lunedì 31 marzo 2008

Ingrid Betancourt


Pubblicizzo questo libro appena uscito con la lettera della Ingrid Betancourt perché è un caso che è sempre stato a me caro fin dal momento del suo sequestro nel 2002, in quanto avevo seguito la sua campagna politica in un paese difficile come la Colombia e mi aveva colpito il suo coraggio di tornare dalla Francia, lei ha doppia cittadinanza, e rischiare la sua vita per gli Ideali democratici.


Lettera dall'inferno a mia madre e ai miei figli


Questo testo è stato scritto il 24 ottobre 2007 da Ingrid Betancourt, che il 22 febbraio 2002 è stata sequestrata dalle FARC, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia che tengono in ostaggio da anni diverse altre centinaia di persone. È indirizzato alla madre, Yolanda Pulecio, ai suoi ligli Mélanie e Lorenzo, e alla sua famiglia. Il manoscritto, dodici pagine vergate con una calligrafia regolare e densa, accompagnato da un video e da alcune foto, è stato sequestrato in occasione dell'arresto di alcuni guerriglieri a Bogotà. Una copia è stata trasmessa dal governo colombiano alla famiglia di Ingrid nel dicembre 2007. Questa è la prima traduzione integrale e autorizzata del documento. La lettera di Ingrid Betancourt è accompagnata dalla risposta dei suoi figli, Mélanie e Lorenzo, che si stanno battendo per la liberazione della madre.

venerdì 28 marzo 2008

Ogni maledetta domenica

... centimetro dopo centrimetro... come in tutta la vita... un discorso indimenticabile...

giovedì 27 marzo 2008

Educazione


L’educazione è il pane dell’anima, diceva Giuseppe Mazzini e a mio parere non intendeva in senso stretto la conoscenza delle cose, ma si ispirava ad un concetto più importante, quello del saper convivere insieme senza cercare di prevaricare qualcuno, senza necessità di essere aggressivi per costringere in un angolo un’altra persona, applicando il buonsenso e il rispetto per l’altro.
Nella “società delle urla” mi sento tante volte “un uomo tra le rovine”.
Esiste ancora l’Educazione ?
Personalmente ho sempre pensato all’Educazione come un Valore intrinseco della mia vita che mi contraddistingue e mi differenzia, ma noto sempre più spesso che ormai è un “non-valore”, che non viene quasi più percepito e rispettato sia nella vita privata sia nella vita professionale, anche nei concetti più basici del termine. Estremizzo forse un po’ volutamente, ma penso che molti altri vivano questa percezione giornalmente, assistendo ad una parabola involutiva che sempre di più ci trascina verso una inciviltà evidente.

Faccio mio questo articolo di Egle Santolini in cui ritrovo, dal mio "moleskine mentale", molti dei numerosi punti che mi sono segnato e che sono oggetto di mie riflessioni periodiche.

L'educazione vale più del Suv

Dal modo di parlare alle scelte quotidiane, ecco lo “stile sociale” che non ha prezzo

Ma un vero signore come lo riconosci? In questi tempi calamitosi di smottamenti finanziari e rimescolamenti di classe, in questa Italia vaduziana e suvista post-furbetti e pre-processo di Vallettopoli, dove signora mia quanto è diventato difficile preservare la finezza del tratto, conviene tornare ai fondamentali: Mies Van der Rohe, con il suo «Less is more», e Coco Chanel, con quella sua frase che sembra scritta uscendo sconsolatamente dal Billionaire: «Ci sono persone che hanno soldi e altre che sono ricche». Renato Mannheimer: «Non esagererei con questa faccenda della scomparsa delle classi, certo la distribuzione delle fonti di reddito è oggi molto più articolata di una volta, e capita che un idraulico sia più ricco di un industriale. Ma l’origine sociale continua a contare: eccome». Essendo però grande la confusione sotto il cielo, urgono coordinate per riconoscere gli autentici gentiluomini. E allora? «E allora contano, prima di tutto, la discrezione, la mancanza di show off, il tono attutito della voce»: Franco Crespi dei Crespi di Milano, antica famiglia già proprietaria del «Corriere della Sera», non solo modestamente lo nacque, ma essendo professore emerito di Sociologia all’Università di Perugia, può per così dire interpretare scientificamente i propri ricordi. «Vede, quand’ero ragazzo, in famiglia, bastava poco a definire chi proprio non andava: il calzino troppo corto, la scarpa troppo appuntita, certe frasi tabù, tipo “piacere” nelle presentazioni o peggio ancora “la mia signora”. Anche certi vezzeggiativi un po’ andanti, come borsetta e camicetta. Ecco, bastava camicetta a fare cafone». Vien quasi tenerezza, di fronte all’imbarbarimento di oggi. «Già, e per di più questa brutalità nei rapporti interpersonali mi pare una cosa molto italiana. Non si tratta soltanto delle suonerie selvagge dei cellulari, dell’arroganza spicciola, del pestarti i piedi materialmente e metaforicamente. In Francia o in America, per esempio, proprio non capita che alle lettere non si risponda». Altre voci del decalogo: prima di tutto, dire grazie quando qualcuno ti ha fatto una gentilezza. Non cadere preda della smania di viaggiare, come quegli escursionisti seriali che due anni fa «hanno fatto» il Laos, l’anno scorso il Rajasthan e quest’anno la Baja California: meglio la villeggiatura nella casa di famiglia, meglio San Michele di Pagana che Malindi. E visto che oggi va prestata attenzione alla propria impronta ecologica, se proprio si deve meglio il treno del jet, sennò un low cost da Orio al Serio, bagaglio a mano e via. Dar del lei ai domestici, ma soprattutto pagargli i contributi. Dar del lei, possibilmente, a tutti tranne che agli intimi. Rispettare la regola sfortunatamente desueta del non telefonare a ore pasti: nessuno ci pensa più, ma vale anche se si usa il BlackBerry e non il telefono a disco di bachelite nera. Coltivare volterrianamente il proprio orto, e farlo con misura, senza pretendere di ammollare i frutti della propria zappa a tutto il vicinato. Potendo, come Carlo nel proprio ducato di Cornovaglia; non potendo, nei guerrilla gardens, cioè negli appezzamenti urbani lasciati liberi dal demanio, dove fior di notai di soldo stagionato corrono nel tempo libero a tirar su melanzane. Molto passa pure per il modo di vestire, non nel senso delle vecchie e rigide regole sul blu con il marrone e sul marrone dopo le sei, oggi prese se Dio vuole cum grano salis, ma nel pensare alla sostanza e non all’apparenza: troncare, sopire, smorzare. Il vero signore sa in cuor suo che l’unico modo per portare bene uno smoking è avere avuto un nonno e un babbo che l’hanno a loro volta indossato, e oggi si preoccupa soprattutto di nascondere i loghi e tagliare le etichette. Sua moglie, anche peggio (o meglio): compra da Zara e lo fa pure sapere, «guarda quanto è divertente questa gonnellina da 30 euro». È l’esatto contrario del modello bling bling di sarkosiana evidenza, completo di aerei prestati, anelli clonati, matrimoni affrettati: che volgarità. Ma a proposito di Sarkò, la nemesi potrebbe venire proprio da Carlà che astutamente, appena sbarcata all’Eliseo, ha sensibilmente abbassato i toni, almeno dal punto di vista del look. Abiti accollati, grande uso del nero, accorto impiego dei mocassini. Ma quello, forse, è un fatto di sensibilità nei confronti della statura del coniuge più che di understatement.

Questi anni


"Stiamo vivendo uno di quei periodi della storia, che capitano ogni due-trecento anni, in cui la gente non riesce più a comprendere il mondo, in cui il passato non è più sufficiente a spiegare il futuro"

Peter Drucker

venerdì 21 marzo 2008

Etica e Lavoro



Geronzi deve dimettersi.
La regola sulla impresentabilità dei politici condannati va applicata anche ai banchieri.

Lo scorso gennaio, quando il governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro fu condannato in primo grado per favoreggiamento, un coro di voci si levò per chiederne le dimissioni. In prima fila fu il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, giustamente impegnato a sostegno della coraggiosa battaglia contro il pizzo lanciata dalla sede siciliana della sua associazione. Anche se la nostra Costituzione garantisce la presunzione di innocenza fino a una condanna passata in giudicato, opportunità politiche suggeriscono le dimissioni di un amministratore condannato in primo grado di un reato così grave per l'incarico che ricopre. Le istituzioni devono sembrare, non solo essere, al di sopra di ogni sospetto. E, per salvaguardare questa rispettabilità, è giusto chiedere a chi è stato condannato in primo grado di farsi da parte. Soprattutto in un Paese dove, per avere una sentenza definitiva, ci vogliono almeno dieci anni. La reazione al caso Cuffaro ha avuto un'altra ricaduta positiva. Il Partito democratico ha deciso di non ripresentare alle elezioni i parlamentari che abbiano subito condanne in primo grado. È un segnale importante che il Paese vuole più trasparenza e pulizia nella gestione della cosa pubblica. Ma perché questa operazione si è fermata alla politica e non tocca il mondo della finanza? Perché le stesse voci che hanno chiesto le dimissioni di Cuffaro non si sono levate a chiedere le dimissioni di Cesare Geronzi, presidente del comitato di sorveglianza di Mediobanca, condannato in primo grado per bancarotta dal Tribunale di Brescia e sotto processo per lo stesso reato nei casi Cirio e Parmalat? Se il sospetto di complicità con la criminalità è tra i peggiori che possano colpire un governatore, quello di bancarotta è tra i peggiori che possano colpire un banchiere.
Perché allora Montezemolo non ha chiesto le dimissioni di Geronzi come ha chiesto quelle di Cuffaro? E perché un banchiere che tanto ha fatto per migliorare l'immagine della sua banca, come l'ad di Unicredit, Alessandro Profumo, ha appoggiato l'elezione di Geronzi a presidente di Mediobanca? Nel mondo le reazioni negative non sono mancate. Dopo la sua condanna, i fondi internazionali hanno votato contro la riconferma di Geronzi a presidente di Capitalia. E dandone l'annuncio, il 'Financial Times' riportava l'opinione di un famoso hedge fund manager: "Non possiamo essere azionisti di una società dove gli standard di corporate governance sono stati violati, riconfermando come presidente chi è stato condannato per un reato". Un altro money manager, sempre citato dal 'Financial Times', diceva: "Secondo gli standard internazionali ci aspettiamo che il presidente si dimetta". Dopo la sua nomina a presidente di Mediobanca, la rivista americana 'Forbes', citando un'analista, scriveva: "Tutti sanno che ha fatto affari dubbi, ma ci sarà la volontà politica di cambiarlo?". E questa è la domanda fondamentale: ci sarà la volontà politica di cambiarlo? Ma questa volontà politica non deve essere fraintesa come volontà partitica. Mediobanca è un'impresa privata e come tale non deve essere soggetta a pressioni dei partiti. Ma solo a pressioni del mercato. Negli altri Paesi queste cose non succedono perché il mercato penalizza chi si comporta male. Perché in Italia questo non succede? Un'ipotesi è che il mercato non è informato perché la stampa è imbavagliata. Oltre a controllare il 'Corriere della Sera' - sostengono alcuni - Geronzi, nella sua lunga carriera di banchiere, ha accumulato molti crediti nei confronti dei padroni di altri giornali. Ma io non ci credo. Nel XXI secolo le informazioni viaggiano su Internet e non c'è operatore finanziario che non conosca i fatti.Un'altra ipotesi è che gli italiani non considerino una condanna penale uno stigma sufficientemente grave. Ma questo non spiega il coro anti-Cuffaro e la decisione del Partito democratico di non ricandidare i condannati. La ragione è da trovarsi nella ristrettezza e provincialità

Il Valore del Lavoro

Riprendo parte dell'articolo di Giampaolo Pansa pubblicato sull'Espresso, perchè condivido l'analisi.
"... Sono abbastanza anziano per aver vissuto, da giovane, i miracolosi anni Sessanta. E so che fra i tanti motori del boom il più importante, quello decisivo, è stato il lavoro. Nel senso di voglia di faticare, di darci dentro, di rimboccarsi le maniche, di agguantare un mestiere e poi di passare a un altro, sempre sperando di guadagnare di più e di migliorare la propria condizione. E insieme di non essere schizzinosi, di prendere quel che c'era, sperando di poter scovare il lavoro fatto giusto per te. Eravamo pronti a tutto, tranne che a fare le ligere, i malviventi. A questo ci spingeva anche l'etica famigliare. Molti dei nostri genitori, nati tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, erano cresciuti nella povertà e talvolta nella miseria. Mio padre aveva cominciato a lavorare a nove anni, dopo la terza elementare, come guardiano delle vacche. E mia madre, alla stessa età, faceva la piccinina da una sarta, imparando a cucire. M
i avevano aiutato a studiare, nella speranza che la mia vita fosse meno sacrificata. Il loro incitamento era riassunto in due parole: "Impara ad arrangiarti!". Ossia, datti da fare, non credere di poter campare sulle nostre spalle e appena puoi vattene da casa.Le paghe erano basse. Nel 1960, da super-laureato, centodieci e lode, più la dignità di stampa, lavoravo a Milano alla biblioteca dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli. Il contratto era quello dei dipendenti del commercio e lo stipendio quasi uguale al salario delle commesse della Rinascente. Alla fine dell'anno, quando venni assunto come giornalista praticante alla 'Stampa', mi sembrò d'essere diventato ricco. Ma anche lì non si doveva aver paura di darci dentro. I giovani facevano 'la lunghetta': undici ore filate, a volte dodici, dalle due del pomeriggio all'una o due di notte. Nel boom, la fatica non aveva protezioni. Nelle banche, se un'impiegata annunciava che si sarebbe sposata, veniva subito licenziata. All'inizio di una professione eravamo tutti precari e molto flessibili. I doveri venivano sempre prima dei diritti. E gli immigrati dal Mezzogiorno di diritti non ne avevano. A Torino erano accolti da cartelli che ho visto anch'io: 'Non si affitta ai meridionali'. In confronto a loro, mi sentivo un nababbo. Anche se non ero mai andato in vacanza, non possedevo una motoretta e meno che mai un'automobile. Per di più tremavo al cospetto del mio primo direttore, Giulio De Benedetti. Quando entrava nella sala della redazione, ci alzavamo tutti. E stavamo in piedi fino a quando lui ordinava: "Signori, seduti!".Nel frattempo, l'economia tirava. E il boom esplodeva. Malgrado l'opposizione astiosa degli antenati di Veltroni, i comunisti di Togliatti, e dei socialisti di Nenni. La mamma del miracolo economico è stata la Dc. E il primo governo di centro-sinistra, quello Moro-Nenni, nacque soltanto nel dicembre 1963, quando il boom si era già incagliato in una congiuntura sfavorevole.Ma gli italiani seguitavano a faticare, a comprare frigoriferi, lavatrici e televisori, a scoprire le ferie e i viaggi in auto, a cercare alloggi decenti, con il bagno dove fare la doccia. Ah, la doccia! Da ragazzo non avevo mai potuto farla perché avevamo soltanto il cesso sulla ringhiera."

lunedì 10 marzo 2008

La sfida di Ayaan al terrore islamico


di Hitchens Christopher da Il Corriere della Sera


Hirsi Ali, ragione laica contro potere clericale A yaan Hirsi Ali è cresciuta in circostanze inimmaginabili per gran parte degli abitanti del mondo «sviluppato». Da piccola, Ayaan è stata soggetta alla rozza tortura della mutilazione genitale. Molti erano gli uomini (e le donne più anziane) che avevano il diritto di picchiarla e che esercitavano tale diritto con piacere. Dopo averle negato l' autonomia persino sulle proprie parti intime, ci si aspettava anche che acconsentisse a qualunque progetto di nozze deciso da altri per lei. Il tutto andava accettato con spirito fatalistico, perché volontà di un essere supremo. Ayaan credeva nell' esistenza di djinn e demoni, nei meccanismi di una cospirazione ebraica internazionale, nella verità della lettera di un solo libro e nella necessità che si dovessero coprire gli arti e i volti delle donne. È stimolante leggere la storia della sua graduale liberazione da simili illusioni e del suo rifiuto finale e definitivo di credere nel soprannaturale. Nell' autunno del 2007, durante una conversazione, abbiamo parlato della triade di mentalità che, a mio avviso, costituiscono il fondamentalismo islamico: autocompiacimento, autocommiserazione e odio di sé. «Nel mondo musulmano l' io esiste a malapena», è stato il suo primo commento, «perché i veri momenti umani sono quelli rubati. Ciò produce ipocrisia, la causa prima dell' autocompiacimento». Ayaan è convinta che la repressione sessuale sia la radice di tutti i problemi collegati, perché «senza libertà sessuale non c' è io». Ne consegue che chiunque voglia avere amor proprio dal punto di vista sessuale si ritrova in rotta di collisione con l' ortodossia religiosa. Il culto della verginità, uno dei vanti del Corano, impone in modo assoluto la supremazia maschile e l' infelicità femminile. Ayaan ha parlato con pacatezza e verecondia, ma in modo chiaro, di come questo culto renda insopportabile la vita delle donne, sia privandole del tutto di una vita sessuale, sia costringendole a ricorrere a espedienti (dolorosa penetrazione anale, ricucitura dell' imene) al contempo pericolosi, sgradevoli e degradanti. «Tra i primi segnali di allarme», mi ha detto Ayaan, «c' è stata la scoperta, quando avevo cinque o sei anni, di mia nonna che, con il sedere all' aria, parlava da sola e si rivolgeva a qualcuno. Pensai che fosse un gioco e cominciai a partecipare, ma lei mi disse che ero una bambina cattiva. Io avrei giurato che, sebbene lei parlasse con qualcuno, lì non c' era nessuno». I culti religiosi spesso enfatizzano il ruolo dei bambini precoci che pronunciano parole di saggezza, ma è altrettanto vero che i bambini possono essere veloci a capire i meccanismi della religione. «L' Islam è molto crudo perché pretende rigorose routine di preghiera ed esercizi. Dovevo partecipare per forza, ma non riuscivo a concentrarmi e quindi mi sentivo in colpa». È proprio questa la sintesi del «sadomasochismo » della religione: fa richieste impossibili e poi condanna al peccato originale chi non riesce a tener loro fede. La paura della punizione eterna è una cattiveria da infliggere a un bambino. Ayaan mi ha detto di non essersi emancipata del tutto dalla sua educazione repressiva fino a quando non si è liberata del terrore dell' inferno. Soltanto dopo avere attraversato quel Rubicone, Ayaan ha potuto dichiarare la sua piena indipendenza. È impossibile essere solo un po' eretici o consentire solo un po' di eresia. La ruota, il rogo e lo schiacciapollici sono tutti infruttuosi contro questa realtà. Basta ammettere un solo dubbio e l' intero edificio minaccia di crollare. Fin dall' aggressione alla società civile sferrata l' 11 settembre 2001, gran parte del mondo «occidentale» si è lanciato nella caccia sfrenata di interlocutori del mondo islamico. Come possiamo «capire» le richieste e le emozioni musulmane? Che cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo odio? Come possiamo scendere a patti con una società che sembra prendere alla lettera i precetti religiosi? La causa dell' arretratezza e della miseria del mondo musulmano non è l' oppressione occidentale ma lo stesso Islam: una fede che proclama il disprezzo per l' Illuminismo e per i valori laici. Insegna l' odio ai bambini, promette una grottesca versione dell' aldilà, eleva il culto del «martirio», flirta con la folle idea della conversione forzata del mondo non islamico e priva le società del talento e dell' energia del cinquanta per cento dei loro membri: la metà femminile. Non occorre guardare più lontano per spiegare l' istupidimento di società come l' Afghanistan, l' Iran, il Sudan, il Pakistan e la Somalia. Il corollario regge con una certa precisione: le società musulmane relativamente aperte e prospere - per esempio l' Indonesia, la Turchia e la Tunisia - sono proprio quelle che limitano la religione. E la linea tra stato fallito e stato «canaglia» diventa sempre più difficile da tracciare, perché quando le società islamiste falliscono è proprio la loro fede a impedire qualsivoglia indagine autocritica. Esaminiamo un aspetto del caso di Ayaan e cerchiamo di capire quanto stia in piedi l' interpretazione «moderata». Una ragione per cui è tanto odiata, e per cui la sua vita è ritenuta in pericolo, è che lei stessa è ciò che il titolo del suo libro proclama con orgoglio: un' apostata. Ayaan ha esercitato il diritto di abbandonare la religione in cui è stata cresciuta. Ma qui si presenta subito un problema. Le hadith musulmane, che insieme al Corano hanno uno status canonico, affermano in modo chiaro che la punizione per l' apostasia è la morte. Per le questioni testuali, imbarazzati revisionisti religiosi a volte si rifugiano nella metafora o nelle varianti della dottrina delle sacre scritture, ma nel presente caso non è disponibile neppure questa tattica ambigua. L' ingiunzione dice quel che dice, niente di più e niente di meno. In altri termini, i «fondamentalisti» hanno la legge religiosa dalla loro. Una volta ho chiesto a Tariq Ramadan che cosa ne pensasse a riguardo e lui ha risposto che l' uccisione degli apostati era «inattuabile». Inattuabile? Visto il numero sempre più alto di ex musulmani, sarà anche così. Ma questo termine moralmente pigro non sembra esprimere alcuna condanna C' è un altro punto di vista che va affermato senza ambiguità: se per migliorarsi i musulmani vogliono emigrare in società aperte e sviluppate, allora sta a loro adattarsi. È il prezzo dell' «inclusione», un prezzo assai ragionevole. La richiesta di un trattamento speciale per gli islamisti, che giunge sino alla censura della stampa laddove essi possano rivendicare l' «offesa» e alla segregazione scolastica per sesso laddove possano invocare la tradizione, è la richiesta di non ampliare la nostra civiltà multiculturale e multietnica, ma piuttosto quella di negarla. Il relativismo non ha il diritto di fare una richiesta tanto esorbitante.
Il testo pubblicato è un ampio stralcio della prefazione scritta da Christopher Hitchens per la nuova edizione tascabile di Infedele (Bur, pagine 392, 9,60), l' autobiografia di Ayaan Hirsi Ali, la scrittrice che ha sceneggiato Submission di Theo van Gogh e denunciato la condizione delle donne musulmane. Nata in Somalia nel 1969, Ayaan oggi vive sotto protezione negli Usa.