mercoledì 29 febbraio 2012

Sua maestà il cappuccino


Nonostante la crisi e il calo delle prime colazioni al bar, il cappuccino rimane sempre il re delle consumazioni mattutine nel nostro Paese. Negli ultimi anni si è sviluppato un vero e proprio culto per questa bevanda nel mondo. Così si assiste alle fantasiose proposizioni del cappuccino nelle caffetterie Starbucks come alla nascita della Milk art, l’arte del latte, che porta all’organizzazione di competizioni vere e proprie tra gli artisti di questa bevanda. Addirittura si organizza un campionato sul modello della coppa del mondo calcistica a Washington e a marzo, nella grande mela ci saranno le finali della New World Latte Art Competition. In Italia l’organo di riferimento per tutta l’arte legata alla caffetteria è “l’Accademia italiana maestri del caffè” che forma questa nuova classe di baristi, ad oggi ne ha diplomati più di 400, che si mettono in mostra anche su youtube e facebook, non più solo nei bar. E si fanno artisti. C’è anche un Campione d’Italia, si chiama Francesco Sanapo del “Barista Prima Coffeehouse” di Venezia, sul Canal Grande. Si dimostra bravo non solo nell’arte del caffè e del cappuccino, ma anche in quella della comunicazione in rete con un blog documentato e ben fatto. 

Con un pennino d’acciaio come matita e una tazza di latte montato come tela, questi artisti sono in grado in pochi secondi di dar vita al cappuccino: un sole che sorge sul mare, un fiore, le stelle, un arabesco intreccio o il tuo ritratto, con piccoli e lievi gesti la schiuma si trasforma grazie alle piccole gocce di cioccolata che scendono dal pennino e vengono trascinate prendendo vita. E la giornata prende un altro sapore, ti fa sentire un po’ speciale. Questa è la Milk Art e su quest’abilità sta nascendo una vasta letteratura fatta di libri, manuali ed enciclopedie web. E’ uno stimolo per i baristi che possono fare spettacolo per chi è di là dal bancone e non rischiano di alienarsi nella ripetizione, ogni pochi secondi, dei gesti “macino-doso-presso”. 


Comunque la Milk Art è tutt’uno con il cappuccino e anche per questo ci vuole la giusta ricetta. Spiega Luca Ramoni, presidente dell’Accademia: “In una tazza da 15-20 centilitri ci vanno un espresso (2,5 cl), latte (10 cl.) e aria (2,5 cl.) incorporata alle proteine del latte, che non montato a tessitura fine perché le bollicine non si devono vedere, con la schiuma bianca al centro e l’orlatura marrone che fa corona tutt’attorno. Prima di montare il latte occorre controllare la temperatura che deve essere di 55-60°. La bontà del cappuccino per l’ottanta per cento dipende comunque dalla mano del barista. Il cliente percepisce il gusto ma non si scotta se il latte è montato alla giusta temperatura.” La mano è importante anche nel versare il latte con la schiuma e nei gesti sicuri del disegno finale. Così il cappuccino vive nuova vita e probabilmente è solo l’inizio di un’altra fase, di un’evoluzione della professione del barista, dove è sempre più importante la relazione che si instaura con il cliente. Anche se per pochi minuti e, spesso, di fretta. 

Pierangelo Raffini su Leggilanotizia.it

mercoledì 15 febbraio 2012

Sotto la neve pane

Nei giorni scorsi d’intense nevicate mi è venuto in mente un detto che mi ripeteva sempre mia madre in queste situazioni “sotto la neve pane”. Come nel passato, anche ora le nevicate fanno bene alla terra dove sono seminati grano e cereali. Sono un’ottima premessa a buoni raccolti. 
Il pane: farina, acqua, sale e lievito. Un alimento così semplice eppure il mangiare del pane è uno dei gesti che da più tempo lega l’uomo alla terra. Fin dall’inizio della nostra storia il pane ha avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, per il riconoscimento sociale, per la liturgia religiosa. Il pane è un nostro alimento almeno dal II secolo a.C., fu Roma a introdurre la panificazione nel nostro Paese probabilmente a seguito del trasferimento nella capitale di prigionieri macedoni. La mancanza del pane ha provocato rivolte violente, il colore ha determinato per lungo tempo il prestigio o meno, oggi completamente capovolto poiché il pane bianco è meno gradito rispetto a quello delle farine meticce, è un simbolo fondamentale per testimoniare la presenza del Signore tutti i giorni. Possiamo dire che quest’alimento è il simbolo stesso, per eccellenza, della vita. 

Il nostro Paese può vantare, a giusta causa, un ruolo importante sul pane. I pani d’Italia sono più di 400 tipi diversi, tra cui molti già certificati Igp e Dop.  Nonostante i consumi si siano abbassati negli ultimi anni, complici le nuove tendenze alimentari per un fisico che si vorrebbe sempre perfetto, il pane rimane un alimento base per gli italiani. Oltre il 55 per cento della popolazione compra pane fresco tutte le mattine dai 23 mila fornai sparsi sulla penisola. Il consumo medio giornaliero varia tra gli 85 e 100 grammi a persona. Per dare un riferimento, negli anni Settanta era di 3 etti e mezzo. Comunque spendiamo ogni anno circa 312 euro a testa per l’acquisto del pane generando un fatturato di 18 miliardi di euro.
In realtà oggi il pane vive una nuova giovinezza. In virtù della continua ricerca di panificazioni in qualità fatta di farine integrali, forme e contenuti differenti, è sempre più apprezzato e ricercato. Tutti noi dovremmo essere esigenti e pretendere qualità per quest’alimento. A volte mi stupisco come in alcuni locali ci siano ancora ristoratori che scivolano su quest’alimento importante proponendo pane scadente, a volte non fresco o, peggio prodotti confezionati. 

Pensiamo all’esperienza dei sensi che compiamo quando ci troviamo in mano un bel pane un po’ rustico al tatto e ancora leggermente infarinato, l’odore che emana, il sapore che proviamo nella consistenza della soffice mollica in contrasto con il croccante suono che fa la crosta quando la spezziamo. Il pane ha “quel qualcosa” di rassicurante e familiare. E’ la nostra storia. E’ la tradizione che si perpetua nel tempo. 

L’aspetto più preoccupante che noto è che, a causa dell’industrializzazione, anche nella panificazione si sta perdendo memoria sia delle tipologie regionali dei pani, sia della capacità di comprendere la differenza tra un pane di qualità e uno qualunque. Una volta girare per i forni era un’esperienza incredibile: avvertivi la differenza, non solo nelle forme, tra una coppia ferrarese, famoso il pane di Ferrara grazie alla sua acqua, una michetta milanese, una focaccia genovese e un pane toscano “sciapo”. Purtroppo molte volte nei forni si trovano strane tipologie di pane con impasti senza personalità, omologati nel sapore e nella consistenza.  Tralasciando l’aspetto della tenuta della fragranza nella stessa giornata. Quando si acquista poi già affettato e imbustato, perde la sua centralità, e stravolgiamo la nostra e la sua storia. 


Pierangelo Raffini - pubblicato su leggilanotizia.it 

domenica 12 febbraio 2012

Le abitudini


Tutta la nostra vita è piena di meccanismi atti a procurarci soddisfazione o proteggerci dal dolore.

Questi meccanismi si chiamano abitudini. 

Le abitudini si radicano attraverso la ripetizione del gesto e possono essere inibenti o fortificanti. Penso che l'abitudine abbia sempre una componente che lega troppo la persona e può finire con il limitarla. Anche quelle che danno sicurezza e quindi riteniamo fortificanti. Se per qualche motivo si è costretti a cambiare forzatamente una di queste abitudini, si può andare in crisi e pensare di aver perso qualcosa o di non avere più motivazioni al mondo.

Quindi scegliete pure le abitudini che volete tra quelle che ritenete più coerenti con il vostro fine e con il vostro essere. Ma fate attenzione a non legarvi ad esse. Le abitudini sono azioni che, come la goccia, scavano la roccia.
Abituatevi a modificare le vostre abitudini, a non avere paura del nuovo, accettate di compiere percorsi anche diversi e prendere spunti e cultura anche da fonti molto differenti tra loro.
Imparate ad allenarvi. Si possono compiere anche solo piccoli gesti che aiutano a non radicare troppo le abitudini. Servirà a pensare altresì in modo differente da quello che avete sempre fatto.
Modificare il percorso per andare da casa al lavoro, cambiare la routine al mattino quando ci si alza, compiere azioni diverse da quelle che si è abituati a fare durante la giornata, leggere e guardare programmi differenti. 
Tutto serve per allenarsi.
Ricordate nel film Pretty Woman quando la Roberts fa togliere scarpe e calze ad un Gere vestito da business man e lo fa camminare sull'erba ?

sabato 11 febbraio 2012

Il paese del posto ereditato - La difficoltà di farcela da soli


Siamo parte di una generazione che vuole stare vicino a mamma e papà. E non si sfugge. Se sei un under 40 sei uno «sfigato» per essere rimasto parcheggiato troppo a lungo all'università. Se sei un under 30, peggio, sei un bamboccione, ancora appeso alla paghetta. Vogliamo tutti il posto fisso. La difesa dell'articolo 18. E li vogliamo anche sotto casa. Università e ufficio dietro l'angolo, con cordone ombelicale incluso. Riconosciamolo: l'immagine che ci descrive come un esercito di Tanguy, figli di genitori del boom economico - con il rischio concreto di diventare ora la generazione dello sboom - è umiliante. 

Siamo gli sconfitti, schiaffeggiati pubblicamente dalla nostra classe politica. Ma qualcuno è andato a vedere se c'è una ragione sociologica, fors'anche economica? Il convitato di pietra di tutte le discussioni sull'articolo 18 c'è ed è la mobilità sociale. Quella che non c'è. Il lavoro in Italia è un «affare di famiglia». E quasi mai è un buon affare visto che la società è piramidale. Chi sta sopra tende a rimanere sopra, chi sta sotto ha un solo vantaggio, per dire così: che più in basso non si può andare. Il 44,8% dei figli di operai «ristagna». Il 22,5 dei figli di piccoli borghesi «scivola». Il 22,7% dell'alta borghesia lo ha ereditato dalla famiglia, come fossimo ancora nel Medio Evo. 

Altro che Steve Jobs o Mark Zuckerberg, nuovi eroi del sogno americano dove tutti ce la possono fare a scalare la società anche partendo da un garage o dal dormitorio di Harvard. Qui bisogna più che altro difendersi. I dati sull'ascensore tra una classe e un'altra, supposto che ancora si possa fare questa distinzione, non sono molti. La scalabilità sociale è complessa da analizzare.

Tutti abbiamo l'idea di un passaggio difficile basato sulle nostre esperienze e le storie di parenti e amici che, inevitabilmente, tendono a provenire dalla stessa stratificazione. E poi c'è l'evidenza mediatica. Imprenditori che hanno il cognome di imprenditori. Politici che hanno il cognome dei politici. Giornalisti che hanno il cognome dei giornalisti. E, ça va sans dire, professori che hanno il cognome di professori. E se fosse tutto frutto di una percezione sbagliata?

Purtroppo no.

Il Censis nel 2006, ha fotografato il fenomeno partendo dai dati Istat «Uso del tempo, 2002-2003», sull'istruzione e la professione dei padri e dei figli. La sociologa Ketty Vaccaro, responsabile del settore welfare del Censis, ne va fiera, anche perché è stato un lavoraccio. «Rispetto alla generazione del boom economico oggi c'è un blocco nel passaggio da un livello all'altro. Un po' perché il titolo di studio è diventato una commodity laddove per i nostri genitori è stata condizione necessaria, ma spesso anche solo sufficiente, per il salto. Un po' anche perché siamo diventati tutti ceto medio con una borghesia a due velocità. 

L'ascesa, là dove c'è, riguarda soprattutto i liberi professionisti con il passaggio dello studio dei genitori e l'imprenditoria per la trasmissione tra padre e figli anche di un patrimonio familiare, come appunto l'azienda, i macchinari». In altri termini, il 44% degli architetti ha un figlio architetto, come ricorda, citando un'indagine Alma Laurea del 2008, Maria De Paola su lavoce.info. E continuando: il 42% dei padri laureati in giurisprudenza ha un figlio con medesima laurea. I farmacisti? 41%. Gli ingegneri e i medici? 39%. I figli sono avatar professionali dei genitori.

L'Ocse analizza la mobilità sociale partendo da un altro parametro: il livello di stipendio dei figli in relazione a quello dei padri. Ma anche così il risultato non cambia. Nell'ultimo studio pubblicato nel 2010 «A family affair: Intergenerational social mobility across Oecd countries» risultiamo tra i peggiori in Europa. Sotto c'è solo la Gran Bretagna dove in effetti torna quella spiacevole percezione di non potercela fare se si nasce in un ceto senza l'accento giusto.

Siamo ancora una società di relazione. «Sfatiamo un mito: non siamo l'unico Paese in cui si utilizza un network protettivo per i figli. I club delle persone che contano ci sono in tutte le economie occidentali» ragiona Vaccaro. «Il punto è che qui la rete familiare e professionale è uno degli strumenti principali di inclusione». Si procede per cooptazione, telefonate, amicizie. La famiglia è ancora il miglior ufficio di collocamento. I curricula sono carta straccia (chi li guarda? Altro che LinkedIn...). «Anche il concorso in Italia non dico che sia pilotato, ma guidato sì» conclude impietosamente Vaccari.

Resta solo una speranza: che dai quei dati, negli ultimi dieci anni possa essere cambiato qualcosa.

E qualcosa è cambiato, ma in negativo. Il consensus è per il segno meno. «Non ci sono dati ma la mia presunzione è che sia ancora più grave oggi che in passato» sintetizza Andrea Ichinodell'Università di Bologna che con Daniele Checchi ha pubblicato nel '99 uno studio sulla mobilità sociale in Italia e negli Usa. «Però dobbiamo guardare a questi problemi nel loro insieme. 

Bisognerebbe iniziare a togliere a me, professore universitario, la sicurezza del mio posto che è difeso anche se non pubblico o non faccio nulla. Tra articolo 18 e immobilità sociale c'è un trade-off. Dobbiamo iniziare a ragionare sul fatto che meno garanzie potrebbero coincidere con più mobilità. Altrimenti i figli rimangono vicini alla famiglia perché la famiglia è il canale per trovare lavoro» spiega Ichino. Insomma, discutere della sospensione delle garanzie solo per i nuovi contratti sarebbe un boomerang che leva il cibo agli affamati e lo lascia a chi ha la pancia piena o mezza piena. Il lavoro cambierà pure. Ma la possibilità di farcela, eccezioni a parte, non fa parte della nostra genetica collettiva.

Dov'è lo svincolo per la meritocrazia?


Massimo Sideri - Pubblicato il 9 febbraio 2012 su il Corriere della Sera - Dossier sulla Mobilità sociale


Approfondimenti e tabelle

domenica 5 febbraio 2012

Il successo

Ridere spesso e di gusto, ottenere il rispetto di persone intelligenti e l'affetto dei bambini, prestare orecchio alle lodi di critici sinceri e sopportare i tradimenti dei falsi amici, apprezzare la bellezza, scorgere negli altri gli aspetti positivi; lasciare il mondo un poco migliore, si tratti di un bambino guarito, di un'aiuola o del riscatto da una condizione sociale; sapere che anche una sola esistenza è stata più lieta per il fatto che tu sei esistito.
Ecco questo è avere successo.

Ralph Waldo Emerson

sabato 4 febbraio 2012

Le guide della cucina sono ancora utili?


Ogni anno c’è un’importante comunicazione su tutti i media all’uscita delle varie guide, più o meno titolate. Subito escono confronti, tabelle comparative su stelle, forchette, cappelli e simboli vari che concorrono a posizionare i vari ristoranti, insieme alla valutazione numerica.
Negli ultimi anni è stata pubblicata anche una “guida delle guide” che compara le valutazioni delle varie pubblicazioni enogastronomiche. Per abitudine e piacere sono solito acquistarne alcune. Negli ultimi anni però si è fatto strada in me un dubbio. Le guide così come sono concepite continuano a essere attuali oppure sono strumenti di un rito che si deve compiere, ma che rimangono “utili” solo per uno stretto giro di professionisti, tra cui i “Maestri di Cucina”? 
In questi anni l’enogastronomia è stata portata in primo piano dai media in generale: programmi televisivi, riviste, blog, raccolte, dvd, e chi più ne ha più ne metta. Da un lato questo è molto positivo perché si è posta l’attenzione su un’eccellenza tipica italiana, per troppi anni trascurata. Contemporaneamente si è elevato anche il grado di conoscenza e sensibilità del consumatore sull’importanza dei prodotti di qualità del nostro Paese. Di contro abbiamo avuto una fioritura di nuovi Chef senza precedenti che ha portato alla sublimazione esagerata di certi personaggi e di una cucina molte volte troppo imperniata sulla fantasia. 
Questo inevitabilmente si riflette sulle guide che incensano i locali di questi giovani emergenti. La cucina non deve certo essere statica e forzatamente tradizionale nella sua proposizione, ma nemmeno si devono proporre brutte copie dei Chef più famosi nella creatività. Non è obbligatorio essere particolarmente fantasiosi. Di solito paga di più una cucina ben fatta, proposta con attenzione condita con un servizio impeccabile.Oggi poi è la situazione cambiata. Penso che la gente non sia più tanto interessata a chi è il primo, secondo o terzo ristorante. 
Per quanto riguarda il top inoltre, le guide sono sostanzialmente d’accordo sui nomi e le valutazioni variano di poco tra una e l’altra.In questi tempi di crisi le persone sono più interessate a conoscere i locali dove si possa mangiare abbastanza bene spendendo il giusto. Si esce meno e quando si fa, si vorrebbe compiere un viaggio enogastronomico sicuro e piacevole. In più le guide ormai non eseguono più un vero lavoro di critica verso i locali. 

Raramente capita di leggere qualche giudizio di biasimo nei quotidiani da parte di singoli giornalisti. Le guide che dovrebbero indirizzare e tutelare il consumatore non sono più utili in tal senso. Sarà capitato a tutti di scegliere un locale da una di queste pubblicazioni e fare un’amara esperienza, magari con l’aggravio di un conto finale molto differente da quanto indicato dalla guida stessa. Certe volte trovo più indicativi i commenti sui blog. Leggendo i commenti su un locale e facendo una media dei giudizi, da quello più celebrativo a quello più critico, si riesce a scegliere sapendo cosa ci può aspettare. In tutti i casi internet che ha rivoluzionato il modo di pensare e comunicare ci viene in aiuto sia per i fedeli alle “guide di marca” sia per quelle gratuite. 
Oggi sono disponibile anche sotto forma di App scaricabili sul proprio smartphone a pochi euro o gratuite. Hanno il vantaggio di essere costantemente aggiornate, grazie al GPS ti propongono immediatamente i locali più vicini al punto in cui ti trovi e molte oggi ti consentono di aggiungere i tuoi commenti.

venerdì 3 febbraio 2012

La propria vita

Bisogna fare della propria vita, come si fa di un'opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d'intelletto sia opera di lui.
La superiorità vera è tutta qui.

Gabriele D'annunzio

Lo spirito giusto

Qualsiasi lavoro se svolto con lo spirito giusto, vi rende vittoriosi su voi stessi. 
Ciò che conta è l'atteggiamento con il quale lavorate.
La pigrizia mentale e l'indolenza nuocciono al carattere.
Fate le cose con piacere e spirito di servizio. 
Svolgete i compiti con lo spirito giusto, siate consapevoli che servire è un privilegio. 
Vi sentirete bene e vicini a Dio.

mercoledì 1 febbraio 2012

Da Roma a Londra: così cresce l'impero Eataly

«Eataly di Roma sarà il più grande del mondo», Oscar Farinetti, già fondatore di UniEuro, ha spinto il piede sull’acceleratore. Dopo aver fatto decollare nel 2007, a Torino, il primo tempio dell’enogastronomia facendo rivivere la vecchia sede della Carpano con una formula del tutto innovativa, ne ha aperti altri 7 in Italia, più cinque in franchising, 1 a New York e ben 7 in Giappone. Ma da aprile, con l’apertura di Eataly Roma, parte la nuova stagione. «Ora che abbiamo verificato che la formula funziona anche sotto il profilo economico e che guadagna, possiamo ampliare la rete e dare il via definitivo al progetto», racconta. Cinquantasette anni, figlio del comandante Paolo, un partigiano leggendario che a capo del XXI Brigata Matteotti ha liberato Alba, oggi è lui a scrivere un pezzo di storia, stavolta economica, d’Italia. La sede di Roma aprirà il 21 aprile. Stessa la formula, cibo di qualità a prezzi sostenibili, ma le dimensioni sono impressionanti: 16.000 metri di superficie, disposti su 4 livelli che diventeranno un vero e proprio epicentro del gusto e qualità culinaria made in Italy. Anche la sede parla: la stazione Ostiense, il terminale dei treni alta velocità di Ntv, la compagnia privata di Montezemolo. Ci saranno 14 ristoranti a tema dedicati a carne, pesce, salumi, formaggi, pasta, pizza, panini, pasticceria, piadineria, gelateria, cucina tipica laziale. Una novità assoluta: la friggitoria. E poi supermercati, rigorosamente d’élite. Una enoteca imponente, per esaltare i vini locali ma proporre anche etichette estere più difficili da trovare. «Si compra dove mangi e mangi cosa compri, ma impari anche», racconta Farinetti. Già perché il grande centro congressi e la sala eventi sono deputati a ospitare lezioni, showcooking e degustazioni. Si imparerà anche a vedere come si produce, nel piccolo birrificio artigianale, e dove la mozzarella verrà fatta a vista. Insomma, «un grande ambaradam», come dice lui stesso. La sede è nella stessa zona della Città del gusto del Gambero Rosso. Una guerra in vista? Magari, invece, una nuova alleanza in nome del Made in Italy Alto di gamma. Cibi di qualità a prezzi abbordabili. Il business corre su due binari: Eataly distribuzione, con la partecipazione societaria di Coop, e Eataly produzione, con 19 aziende di cui Eataly è diventata socia, in qualche caso con partecipazioni solo del 20%. «Un’operazione e unica, ha creato la marcainsegna nel fresco dove trovare dei brand era finora praticamente impossibile», commenta Armando Branchini, segretario generale di Fondazione Altagamma. Racconta Branchini: «Ci ha lavorato sopra tre anni creando un modello di business innovativo che ha alle spalle una catena logistica forte. Innovativa è anche l’idea di entrare come socio nella gran parte dei fornitori, piccoli produttori di nicchia che potevano rischiare o di restare strangolati sui prezzi o di venir travolti dall’aumento improvviso di richiesta. Invece, come insegnano Gucci o Ferragamo, si può crescere mantenendo l’eccellenza». Prendiamo una delle otto cantine in portafoglio, Fontanafredda, dismessa dal Monte dei Paschi di Siena. Ha abolito i concimi in vigna, abbattuto la solforosa nel vino, confezionato con vetro riciclato le bottiglie. Il risultato: etichette di punta che sposano la moda del naturale con il prodotto di eccellenza. D’altronde è nato il 24 settembre «in piena vendemmia», come ama ripetere, «da madre di Barolo e padre di Barbaresco», racconta. Ma la formula si ripete con successo anche con gli altri prodotti: il culatello, la pasta di Gragnano, e tutti gli altri presidi Slow Food, il perno di tutta l’operazione. Il Bulgari dell’enogastronomia ma che, grazie al modello di business, riesce a tenere i prezzi abbordabili per tutti. Tra le società partecipate due marchi di birra che si sono affermati in tutto il mondo. Baladin di Teo Musso, il birraio più bravo del mondo, come l’ha premiato la Heineken, che da Piozzo, in provincia di Cuneo, è approdato a New York, sulla terrazza del Flatiron Building, il grattacielo più famoso di New York dove ha sede Eataly, all'incrocio tra la Quinta Strada e Broadway. L’altro è La Birra del Borgo, di Borgorose, vicino Rieti, fondata da Leonardo Di Vincenzo, altro guru internazionale della birra artigianale. Dal nord al sud, la marcia si fa inarrestabile. «Entro l’anno apriranno le sedi di Bari e Piacenza e nel 2013 a Milano e Firenze. A Milano una sede già c’è, ma quella nuova sarà imponente, nell’ex teatro Smeraldo. Poi nel 2014 inizia l’approdo nel resto d’Europa, cominciando da Londra», annuncia Farinetti. Una bella vetrina per il Made in Italy agroalimentare, che sempre più si sta rivelando uno degli asset chiave della nostra economia. Il giro d’affari, oggi attorno ai 200 milioni di euro tra distribuzione e produzione, è destinato a moltiplicarsi. Ripetendo il successo che Farinetti aveva già sperimentato nei consumi di elettronica, con UniEuro, insegna che nasce ad Alba nel 1967, come supermercato fondato da Paolo Farinetti, il padre di Oscar, con un nome ispirato al mercato unico, nato con i trattati di Roma. Poi lo sbarco in Liguria e l’espansione dell’insegna negli elettrodomestici, con la formula del franchising. UniEuro, che nel frattempo aveva comprato anche Trony, è stata venduta nel 2002 al gruppo britannico Dsg International. E lì comincia la nuova avventura.