad essa il suo senso poetico della vita. Era la fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer, ed era fatto tutto con le macchine da scrivere, le forbici e le fotocamere polaroid: era una specie di Google formato volume, trentacinque anni prima che Google venisse fuori. Era idelista, e pieno di concetti chiari e nozioni speciali.
Steward e il suo team pubblicarono diversi numeri di The whole Earth catalog, e quando concluse il suo tempo, fecero uscire il numero finale. Era la metà degli anni Settanta e io avevo pressappoco la vostra età. Nella quarta di copertina del numero finale c’era una fotografia di una strada di campagna nel primo mattino, del tipo che potete trovare facendo autostop se siete dei tipi così avventurosi. Sotto, le seguenti parole: “Siate affamati. Siate folli”. Era il loro addio, e ho sperato sempre questo per me. Ora, nel giorno della vostra laurea, pronti nel cominciare una nuova avventura, auguro questo a voi.

Siate affamati. Siate folli.

STEVE JOBS

lunedì 15 ottobre 2007

La Repubblica

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo coppieri che gliene versano quanto ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono sono dichiarati Tiranni.
E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di lui, che i giovani pretendono gli stessi diritti, la stessa considerazione dei vecchi, e questi per non parere troppo severi, danno ragione ai giovani.
In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo nè rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la Tirannia.
Platone

martedì 9 ottobre 2007

Il manifesto dell'Accademia


Nel "Manifesto del Cinquantenario", frutto di un intenso e capillare lavoro svolto dal Comitato scientifico del Centro Studi dell'Accademia, sono stati riaffermati i principi accademici alla luce delle trasformazioni sociali, economiche e di costume intervenute nel corso dei suoi cinquant'anni di vita. Principi accademici che tengono conto della tradizione e dell'innovazione, che spaziano dalla scuola alla famiglia, alla ristorazione pubblica, al turismo, all'ambiente, ribadendo il credo dell'Accademia nella tutela della cultura e della qualità della gastronomia italiana.

LA CULTURA
Si va sempre più affermando il concetto che anche la cucina e soprattutto la gastronomia sono cultura, con tutto il loro bagaglio di storia, di tradizione, di forte incisività sulla struttura sociale. L’Accademia si sente protagonista di questo processo altamente qualitativo di recupero culturale, rilevando come sia necessario porre molta attenzione alla qualità dell’approccio culturale alla gastronomia, alla correttezza dell’informazione, alla difesa delle diversità fra le diverse culture, contro i pericoli dell’omologazione e della globalizzazione culturale.

LA TRADIZIONE
In un mondo sempre più attento ai valori dell’ambiente, l’Accademia Italiana della Cucina rivendica il proprio ruolo di difesa e valorizzazione della cucina regionale legata al territorio, alle sue tradizioni, ai suoi prodotti tipici. Il moltiplicarsi di iniziative legate alla gastronomia trova l’Accademia consenziente, purché le varie sagre e feste popolari siano sempre e in ogni caso legate al territorio, all’ambiente ed alle autentiche tradizioni locali. Il passaggio, avvenuto negli ultimi decenni, dal concetto di sagra religiosa a quello di festa pagana non deve far perdere a queste iniziative le proprie radici ambientali.

LA CONVIVIALITÀ
Si sta assistendo ad una trasformazione del convito da momento d’aggregazione famigliare o di amicizia in atto di mera esibizione. L’Accademia tende, in quest’ambito, a salvaguardare i valori sociali, culturali e morali del convito inteso come felice parentesi di conversazione, di gioia, di piacere e di amicizia. Non bisogna però dimenticare il gran valore educativo della tavola famigliare, elemento essenziale e propedeutico per l’educazione al gusto delle giovani generazioni.

LA GENUINITÀ DEGLI ALIMENTI
La genuinità dei prodotti agroalimentari non rappresenta solo un valore economico, ma assume sempre più i contorni di un’imprescindibile necessità sociale. In quest’ambito l’Accademia riconosce la validità sempre più pregnante dell’equazione qualità/territorio, in quanto la qualità e la genuinità vanno di pari passo con la tradizione consolidata nelle coltivazioni e nell’allevamento, frutto d’esperienze millenarie, sia pure con corretti accorgimenti tecnologici. Occorre inoltre adottare la massima vigilanza anche contro i “falsi gastronomici”, prodotti meramente commerciali e speculativi di tendenze talvolta anche nocive per la salute.

IL VINO
L’enologia italiana ha fatto passi da gigante sia sul terreno della qualità sia su quello della commercializzazione. Oggi i vini italiani sono apprezzati in tutto il mondo. Anche in Italia si presta una maggiore attenzione al vino come elemento essenziale di una buona gastronomia. Anche la ristorazione pubblica dedica al vino il ruolo che esso merita, valorizzando la cantina.
Molto spesso però nei ristoranti i vini proposti risultano eccessivamente costosi, mentre non riesce a prender piede in Italia l’abitudine di servire al cliente il vino “a bicchiere”, consentendogli così di poter abbinare ad ogni piatto il vino giusto e ad un costo contenuto. L’Accademia guarda con interesse a quest’importante salto di qualità.

IL CONSUMATORE POSTMODERNO
Viviamo il passaggio da una società moderna, d’impostazione ottocentesca, ad una società postmoderna (e multietnica), nella quale alla cultura della tavola viene sostituita la pseudo cultura del consumo. Le principali caratterizzazioni del consumatore postmoderno sono la sua complessità, irrazionalità, edonismo in molti comportamenti, eclettismo e sincretismo, che si manifestano con un cambiamento accentuato e soprattutto imprevedibile. L’Accademia, riconoscendo lo stato di fatto, ritiene che un ricupero della cultura del cibo, della cucina e della tavola siano indispensabili per un equilibrio psicofisico del cittadino e della società.

LE MODE ALIMENTARI
L’epoca in cui viviamo è contrassegnata in maniera sempre più invasiva da una serie di mode e contromode che interessano da vicino la gastronomia e che si associano ad una perdita delle tradizioni alimentari, ma soprattutto di precisi punti di riferimento gastronomici. Ne consegue l’imperversare del fast food, della sempre più prepotente presenza dell’hamburger nell’alimentazione giovanile, delle diete più o meno strampalate, della ciclica proposta d’alimenti sempre nuovi come la rucola, il pomodoro di Pachino, i frutti esotici. L’Accademia è decisamente contraria a quest’imbarbarimento della tavola tradizionale, anche attraverso l’inserimento di prodotti estranei o fittizi.

IL RISCHIO GLOBALIZZAZIONE
L’inserimento sempre più stretto dell’Italia nella compagine mondiale comporta, oltre a numerosi innegabili vantaggi, anche dei rischi, specialmente nel campo agroalimentare e della gastronomia. A suo tempo l’Accademia ha elaborato un documento, dal titolo “Il rischio Europa”, nel quale si evidenziava la necessità di una stretta difesa della tipicità dei nostri prodotti e della tipicità delle nostre preparazioni gastronomiche. L’Accademia oggi ribadisce quanto già indicato, ma soprattutto amplia l’orizzonte al mercato mondiale con i rischi di una globalizzazione che porti ad una perdita delle identità locali ed auspica la codificazione di una serie di “prodotti prototipo” e della preparazione di un “codice gastronomico”.

IL RISCHIO TECNOLOGICO
L’orizzonte della gastronomia italiana e mondiale si presenta con molte nubi, spesso foriere di tempesta. Si tratta delle tecnologie avanzate, della biodiversità, delle manipolazioni genetiche, delle coltivazioni biologiche e di tutta una serie di procedimenti di cui allo stato s’ignorano tanto i rischi quanto i benefici. L’Accademia, pur prestando la dovuta attenzione a questi autentici rivolgimenti strutturali, che coinvolgono in prima persona l’alimentazione, guarda con preoccupazione più che con scetticismo l’avanzata di sistemi produttivi e di conservazione che rischiano di snaturare sapori, profumi ed anche le componenti organolettiche dei cibi.

LE NUOVE GENERAZIONI
Le nuove generazioni si trovano di fronte ad un panorama gastronomico artificiale e falsato dalla globalizzazione, dalle multinazionali, dalla pubblicità. L’Accademia promuove un’educazione culturale, accogliendo tra le proprie file molti giovani attraverso un programma appositamente studiato. Si è rilevato che, nei confronti della tavola tradizionale, i giovani passano facilmente dall’indifferenza alla curiosità, dalla curiosità alla conoscenza e dalla conoscenza all’apprezzamento.

LE CUCINE ETNICHE
In Italia stanno proliferando ristoranti etnici, determinando un nuovo panorama della ristorazione pubblica, ma soprattutto influenzando il gusto e favorendo il sincretismo alimentare. L’Accademia ha il massimo rispetto e la dovuta considerazione per quei ristoranti etnici che rispettino l’autenticità, la genuinità e la qualità delle singole cucine e delle loro tradizioni. Molto spesso, purtroppo, le cucine etniche presenti in Italia sono approssimative, senza quell’autenticità che dovrebbe contraddistinguerle.

I RISTORANTI
In Italia la ristorazione pubblica ha compiuto un grandissimo miglioramento, accompagnato, sul versante opposto, da una caduta non tanto di qualità quanto d’autenticità. La sperimentazione fine a se stessa, la rivisitazione spesso arbitraria di ricette tradizionali consolidate, l’innovazione più spericolata rischiano di cancellare, nell’immaginario collettivo, il buon nome della tavola italiana. Per l’Accademia, il ruolo della ristorazione d’alta qualità è indispensabile per la formazione del gusto e per la Cultura della Tavola. Per questo, il monitoraggio della tavola pubblica è un impegno statutario, che è seguito con coscienziosa attenzione, anche con la divulgazione dei risultati attraverso la Rivista dell’Accademia ed altri canali informativi.

IL TURISMO E L’AGRITURISMO
Negli ultimi decenni si è andato sviluppando in Italia un movimento turistico notevole, favorito dalla rete stradale e dall’aumento della motorizzazione. In quest’ambito, la ristorazione pubblica è andata via via assumendo un’importanza particolare, specie quella dei piccoli centri. L’Accademia presta molta attenzione a questo fenomeno, monitorando anche le piccole trattorie che quasi sempre conservano intatti i valori della tradizione. Negli ultimi tempi, poi, si è andato sviluppando il fenomeno dell’agriturismo, che consente a molte aziende agricole di sopravvivere con l’alloggio e la ristorazione, mettendo a disposizione dei turisti attrezzature spesso di notevole interesse ed un’alimentazione basata sui prodotti di fattoria. L’Accademia giudica positivamente queste novità, purché mantengano i necessari elementi di tradizione e di qualità.

LA CUCINA ITALIANA NEL MONDO
La ristorazione italiana sta ottenendo un grandissimo successo in tutto il mondo grazie alla serietà dei ristoratori, alla professionalità del personale di cucina e di sala e, soprattutto per l’utilizzo pressoché esclusivo di prodotti italiani che, grazie all’attuale celerità delle comunicazioni, possono raggiungere rapidamente dall’Italia ogni punto del globo. Purtroppo, accanto a questi ristoranti di grande classe e d’ottimo prestigio, proliferano molti locali che d’italiano hanno solo il nome, e che nuocciono al buon nome della tavola italiana.
L’Accademia, attraverso le proprie Delegazioni all’estero, presta una grande attenzione a questo fenomeno, premiando i ristoranti meritevoli e segnalandoli nella propria “Guida ai ristoranti”, l’unica che riporti anche i ristoranti italiani all’estero. In modo analogo l’Accademia partecipa alle iniziative ufficiali di diffusione della cucina italiana di qualità all’estero.

SCUOLA E FAMIGLIA
La famiglia e la scuola stanno prestando oggi maggiore attenzione ai fattori nutrizionali del cibo che non ai suoi elementi più prettamente gustativi. Per rendere più aderenti alla realtà sociale i principi di educazione alimentare delle scuole elementari e medie, basati unicamente sulle proprietà nutritive di un ingrediente, dando scarso rilievo alla sua preparazione, l’Accademia ha a suo tempo elaborato un documento dal titolo “Educazione al gusto”, suggerendo un progetto di educazione alimentare obbligatoria nelle scuole tale da favorire nelle giovani generazioni il gusto e il buon gusto del cibo ed il piacere della convivialità, specialmente quella famigliare. In particolare si dovrà insegnare ai ragazzi come riconoscere i sapori, i profumi, la qualità e la genuinità di un cibo, e soprattutto come comportarsi di fronte alle novità gastronomiche ed alla pubblicità alimentare. Questo programma dovrebbe coinvolgere le famiglie, le madri e gli insegnanti.

LO STATO
Le amministrazioni pubbliche dimostrano in genere un notevole interesse per lo sviluppo della gastronomia e per la tutela delle tradizioni gastronomiche. Il Ministero degli Affari Esteri sta svolgendo un’interessante opera di promozione attraverso gli Istituti italiani di cultura in collaborazione con l’Accademia. Il Ministero per le Politiche agricole sta realizzando interessanti forme di tutela e difesa dei prodotti italiani e della tavola italiana. L’Accademia plaude a queste iniziative che sono nel solco dei propri obiettivi statutari.

lunedì 8 ottobre 2007

Le vongole dell'antipolitica di Pietro Calabrese

Chiedo scusa perché sarà un editoriale molto impopolare. Farà indignare qualcuno e mi farà mandare a quel paese da altri. Ma nei miei doveri rientra anche quello di dire ai lettori di Panorama quello che penso, e dirlo nella maniera più chiara possibile. Penso che a forza di cavalcare l’antipolitica si rischia di mandare a gambe all’aria anche la politica con la «P» maiuscola, quella che è rispetto per la cosa pubblica e linfa di ogni democrazia.La politica non è soltanto arroganza e privilegi, ruberie e fango. La politica è anche la gestione corretta dell’esistente, la capacità di dare le regole per il vivere civile e di cambiare quelle che non si adattano ai tempi. La politica è visione, una speciale visione del futuro, un cammino da tracciare per i nostri figli e per quelli che verranno dopo di loro. La politica è lavorare con passione a un progetto e assicurare il presente ai più deboli e agli emarginati. La politica, quando è fatta bene, è anche bellezza del fare.Non c’è retorica in questo, ma la chiara percezione che a forza di scandali e rivelazioni da circo equestre, piazze e girotondi, invettive e sberleffi, si perda il senso della cosa più importante: la dignità dello Stato, che è la nostra stessa dignità.Ci sono tante cose che non vanno nella politica molle di questo Paese ed è giusto denunciarle. Ma c’è anche tanto di buono nei palazzi del potere, e molte persone corrette che li abitano. Ci sono politici che conservano intatta la lealtà verso coloro che li hanno mandati in Parlamento. È pericoloso sparare merda su tutto e tutti. In questo modo si fa solo danno e si spaventano quelli che sono meno attrezzati culturalmente. Non si migliora la società colpendo a vanvera e sventrando tutti i polli della batteria, quelli sani insieme a quelli colpiti dal virus.Un ruolo molto importante, nel contesto storico che stiamo vivendo, lo può giocare la stampa e l’informazione in generale. Che deve denunciare, che deve mostrare, che deve anche sputtanare, quando serve. Ma deve anche far vedere quanto di buono esiste nel nostro Paese. Deve far conoscere quante amministrazioni pubbliche funzionano (e ce ne sono tante) e quanti politici amministrano con giustezza il pubblico denaro (e ce ne sono molti).Per aiutare l’Italia a cambiare, denunciare gli scandali veri o presunti non basta. Anzi, si rischia di far saltare quegli equilibri che storicamente da noi non sono mai stati troppo saldi. Tranne durante il fascismo, quando gli equilibri non c’erano più perché erano stati tutti azzerati. C’era un uomo solo al comando, e al comando era arrivato promettendo ordine e pulizia, legge forte e morale. Sappiamo come andò a finire, e chi non lo sa, a partire dai nostri figli, è bene che vada a studiarsi la nascita del fascismo in Italia. Sarebbe utile che i maestri di scuola lo ricordassero ai loro alunni, più che mai in questo momento.Ordine e pulizia, legge forte e morale… Non vi ricorda qualcosa? A me dà i brividi sentire i molti cantori dell’antipolitica che in questi mesi si sono risvegliati dal letargo. Anche quelli in buona fede. Con la stessa buona fede io dico: non è così che riusciremo a cambiare quest’Italia alle vongole. Il rischio, continuando in questo modo, è di buttare insieme gli spaghetti e le vongole, e di essere costretti dall’uomo della provvidenza a bere l’acqua della fogna da cui quelle vongole sono uscite.

giovedì 4 ottobre 2007

Soft Economy



Dal libro SOFT ECONOMY (Cianciullo-Realacci, ed. BUR)
Soft Economy, un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione, sull'identità, la storia, la creatività, la qualità; un'economia in grado di coniugare coesione sociale e competitività e di trarre forza dalle comunità e dai territori.

L'Italia può offrire la merce più richiesta: lo stile di vita, il modo di essere che detta le priorità al commercio, i valori che danno senso agli oggetti. Questa Italia trova negli elementi fondanti della sua cultura produttiva (il paesaggio, il territorio, il modo di vivere, l'identità, la storia) le radici di una rete di qualità che punta a trasformare l'inetro paese in un brand di successo.

La scommessa dunque è unire il concetto romantico, l'atto creativo come ispirazione folgorante, a una visione di sistema moderna e concreta che permetta di recuperare i ritardi accumulati nello sviluppo di tecnologia, talento e tolleranza, le tre T teorizzate da Florida come metro per misurare il dinamismo di una società. L'Italia potrebbe poi tornare in vantaggio mettendo in gioco la quarta T capace di assicurare lo slancio necessario: il territorio.

La Soft Economy è la capacità di creare economia in base a valori non riducibili a griglie fordiste, non misurabili con il metro della quantità: i saperi e l'innovazione, la cultura, il paesaggio, le valenze simboliche, i richiami dell'immaginario, la creatività, la storia.

mercoledì 3 ottobre 2007

Riflessioni sull'Etica




Personalmente ritengo l’Etica una cultura che va coltivata e non un codice che va rispettato, pertanto non cerco di applicare un codice Etico alla mia vita, ma cerco di comportarmi nella vita secondo un’Etica, una Morale dei Valori che sento miei. La distinzione è importante.
Quando si parla di Etica, di Valori, di Morale, ogni persona può interpretarne il contenuto e il significato anche se, ritengo, che il comportamento Etico abbia una sola radice comune

Etica (il termine deriva dal greco, ossia "condotta", "carattere", “consuetudine”). L'Etica è un appartenere a, un essere parte di e un appartenersi. Etica è generalmente considerata quella branca della filosofia che studia i fondamenti di ciò che viene vissuto come buono, giusto o moralmente corretto. Si può anche definire come la ricerca di una gestione adeguata della libertà. Spesso viene anche detta filosofia morale. In altre parole, essa ha come oggetto i valori morali che determinano il comportamento dell'uomo.
È consuetudine differenziare i termini “Etica” e “Morale”,sebbene essi siano usati come sinonimi e fortemente correlati, si preferisce l'uso del termine “Morale” per indicare l'assieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano. Si preferisce riservare la parola “Etica” per riferirsi all'intento razionale (cioè filosofico) di fondare la morale intesa come disciplina.

L'Etica può essere descrittiva se descrive il comportamento umano, mentre è normativa, o prescrittiva, se fornisce indicazioni. In ogni caso l'indagine verte sul significato delle teorie etiche. Può essere anche soggettiva, quando si occupa del soggetto che agisce, indipendentemente da azioni od intenzioni, ed oggettiva, quando l'azione è relazionata ai valori comuni ed alle istituzioni.

Ritengo personalmente Etica, Morale e Valori come qualcosa di inscindibile, intimamente connessi tra loro, una triade a cui faccio, o cerco di fare, riferimento nella mia vita.
Sono alla continua ricerca di perfezionamento che è rivolta all’acquisizione di una sempre più ampia conoscenza di sé e del mondo, e su un affinamento Etico che è rivolto al bene e alla virtù. Il comportamento deve sempre essere guidato dalle norme etiche e morali che stanno alla base della vita individuale e collettiva.

L’ Etica si basa, a mio parere, su alcuni principi fondamentali:
il rispetto del mondo naturale, della vita e della persona umana con la sua dignità,
il rispetto delle idee altrui,
la tolleranza (non a tutti i costi, tollerare chi è tollerante, base del punto sopra)
l’accettazione dell’altro,
il dialogo aperto tra gli uomini,
la compassione, la solidarietà e la fratellanza tra tutti gli uomini.
Il rispetto per l’altro.

Qualsiasi atteggiamento o presa di posizione che arrechi danno o turbi la serenità di un'altra persona o della Società in cui si vive non può trovare giustificazione o tolleranza. Tutto si basa sul reciproco rispetto. Aggiungo che il mondo potrebbe essere migliore se si applicano questi principi nella vita profana.

La Libertà e la Tolleranza sono valori comunemente accettati e questi valori affondano in principi che reggono da sé la condotta dell’individuo etico, attraverso l’accettazione ed il rispetto del prossimo, delle altrui idee, nella negazione di dogmi e di regole condizionanti la propria libertà ed il proprio rispetto di Individuo.

Su questa base, su queste fondamenta comuni, l’individuo, la persona, elemento indiscusso della società costituita dalle istituzioni quali la Famiglia, la Patria e la Società, percorre il proprio percorso (sia esso pubblico, personale, familiare, interiore) andando ad approfondire e rafforzare questi principi, non perché percepisca il dogma della società o della religione che incombono con il loro giudizio su di lui, ma piuttosto per la forza morale della propria coscienza che lo spinge e lo muove sulla via della conoscenza.

Se l’Etica è un Valore, o meglio un insieme di valori che caratterizzano l’individuo nel suo contesto sociale e storico, essa è soggetta ad un’evoluzione costante, comune alla concezione dei Valori che caratterizzano il contesto sociale in cui essi si sviluppano. L’ Etica quindi evolve insieme al contesto sociale che la determina in un rapporto biunivoco. Non ha dunque senso chiedersi se sia l’Etica ad influenzare la Società o viceversa, in quanto quest’ultima è un sistema aperto e dinamico, soggetto dunque a costante evoluzione.

Siamo consapevoli della temporaneità della nostra vita. La persona con senso etico, in quanto tale, dovrebbe (il condizionale è d’obbligo alla luce di certi atteggiamenti) impegnare ad attenersi ad una condotta basata sulla distinzione consapevole tra il bene e il male, distinzione che deriva da un determinato sistema di Valori Morali. La concezione morale può essere definita come il risultato della dialettica tra altruismo e rigore razionale. L'altruismo è il risultato di sentimenti che ci portano a desiderare ed ad agire a vantaggio degli altri, trascendendo noi stessi.

In questo periodo si parla molto di Etica e, ho premesso, è un tema a me caro. A volte però rifletto su questo bisogno che provo e mi raffiguro l’Etica come un “cerotto”, a cui si ricorre in periodi di profonde crisi, sia politiche, sia economiche che di altra natura.
Sempre più sui media si sente parlare e si invoca un maggior senso Etico. E questi non sono certo momenti da cui si possano trarre spunti o esempi fulgidi di senso Etico…

Inoltre il tema dell’Etica emerge quando c’è una frantumazione delle regole principali e dominanti. Ma l’Etica in sé può divenire anche una scatola vuota se non supportata da contenuti veri e condivisi (eclatante il caso della Enron che era piena al suo interno di codici etici, ma non vissuti, non sentiti) e non deve neppure diventare uno strumento di custodia dei costumi come lo è stato nei secoli scorsi o una forma di controllo sociale.

Concludo dicendo che personalmente sento sempre più la necessità di vivere e condividere la mia vita, con persone che siano affini a quanto sopra esposto e che manifestino un atteggiamento ancor più attento e rigoroso a questi principi comunque universali.

Lentezza Conviviale

Evviva! C’è qualcosa di nuovo nell’aria… si torna all’antico.
No, non è una contraddizione, proprio qualche giorno fa leggevo un’intervista in cui lo Slow Food evidenziava come oggi la loro comunicazione metta in evidenza la necessità di assaporare con i giusti tempi il cibo per coglierne non solo la qualità, ma la “quintessenza” che avvolge il luogo del Convivio in cui si consuma il cibo: tatto, olfatto, vista ed emozioni possono rendere indimenticabile un’esperienza gastronomica. In questi mesi poi è stato un fiorire di libri che sviluppano quello che definisco “l’elogio della lentezza”. Per questo dico che si torna all’antico con queste novità, perché chiunque ricordi (anche non troppo tempo fa, diciamo 40 anni ?) molte cose venivano vissute con un altro ritmo.

Ora non voglio cadere nel luogo comune “una volta si che…”, assolutamente, sono io stesso una persona molto impegnata che vive anche troppo velocemente le cose che fa, ma sul cibo (per ora) mi sono dato delle regole che ritengo possano arricchirmi interirormente, offrendomi soddisfazioni che vivo consapevolmente.
Con la mente riavvolgo spesso il “film” dei miei ricordi, le cene da uno zio contadino di mio padre che ancora a metà degli anni ’70 viveva con lampade a kerosene, tirava l’acqua dal pozzo e metteva il “prete” nel letto d’inverno perché non aveva riscaldamento, quelle cene erano precedute e vissute con una ritualità scandite da tempi senza tempo. Le tavole che mi parevano enormi, piene di parenti, le porzioni abbondanti, sostanziose, ricche di condimento perché gli ospiti non rimanessero con la fame, maiale, coniglio, pecora, una certa trivialità che arrivava parimenti alla crescita di tasso alcolico nei convenuti dato dal vino “nero”, il seguito della cena con i dolci, la ciambella nell’albana, tutto senza che qualcuno dovesse “andar via subito”. Altri tempi, come raccontava mio padre che da bambino al momento della frutta riceveva da mio nonno la buccia delle pere o delle mele non il frutto, perché chi lavorava nei campi aveva naturalmente necessità di sostanza, chi portava a casa “da mangiare” aveva priorità. Mi viene da sorridere se penso che la società si è capovolta anche in questo.

Tornando alla possibilità di gustarci a tutto tondo le nostre emozioni ritengo che oggi si possano suddividere le ristorazioni in alcune categorie: la prima è fatta di luoghi in cui ci si ciba e basta, è l’attimo che è già passato; la seconda è costituita da quei locali in cui la cucina è un gradino sopra, sembra più curata, ma di cui non rimane memoria una volta usciti, aggiungo io “senz’anima”; la terza è quella più interessante dove il luogo è stato scelto, arredato e curato, dove la cucina è passione e si sente, si avverte, si assapora, dove la disposizione dell’arredo, i colori, l’armonia del locale ti invitano a prolungare l’esperienza, dove ti senti come a casa e dove vuoi tornare perché ti fanno sentire bene e dimentichi la frenesia del “fuori”; in ultimo c’è la categoria di quelli “oltre” che non fanno più cugina, ma bio-ingegneria, ricerca continua della materia, che fanno cose talmente ricercate che le capiscono solo loro e un certo numero di persone (anche troppo numeroso purtroppo) che per noia, snobismo, moda, ricchezza o altro sono anche disponibili a pagare cifre assurde e magari mettersi in lista d’attesa a tre-sei mesi.

E’ la terza categoria quella più interessante, quella a cui bisogna tendere per ritrovare il gusto e la soddisfazione della lentezza del Convivio, fatta di ristorazione non per forza di primissimo livello, ce ne sono molti in seconda linea (emergenti), fatta anche da Maestri di Cucina o Titolari giovani, ma che hanno la passione che li accomuna, la memoria della Tradizione unito al piacere di rinnovare senza stravolgere. Sono i luoghi deputati a rimanere nel cuore dei “Gastronauti” che si vogliono riappropriare del proprio tempo per il Convivio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna

Civiltà

La civiltà è uno spazio luminoso segnato da confini, non sconfinata. Quanto può vivere una civiltà che trascura il suo perimetro visibile ed invisibile, le sue forme e la sua essenza, la sua cultura e le sue tradizioni ?
Siamo lungo il declivio inarrestabile della decadenza. Le aspettative oggi vengono trasferite nel privato, attengono esclusivamente all’individuo e al suo stare bene, a prescindere dal contesto. Ma la civiltà è una connessione a tre dimensioni: con il mondo circostante e presente, con il passato, le sue testimonianze e le sue generazioni e con il futuro, le sue attese e, ancora, le sue generazioni. Civiltà è collegamento nella tradizione.

La civiltà è un legame e il suo contrario è il dissolvimento della stessa. Senso della storia, della tradizione e della comunità, valore delle eredità e delle esperienze vissute, degli stili di vita e delle espressioni condivise, percezioni di un limite e di una forma.
Oggi la nostra civiltà è minata da una guerra in atto: spirituale, culturale, morale e mette in discussione gli assetti millenari e fondamentali della vita pubblica e privata.

Il male principale della civiltà torna a essere quello a cui faceva riferimento, preveggente, Nietzsche: la stanchezza. Siamo stanchi di vivere e di costruire, facciamo notte ogni giorno, il piacere ci affatica più del lavoro e la libertà ci stressa più della schiavitù, abbiamo tanti desideri ma poche aspettative. L’età si allunga, ma la pazienza si accorcia. Siamo stanchi e perciò più vulnerabili, dai nemici di fuori e dai vigliacchi di dentro.
Siamo completamente disarmati, incapaci di accennare una reazione, disossati e invetebrati, senza più voglia di combattere, dal profilo culturale e civile.

Un civiltà sorge dallo spirito di conquista, che non è volontà di potenza e di dominio, comune anche ai barbari; ma è il gusto di fondare, fecondare, costruire, dare forma, nome e alito alla vita del mondo e, se neccessario, combattere e morire per difenderla.

Ai tempi dell’impero romano le vie della civiltà coincidevano con le strade romane oggi i confini sono segnati dalla copertura o meno di rete telefonica cellulare. Si sta sostituendo la civiltà con la civilizzazione, ma senza la prima la seconda è una forma accessoriata di barbarie. Un degrado di vita, di forme e linguaggi si insinua nelle società più avanzate che a volte sembrano le più avariate.
Siamo una civiltà stanca di vivere, ma vogliosa di farlo, vorrebbe divertirsi con tutta l’anima, ma ha anche il morale a terra… come la morale, schiacciata tra due impulsi: teme il futuro, teme la crisi economica, ma dall’altra parte teme la depressione, teme la solitudine e allora spende per distrarsi.

Per suscitare o resuscitare una civiltà occorre una casta di uomini liberi dalla paura di perdere qualcosa, vita inclusa. Uomini che in casi estremi arrivino a dire: se perdo la vita non è la fine del mondo… Una civiltà risorge se non ha paura di morire, se non bada solo a sopravvivere e se è animata dallo spirito di conquista.