L’educazione è il pane dell’anima, diceva Giuseppe Mazzini e a mio parere non intendeva in senso stretto la conoscenza delle cose, ma si ispirava ad un concetto più importante, quello del saper convivere insieme senza cercare di prevaricare qualcuno, senza necessità di essere aggressivi per costringere in un angolo un’altra persona, applicando il buonsenso e il rispetto per l’altro.
Nella “società delle urla” mi sento tante volte “un uomo tra le rovine”.
Esiste ancora l’Educazione ?
Personalmente ho sempre pensato all’Educazione come un Valore intrinseco della mia vita che mi contraddistingue e mi differenzia, ma noto sempre più spesso che ormai è un “non-valore”, che non viene quasi più percepito e rispettato sia nella vita privata sia nella vita professionale, anche nei concetti più basici del termine. Estremizzo forse un po’ volutamente, ma penso che molti altri vivano questa percezione giornalmente, assistendo ad una parabola involutiva che sempre di più ci trascina verso una inciviltà evidente.
Faccio mio questo articolo di
Egle Santolini in cui ritrovo, dal mio "
moleskine mentale", molti dei numerosi punti che mi sono segnato e che sono oggetto di mie riflessioni periodiche.
L'educazione vale più del Suv
Dal modo di parlare alle scelte quotidiane, ecco lo “stile sociale” che non ha prezzo
Ma un vero signore come lo riconosci? In questi tempi calamitosi di smottamenti finanziari e rimescolamenti di classe, in questa Italia vaduziana e suvista post-furbetti e pre-processo di Vallettopoli, dove signora mia quanto è diventato difficile preservare la finezza del tratto, conviene tornare ai fondamentali: Mies Van der Rohe, con il suo «Less is more», e Coco Chanel, con quella sua frase che sembra scritta uscendo sconsolatamente dal Billionaire: «Ci sono persone che hanno soldi e altre che sono ricche». Renato Mannheimer: «Non esagererei con questa faccenda della scomparsa delle classi, certo la distribuzione delle fonti di reddito è oggi molto più articolata di una volta, e capita che un idraulico sia più ricco di un industriale. Ma l’origine sociale continua a contare: eccome». Essendo però grande la confusione sotto il cielo, urgono coordinate per riconoscere gli autentici gentiluomini. E allora? «E allora contano, prima di tutto, la discrezione, la mancanza di show off, il tono attutito della voce»: Franco Crespi dei Crespi di Milano, antica famiglia già proprietaria del «Corriere della Sera», non solo modestamente lo nacque, ma essendo professore emerito di Sociologia all’Università di Perugia, può per così dire interpretare scientificamente i propri ricordi. «Vede, quand’ero ragazzo, in famiglia, bastava poco a definire chi proprio non andava: il calzino troppo corto, la scarpa troppo appuntita, certe frasi tabù, tipo “piacere” nelle presentazioni o peggio ancora “la mia signora”. Anche certi vezzeggiativi un po’ andanti, come borsetta e camicetta. Ecco, bastava camicetta a fare cafone». Vien quasi tenerezza, di fronte all’imbarbarimento di oggi. «Già, e per di più questa brutalità nei rapporti interpersonali mi pare una cosa molto italiana. Non si tratta soltanto delle suonerie selvagge dei cellulari, dell’arroganza spicciola, del pestarti i piedi materialmente e metaforicamente. In Francia o in America, per esempio, proprio non capita che alle lettere non si risponda». Altre voci del decalogo: prima di tutto, dire grazie quando qualcuno ti ha fatto una gentilezza. Non cadere preda della smania di viaggiare, come quegli escursionisti seriali che due anni fa «hanno fatto» il Laos, l’anno scorso il Rajasthan e quest’anno la Baja California: meglio la villeggiatura nella casa di famiglia, meglio San Michele di Pagana che Malindi. E visto che oggi va prestata attenzione alla propria impronta ecologica, se proprio si deve meglio il treno del jet, sennò un low cost da Orio al Serio, bagaglio a mano e via. Dar del lei ai domestici, ma soprattutto pagargli i contributi. Dar del lei, possibilmente, a tutti tranne che agli intimi. Rispettare la regola sfortunatamente desueta del non telefonare a ore pasti: nessuno ci pensa più, ma vale anche se si usa il BlackBerry e non il telefono a disco di bachelite nera. Coltivare volterrianamente il proprio orto, e farlo con misura, senza pretendere di ammollare i frutti della propria zappa a tutto il vicinato. Potendo, come Carlo nel proprio ducato di Cornovaglia; non potendo, nei guerrilla gardens, cioè negli appezzamenti urbani lasciati liberi dal demanio, dove fior di notai di soldo stagionato corrono nel tempo libero a tirar su melanzane. Molto passa pure per il modo di vestire, non nel senso delle vecchie e rigide regole sul blu con il marrone e sul marrone dopo le sei, oggi prese se Dio vuole cum grano salis, ma nel pensare alla sostanza e non all’apparenza: troncare, sopire, smorzare. Il vero signore sa in cuor suo che l’unico modo per portare bene uno smoking è avere avuto un nonno e un babbo che l’hanno a loro volta indossato, e oggi si preoccupa soprattutto di nascondere i loghi e tagliare le etichette. Sua moglie, anche peggio (o meglio): compra da Zara e lo fa pure sapere, «guarda quanto è divertente questa gonnellina da 30 euro». È l’esatto contrario del modello bling bling di sarkosiana evidenza, completo di aerei prestati, anelli clonati, matrimoni affrettati: che volgarità. Ma a proposito di Sarkò, la nemesi potrebbe venire proprio da Carlà che astutamente, appena sbarcata all’Eliseo, ha sensibilmente abbassato i toni, almeno dal punto di vista del look. Abiti accollati, grande uso del nero, accorto impiego dei mocassini. Ma quello, forse, è un fatto di sensibilità nei confronti della statura del coniuge più che di understatement.