lunedì 30 aprile 2012

Il potere della comunicazione

Oggi il potere consiste nella capacità di comunicare e di persuadere. Puoi avere idee o prodotti eccezionali, ma se sei privo del potere di persuadere è come se non avessi nulla.
Comunicare ciò che hai da offrire, ecco la sostanza dell'esistenza ed ecco la massima capacità di cui ci si possa dotare.

"Le parole sono la droga più possente usata dall'umanità " (R. Kipling)

sabato 28 aprile 2012

Coraggio, passa all'azione!

Abbi fede nelle tue capacità
Stabilisci i tuoi obiettivi
Vivi la vita fino in fondo
Non rinunciare mai
Preparati bene
Abbi fiducia in te stesso
Non stancarti di riprovare
Abbi un atteggiamento collaborativo

Richard Brenson - Il coraggio di rischiare - Tecniche Nuove

venerdì 27 aprile 2012

Il coraggio degli imprenditori della fabbrica accanto

Dai virtuosi del cashmere a quelli dei distretti Ecco chi ha già battuto la crisi economica.

MILANO-Per capire che cosa veramente sta succedendo all'economia reale guai ad affidarsi solo ai calcoli sulle medie statistiche. Racconta Innocenzo Cipolletta che ha appena ultimato un'indagine sui processi di ristrutturazione dell'industria italiana: «Crescita zero è un concetto che ormai spiega poco e niente. Anzi, nasconde molte cose. Non ci fa vedere come un pezzo dell'offerta italiana, quella capace di produrre valore aggiunto, si sia addirittura rafforzata. A scomparire sono state, invece, le aziende e le produzioni che non reggono la competizione con i nuovi Paesi produttori».
Lo studio di Cipolletta uscirà sulla rivista Economia Italiana e servirà a comporre una fotografia inedita delle trasformazioni dell'industria italiana alla prese con: a) avvento dell'euro, b) globalizzazione, c) grande recessione. Tre terremoti che avrebbero deindustrializzato qualsiasi Paese che non avesse saputo reagire. Invece fortunatamente la risposta c'è stata e reca i volti degli imprenditori della fabbrica accanto, gente che ama il proprio lavoro più della mondanità/salotti e che quando deve scegliere un membro per il proprio consiglio di amministrazione recluta un abate benedettino, come ha fatto nei giorni scorsi l'imprenditore umbro Brunello Cucinelli. Prima matricola di Borsa del disgraziato anno 2012, Cucinelli ha imposto al mondo il suo cashmere tanto da aumentare il fatturato negli ultimi due anni del 51% e produrre, in soli dodici mesi, 30 milioni di utili.
Il virtuoso del cashmere non è una mosca bianca.

Secondo uno studio della società di consulenza milanese Pambianco ci sono una cinquantina di società quotabili del settore moda-abbigliamento e quasi tutte hanno un proprietario unico che coincide con il fondatore. Godono di ottimi brand, macinano utili e stanno attraversando la tempesta convinti di farcela, tanto che le banche d'affari li corteggiano per accompagnarli in Piazza Affari. Michele Tronconi, presidente di Sistema Moda Italia, è convinto che a determinare la forza dell'offerta italiana sia la struttura di filiera che ci rende più continui dei francesi, specializzatisi invece nel retail. L'economia di filiera sembra così essere l' italian way per reggere alla crisi perché garantisce specializzazione continua assieme a flessibilità organizzativa.


Altre sorprese arrivano dai distretti. Ciclicamente qualche guru - di quelli che parlano sempre ma non studiano mai - ne decreta ipocritamente la morte. Poi vengono pubblicati i numeri e arriva la smentita. Ben 25 hanno superato i livelli pre-crisi, ovvero in piena tempesta (2011) hanno fatturato di più del 2008, quando è iniziata la tormenta. Al primo posto di questa speciale classifica stilata dal Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo c'è il distretto della pelletteria e delle calzature di Firenze, cresciuto rispetto al 2008 del 24,5%, 450 milioni di euro in più. Griffe come Gucci, Ferragamo, Prada producono qui a conferma di una tradizione di eccellenza dovuta a competenze artigianali, qualità dei materiali e ricerca stilistica. Dopo Firenze spunta l'oreficeria di Valenza, in provincia di Alessandria. Il numero delle imprese è calato in questi anni ma il distretto è cresciuto, si sono salvati quelli che hanno continuato a credere nell'azienda e investito in tecnologia. Risultato: i grandi marchi continuano a comprare a Valenza. Anche i vini delle Langhe, Roero e Monferrato, hanno venduto nel 2011 ben 200 milioni di euro in più rispetto agli anni pre-crisi e precedono le macchine per l'imballaggio di Bologna, che si possono tranquillamente consolare visto che hanno sfondato in Cina, diventata il loro mercato più importante.


Insistono nel macinare ordini anche gli industriali delle macchine utensili, quelli del sistema Ucimu. Sono all'ottavo trimestre consecutivo di crescita e quasi sempre con percentuali a due cifre. Anche nel primo trimestre del 2012 l'incremento sarà almeno del 10%, grazie però ai mercati esteri che apprezzano anche un made in Italy tecnologico, non solo quello degli Armani e dei Prada. Un colosso come Caterpillar per i suoi torni chiama l'azienda varesina Pietro Carnaghi mentre la bergamasca Losma ha appena vinto una commessa della tedesca Thyssen.


Accanto a storie di sistema (filiere, distretti, sistemi organizzativi) ci sono anche molti exploit individuali. Singoli imprenditori che non si sono fatti spaventare dalla recessione e hanno trovato la formula e i mercati giusti. E ora non si vogliono fermare. Sandro Veronesi, il patron del gruppo Calzedonia, esponente di punta della nouvelle vague del made in Italy democratico, per il terzo anno consecutivo ha superato il fatturato di un miliardo di euro, cresce al ritmo del 15% e dopo aver raggiunto in Italia una copertura capillare del territorio vuole aprire altri 400 negozi in giro per il mondo. Calzedonia è un laboratorio del mondo del lavoro che verrà, visto che il 92% dei suoi dipendenti è donna e il 74% di entrambi i sessi ha meno di 30 anni.

I piemontesi della Grom, Federico Grom e Guido Martinetti, hanno puntato sulle gelaterie artigianali e stanno sfondando. Nel centro storico delle città italiane quando si vede una lunga coda, due volte su tre è di patiti del gelato Grom. Fatturato circa 23 milioni di euro, hanno già 55 negozi di proprietà e ne aprono almeno una dozzina l'anno. Il loro credo è la qualità e i frequentatori abituali delle gelaterie Grom (una piccola setta, ormai) sostengono che da città a città il gusto non cambia ed è riconoscibilissimo. Hanno aperto punti vendita a New York, a Parigi e Tokio ma a decretare il loro successo è stato il mercato interno, quello che invece rappresenta l'autentica dannazione di tanti altri colleghi che non hanno mezzi, idee e prodotti per tentare la strada dell'export.


Di stretta osservanza slow food come i fondatori della Grom è anche Oscar Farinetti da Alba, l'inventore di Eataly, il supermercato del cibo italiano di qualità. In un'Italia che perde posti di lavoro, Farinetti ne promette altri 400 prima dell'estate e 150 aggiuntivi entro fine anno. Le banche lo corteggiano per creare assieme delle trading company con cui tentare la strada dei Bric, a Milano il suo sbarco nella centralissima Porta Garibaldi sarà di sicuro un evento. «In un momento così duro bisogna investire. Ci vuole coraggio, inventiva e tenacia» è il motto di Mister Eataly. Direte che Grom e Farinetti sono degli unicum, che la crisi non consente voli pindarici, che i portafogli languiscono, il credit crunch impazza e il coraggio imprenditoriale da solo non basta. Ma basta girare un po' per trovare storie di successo che magari non arrivano nemmeno all'onore dei giornali.

A Milano tutti conoscono la pizza al taglio Spontini, un business nato in un piccolo locale vicino corso Buenos Aires che puntava sul menu ridotto, il servizio rapidissimo e i prezzi bassi. Beh, ora Spontini è diventato un brand, già sono quattro i locali e il quinto aprirà nei primi mesi del 2013. La famiglia Innocenti che possiede il marchio dopo la pizza formato fast food sta puntando sulle birrerie con BirraMi e per il 2014 vuole aprire anche a Torino, Verona, Bologna e Firenze. Anche la storia del Birrificio Lambrate (Milano) è poco conosciuta nonostante abbia avuto l'onore di una citazione sul New York Times . È un pub con fabbrica annessa che punta sull'artigianalità e si sta avvicinando al milione di euro di fatturato. I grandi marchi avrebbero voluto integrarlo ma i proprietari hanno detto di no e proseguito per la loro strada. Puro orgoglio artigiano.


La Granarolo (latte) è una cooperativa ed era data per spacciata dopo che i francesi della Lactalis avevano comprato Parmalat. A un anno di distanza Granarolo non solo non ha mollato la sfida ma ha deciso di raddoppiare il fatturato in 4 anni e sta per lanciare sul mercato due prodotti innovativi: il primo latte fresco pastorizzato per bebè e il primo latte fermentato per gli immigrati musulmani in Italia. Gli Orsero, Raffaella e Antonio, amministratore delegato e presidente di GF Group, erano i distributori storici della frutta Dal Monte in Italia e si sono lanciati proprio ora in una nuova avventura. Entrano nel mercato internazionale della frutta esotica (ananas e banane) con un proprio brand e un posizionamento di marketing elevato. Hanno iniziato con una robusta campagna di comunicazione (circa 5 milioni di euro) per far conoscere il marchio Orsero, puntano nel giro di un anno a conquistare il 10% del mercato. Chapeau per il coraggio e la determinazione.

La stessa che anima i proprietari del gruppo bolognese NoemaLife (informatica sanitaria) che partita dall'idea di tre ingegneri elettronici - Francesco Serra, Angelo Liverani e Cristina Signifredi - in dieci anni ha acquisito 12 società del settore portandosi a circa 50 milioni di fatturato e con una crescita che nel 2011 è stata del 13%. L'ultimo blitz NoemaLife l'ha fatto in Francia comprando la Medasys e così i bolognesi sono diventati il principale fornitore europeo di soluzioni informatiche per processi clinici.


Tra tanto protagonismo imprenditoriale una menzione finale va a uno studio di professionisti di Vicenza, Adacta. È il più importante del Nord Est e ha come clienti 400 società di capitali del territorio. Conta ben 116 unità tra partner e dipendenti e nei mesi scorsi ha preso una decisione che in tempo di recessione fa sicuramente tremare i polsi. La vecchia sede non ce la faceva più a contenere gli Adacta boys e così è stato deciso di affittare addirittura un'antica villa sulla strada che collega Vicenza e Marostica. I lavori fervono e il presidente Diego Xausa spera di mandare gli inviti per il vernissage prima di Natale. Se non è ottimismo questo...

Dario Di Vico - Corriere della Sera

domenica 22 aprile 2012

Wall Street, la mano visibile che avvelena


Il platano di fronte al numero 68 di Wall Street non c’è più. Ma lo spirito dei 24 pionieri che nel 1792 si riunirono sotto quell’albero e fondarono il primo mercato azionario di New York si respira ancora nelle anguste viuzze del Sud di Manhattan.
Basta fermarsi un momento ad un angolo di Wall Street ed alzare gli occhi dal Blackberry per osservare dal vivo la psiche dei mercati e del capitalismo americano.Il flusso umano è rapido ed ininterrotto, quasi fosse diretto da un burattinaio con mille mani. La gente cammina con passo alacre, spinta dal desiderio di fare soldi e dalla paura di fallire – lo yin and yang della vita newyorchese.E gli edifici torreggiano sulle strade, totem solenni pronti ad accogliere le migliaia di persone che hanno deciso di spendere gran parte della vita comprando e vendendo azioni.«Il mercato è re, siamo noi sudditi che a volte sbagliamo», mi disse tanti anni fa un vecchio operatore di Borsa per spiegarmi in due parole l’essenza della finanza.Negli ultimi anni, però, questa professione di fede laica è stata messa a dura prova. Il mito dell’infallibilità del mercato è stato sfatato dall’uno-due della crisi del 2007-2009 e dall’attuale disastro economico europeo.Ed il credo nella «mano invisibile» di Adam Smith – un sistema di compravendita che, se lasciato operare in piena libertà, porta ad un risultato economico ottimale – è stato minato dagli interventi massicci dei governi nei sistemi finanziari di mezzo mondo.E’ un’ironia pesante: a più di vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino che consacrò la vittoria della democrazia e del capitalismo sulla dittatura statale del comunismo, la libera economia di mercato occidentale ha bisogno di aiuti di Stato per non affondare.Altro che mano invisibile, oggigiorno la lunga mano del governo è visibile dappertutto. In America, la Casa Bianca ed il Congresso sono stati costretti a farsi dare miliardi di dollari dai contribuenti per evitare il collasso del mercato immobiliare e delle grandi banche.Il risultato è che nove mutui su dieci negli Usa oggi sono garantiti da entità statali, che la Federal Reserve ha comprato tonnellate di titoli «tossici» da banche ed investitori per purgare il sistema e che i tassi d’interesse rimarranno bassissimi per anni per tenere l’economia in vita.L’Europa è in una situazione simile. Negli ultimi mesi, la Banca Centrale Europea si è dovuta sostituire al settore privato come principale mezzo di trasmissione del denaro nell’economia.In tempi normali, le istituzioni finanziarie prendono soldi dai risparmiatori e li prestano ad aziende e consumatori. Ma con il sistema finanziario paralizzato dalla tragedia greca, la farsa italiana e i pasticci spagnoli e portoghesi, le banche hanno abbandonato le trincee e battuto in ritirata, spaventando gli investitori e facendo impazzire i mercati.Mario Draghi e i suoi sono stati costretti a scendere in campo, dispensando un triliardo di euro alle banche del continente per incoraggiarle a fare il loro mestiere: dare soldi all’economia reale.Per ora, l’intervento massiccio dei governi occidentali ha funzionato solo a metà. Ha evitato il peggio – un’altra Grande Depressione negli Usa, la dissoluzione della moneta unica in Europa –, ma non ha risolto i problemi di fondo di quelle economie.Anzi. La dipendenza di mercati e del settore privato dall’elemosina dei governi sta provocando degli scompensi finanziari ed economici che potrebbero portare alla prossima crisi.Uno dei capi delle banche di Wall Street ha paragonato gli aiuti statali alla morfina. «Servono ad alleviare il dolore, non a curare la malattia», mi ha detto.L’iniezione di capitali a basso prezzo da parte di governi e banche centrali sta portando investitori a prendere rischi che non dovrebbero.L’emissione di «junk bonds» – le obbligazioni «spazzatura» emesse da società non proprio affidabili dal punto di vista finanziario – è a livelli altissimi sia in America che in Europa.E negli Usa c’è stato un ritorno di fiamma di «titoli esotici», obbligazioni legate a beni non ortodossi tipo gli utili di Domino’s Pizza o le vendite di dvd de «Il paziente inglese» (non sto scherzando…). Nei primi mesi del 2012, gli alchimisti di Wall Street hanno venduto più di 5 miliardi di dollari di questa roba, il doppio dell’anno scorso.Il vantaggio di questi strani animali nello zoo della finanza è che hanno tassi d’interesse molto più alti dei beni «sicuri» quali le obbligazioni del Tesoro americano.È un fenomeno darwiniano: come le giraffe che dovettero estendere il collo per raggiungere le foglie, così i fondi pensione, gli hedge funds e persino la gente comune deve spingersi su investimenti rischiosi per guadagnare qualche soldo.Decisioni razionali e comprensibili, ma che aumentano il rischio di nuove bolle speculative e mettono pressione su un sistema che non si è ancora completamente ripreso dalla crisi di tre anni fa.La realtà è che, prima o poi, governi e banche centrali dovranno cedere il palcoscenico al settore privato, l’attore principale di ogni economia. Ma nessuno sa quando e come.Il dilemma di Ben Bernanke alla Fed e Draghi alla Bce è che se si ritirano troppo presto, l’economia potrebbe ricadere nel coma, ma se rimangono troppo a lungo rischiano di fare la fine di Alan Greenspan – condannato per aver causato la crisi dagli stessi mercati che lo avevano beatificato per aver pompato l’economia negli anni precedenti.«Non possono vincere», mi ha detto uno dei capi delle banche d’affari americane la settimana scorsa. «Qualsiasi cosa facciano, saranno criticati».Che è la verità, ma anche un peccato perché le banche centrali hanno fatto il loro dovere – sorreggere il sistema quando era sull’orlo del crollo.In America ed Europa si parla tanto di cambiamenti «strutturali»: riforme radicali dello Stato sociale e della tassazione, austerità fiscale, riduzioni drastiche dei deficit. Sono discorsi nobili ma anche facili per politici e commentatori, perché i tempi per rivoluzioni di questo tipo sono biblici. Come disse John Maynard Keynes, che di aiuti statali all’economia se ne intendeva: «Nel lungo termine saremo tutti morti».Purtroppo i mercati e le economie, come i lavoratori di Wall Street, di tempo non ne hanno. Da quando quei 24 proto-operatori di Borsa si riunirono sotto il platano, il capitalismo mondiale ha solo un tempo: il presente. E per il momento è un presente dominato dall’ombra ingombrante dello Stato.


Francesco Guerrera è il caporedattore finanziariodel Wall Street Journal a New York.

mercoledì 18 aprile 2012

The Vision Thing

...Bezos riusciva a motivare le persone quando le cose andavano male. "Era molto positivo. Anzi, ottimista è forse il termine migliore. Sosteneva che la gente ti dice in continuazione che qualcosa non può essere fatto e che, se la ascolti, fallirai.
Diceva che avremmo fatto funzionare le cose. Vedeva oltre ogni negatività. Faceva sembrare divertente avere a che fare con lui. "...

Da One Click" - Rizzoli Etas

sabato 14 aprile 2012

Produrre innovazione

...È importante sottolineare come Amazon non sia invincibile. È solo che Bezos ha una formula semplice che non è tanto facile scalzare: produrre più innovazione di chiunque altro e dare ai clienti ciò che vogliono. Le aziende che sono in circolazione da abbastanza tempo si rilassano e dimenticano questi imperativi. Si concentrano sui profitti e sul prezzo delle loro azioni, nella convinzione che alzare i prezzi e licenziare i dipendenti sia un modo di vincere. Bezos non commette questo errore...

Da "One Click - La visione di Jeff Bezos e il futuro di Amazon" - Rizzoli ETAS

giovedì 12 aprile 2012

Made in Iktaly

L’Ikea delocalizza in Italia. Nel mondo al contrario in cui ci tocca vivere la multinazionale scandinava sposta un pezzo consistente della sua produzione dall’Estremo Oriente alla Padania detrotizzata. Pare infatti che, nonostante tutte le statistiche ci diano per spacciati, nessuno abbia ancora imparato a fare i rubinetti come noi. E i cassetti della cucina. E i giocattoli per le camere dei bambini. La qualità sanno crearla anche altri. La produzione in serie, pure. Ma la qualità in serie, quella rimane una specialità della casa. Non siamo soltanto il Paese dei partiti famelici, dei funzionari corrotti e di mamme più parziali degli arbitri (la Family di Gemonio insegna che in molte madri italiane c’è un’Agrippina disposta a qualsiasi nefandezza pur di spingere avanti il proprio debosciato Nerone). All’estero si ostinano a riconoscere l’esistenza di un’altra Italia in cui noi abbiamo smesso di credere. L’Italia del lavoro ben fatto, del buon gusto, del bel vivere e del meglio pensare.

Se avessi il potere assoluto per cento minuti farei piazza pulita dei mestieri che non possono più darci un mestiere (perché altrove sono fatti meglio e a minor costo) e concentrerei tutte le risorse disponibili su ciò che ci rende unici: l’artigianato di qualità, il design, il cibo, il vino, il turismo, la cultura. Creerei un fondo per la Bellezza a cui attingere per aprire botteghe di alta manualità, restaurare opere d’arte, ripulire spiagge e rifugi di montagna, trasformare case smozzicate in agriturismi. Nel mondo al contrario c’è spazio solo per chi si distingue dagli altri. E noi, o diventiamo la patria delle meraviglie o non saremo più niente.

Massimo Gramellini -Buongiorno su La Stampa 11 aprile 2012

lunedì 9 aprile 2012

Dio il grande sconosciuto

"Oggi Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto", ha detto papa Ratzinger nel viaggio in Francia del 2008. A certificare che l'esimo-il cattolicesimo, ma più alla larga il cristianesimo-soprattutto a Occidente, è stato rimpiazzato dall'ismo, in ogni sua declinazione: consumismo, secolarismo, relativismo, pure sincretismo. In una parola, dall'individualismo.
Cresce,specie nel mondo giovanile, il più tecnologico e impermeabile al messaggio religioso, quello che Enzo Bianchi, il priore di Bose, definisce "un senso della vita che non disdegna la tradizione religiosa ricevuta, ma la rivisita secondo convenienze dettate dal percorso individuale". Una sorta di credere a modo mio. E senza appartenere. Una fede su misura, quasi un bricolage religioso, che si allarga a macchia d'olio, secondo l'ultimo studio di Paolo Segatti, docente di Sociologia politica a Milano, soprattutto tra gli italiani nati dopo il 1981, e che suggerisce l'idea di "un'Italia che si sta avviando a diventare un Paese genericamente cristiano", proprio per via "dell'aumento di individualizzazione nel rapporto con il sacro".

Tratto da Sette del Corriere della Sera "Con che coraggio continuiamo a dirci cristiani ?" di Cesare Fiumi

L'ira, la rabbia

Bisogna imparare a controllarsi e abbandonare l'ira. La rabbia, l'ira, non sono salutari. Non abbiamo bisogno di ira per vivere, non è un sentimento positivo che offre serenità. Non ci dà più caparbietà, non ci dà maggiore capacità di persistere, non ci rende lucidi. Non è utile, non rende, ci debilita e ci paralizza. 

L'ira non è costruttiva, mai. Non ci rende più lucidi o più liberi, non ci aiuta nella vita. Anzi, quando compiamo qualche azione sotto l'effetto della rabbia poi ce ne paniamo sempre. A volte è troppo tardi e perdiamo occasioni e rapporti importanti.

Riflettiamo su questa scelta. Quanto stress mentale e psicologico ci provoca l'ira.
Se riusciamo a contenerla e poi eliminarla ne godremo di un beneficio enorme.

mercoledì 4 aprile 2012

Richard Sennet: per uscire dalla crisi impariamo a collaborare

Se volete dar retta al professor Sennett, potete guardare alla crisi economica che sta colpendo l'Occidente, quella attuale ma anche quella precedente del 2008, anche con un occhio diverso rispetto ai mutui subprime americani o alla crisi di fiducia degli investitori. Per esempio, potreste provare a considerare la crisi dal punto di vista della riduzione della capacità di cooperare tra le persone, e soprattutto tra i lavoratori dei settori economici più avanzati, della finanza e delle nuove tecnologie. È da lì allora che sono nate le difficoltà del sistema economico? «No, no», si affretta a precisare il professore, «la crisi è una crisi economico-finanziaria». L'incapacità sempre più accentuata di mettersi insieme per ottenere risultati è stata solo una conseguenza. Ma poi, a sua volta, ha complicato le cose. Ed è solo lì, nella capacità di fare qualcosa con gli altri, con quelli che non conosciamo, ai quali non vogliamo bene e che anzi a volte possiamo anche ritenere antipatici, che può esserci una strada per il nostro futuro.
Richard Sennett è un sociologo americano che insegna alla London School of Economics e alla New York University. Nato a Chicago da una famiglia operaia, praticamente fin dall'inizio della sua lunga carriera di ricercatore, di docente e di autore di saggi si è occupato delle condizioni di vita nell'ambiente urbano e sul lavoro, con una attenzione particolare alle classi lavoratrici. I suoi libri più famosi, però, sono sicuramente gli ultimi, che già dal titolo rimandano alla sua visione delle dinamiche del nostro mondo e delle sue crisi più attuali: "L'uomo flessibile", del 1999, "Rispetto. La dignità umana in un mondo di disuguali", "La cultura del nuovo capitalismo" (2006). Si definisce senza timori un uomo di sinistra, ma ha molto da dire sul modo in cui la sinistra politica è stata incapace di capire quello che succedeva e in definitiva «ha fallito e disgustato i giovani» (anche se precisa di non conoscere la situazione italiana). A Milano abbiamo potuto incontrarlo grazie alla Fondazione Cariplo che, insieme alla casa editrice Feltrinelli, lo ha invitato a presentare il suo ultimo libro dedicato, appunto, alla capacità degli uomini di collaborare e intitolato "Insieme". In copertina, l'esempio che a Sennett più piace: un gruppo di vogatori impegnati in una gara. «È un'immagine che spiega bene come la collaborazione non sia l'opposto dell'altra grande forza, la competizione: quei rematori collaborano per competere. E in definitiva sono entrambi processi dinamici». Nel suo libro mette sotto esame tutti gli aspetti del modo in cui le persone arrivano a fare le cose insieme. Sennett è convinto che la collaborazione sia innata nell'uomo, sia un tratto genetico della nostra specie, ma pensa anche che a collaborare si possa e si debba imparare, esercitando vere e proprie tecniche.
Questa capacità di agire insieme per uno scopo nel nostro sistema economico si è andata indebolendo, benché sia «un aspetto molto importante per il capitalismo moderno e fondamentale per poter superare la sua crisi». Dietro quello che è successo c'è sicuramente la riduzione delle risorse a disposizione, l'aumento delle disuguaglianze, che riducono gli spazi di collaborazione e l'attenzione agli altri, facendo crescere l'egoismo, ma tutto questo non basta. Quello che Sennett ha scoperto, per esempio andando a intervistare con i suoi studenti i lavoratori di Wall Street finiti disoccupati, è che nelle loro società avevano completamente perso la capacità di lavorare insieme. E ci sono almeno due fattori che hanno portato a questa situazione. C'è l'orizzonte sempre più breve rispetto al quale si muovo le aziende: i risultati vanno raggiunti in meno di un anno, i capi sono sempre in cerca di un successo veloce e magari cambiano. E c'è quella che lo studioso definisce la "burocratizzazione" della collaborazione: «Nella nuova economia tutto diventa più formale e regolato, anche la cooperazione. E più si chiede alle persone di cooperare, meno succede. le vecchie teorie suggerivano che più le persone imparavano a collaborare fuori dall'ambiente di lavoro, più lo avrebbero fatto anche all'interno dell'azienda. Nel sistema moderno c'è una istituzionalizzazione della collaborazione che non porta a niente». Alla fine, i lavoratori di Wall Street non potevano fidarsi gli uni degli altri e nemmeno del giudizio dei capi. Persi, isolati, costretti a puntare continuamente a nuovi obiettivi per andare avanti, avevano smarrito completamente il senso del proprio lavoro . E, soprattutto, non riuscivano a collaborare perché dovevano continuamente guardarsi le spalle dai propri colleghi. Quello che ha visto succedere nel mondo della finanza, a quanto pare, rappresenta un po' il paradigma del lavoro contemporaneo, nella visione del sociologo americano.
C'è ancora modo, però, di rimediare alla situazione. Perché la capacità di cooperare è genetica, ma si impara anche, anzi per Sennett è proprio una abilità dell'uomo, alla quale ci si può applicare, come la capacità del buon artigiano di uno dei sui libri più famosi ("L'uomo artigiano", del 2008). E il professore indica tra strade da seguire, da usare proprio come in un manuale pratico a partire dalle relazioni in cui siamo coinvolti ogni giorno: riscoprire la capacità dialogica, di guardare oltre il significato delle parole e cogliere l'intenzione di quello che ci viene detto; imparare a usare il condizionale, essere meno assertivi e sicuri nel dire le cose, lasciando spazio al dialogo, perché «la chiarezza è nemica della collaborazione»; guardare agli altro con empatia anziché con simpatia, chiedendoci cosa ci sia che non va in chi sta male anziché limitarci a compatirlo. «Queste tre capacità sono state dimenticate e messe da parte dalle aziende e nell'economia moderna». Ma questo, ovviamente, non significa che la collaborazione sia morta: Occupy Wall Street, gli Indignados e gli altri movimenti «di cui abbiamo un gran bisogno», sono esempi di collaborazione, in cui persone diverse si uniscono per fare davvero qualcosa insieme. «È un modo differente di affrontare la crisi del capitalismo moderno». Per capire se le cose avranno funzionato, forse non si dovrà guardare solo al fatturato di fine anno o al Pil dei Paesi. «La tendenza è sempre quella di riportare le cose a come erano prima, tutto quello che è stato fatto per affrontare questa crisi cerca di riparare ciò che si è rotto, per tornare al boom economico. Io non credo che le aziende debbano tornare ad essere quelle di un tempo. Credo che il sistema vada davvero riconfigurato. Cresceranno i profitti? Forse. Però di sicuro crescerà la soddisfazione per le persone».

Paolo Magliocco - il Sole 24 Ore

martedì 3 aprile 2012

Quanto conta la tenacia per la vittoria

Nove tentativi mondiali, non si è arresa. E al decimo è arrivato l’oro. Il metodo Kostner (che piace ai sociologi)
«Era il mio momento, era giusto così». Solo che il momento della medaglia d’oro, per Carolina Kostner, è arrivato dopo dieci anni (e nove mondiali), fatti di avvicinamenti (l’argento nei mondiali del 2008) e tonfi (alle Olimpiadi di Vancouver). La strada verso il successo è notoriamente in salita, ma esempi coriacei come quelli della pattinatrice italiana fanno pensare che la vera «spinta» verso la vetta sia data dalla tenacia.

E del resto, l’elenco di caparbi di successo è nutrito. Una «goccia di talento», come l’aveva definita Mick Jagger, mescolata a una volontà d’acciaio: così Madonna, madre di tutti gli ostinati, ha invertito la rotta di un percorso segnato. Fisico rotondo da americana di prima generazione e una voce, secondo i discografici, da Minnie: dallo sbarco a New York fino al 1982, quando firma il suo primo contratto, passano cinque anni neri affrontati con determinazione, e oggi rivendicati con orgoglio. Senza andare troppo lontani (e rimanendo in campo sportivo), ecco la storia di Luca Toni, campione del mondo nel 2006, ma a fine anni ’90 in serie C, nel Fiorenzuola, dove il complimento più motivante era: «sei un brocco con due ferri da stiro ai piedi». Il successo, dopo anni di gavetta, arriva nel 2003 con il Palermo. «Prima di allora non beccavo una palla,maMarta (la fidanzata, ndr)mi diceva di non arrendermi».

Favola d’acciaio anche per l’ex campione Moreno Torricelli, dai 15 ai 22 anni (quindi in ritardo sulla tabella di marcia) magazziniere in una fabbrica di mobili della Brianza, ma sempre con la fissa del pallone, coltivata nella squadra della Caratese. Fino al giorno dell’incontro magico con Giovanni Trapattoni. «Per avere successo ci vogliono parecchie cose,ma la tenacia e la fortuna giocano due ruoli di primo piano», osserva il sociologo Domenico De Masi, che rispolvera il suo incontro «sì». «Avevo vinto una borsa di studio alla Olivetti di Pozzuoli e quel giorno passò in azienda proprio Adriano Olivetti, che mi chiese di che segno zodiacale fossi. Alla mia risposta “acquario ascendente acquario” sgranò gli occhi e dopo essersi complimentato per il mio cielo astrale mi disse, una volta laureato, di inviargli una cartolina perché mi avrebbe assunto. Così fu».

La conquista del successo è del resto un avvicinamento per tappe. «Intanto occorre un’idea ben precisa delle cose che si vogliono fare, poi caparbietà, capacità di trovare gli alleati, schivare i nemici e gli intoppi », aggiunge De Masi. Superata la visione che la creatività sia conflittuale con la disciplina («tra le qualità delle grandi menti creative ricorre sempre la tenacia»), il raggiungimento degli obiettivi coincide quasi con una formula matematica dove visione, passione, caparbietà, competenza, audacia e fortuna coesistono. Stando ben attenti a non demoralizzarsi: non lo ha fatto Luciano Ligabue, che prima di imporsi come rocker è stato bracciante, metalmeccanico, ragioniere, commerciante, calciatore di terza categoria e consigliere comunale del PDS. E neppure lo scrittore Daniel Pennac, alias Daniel Pennacchioni, che ha imbroccato il filone giusto dopo anni di oscure ma ostinate pubblicazioni.

«Sempre meglio non arrendersi: la resa equivale a una sconfitta e poi il successo della maturità è molto più pieno e consapevole di quello della gioventù», osserva lo psichiatra Raffaele Morelli. Per sopravvivere a anni di insuccessi (in attesa del successo) occorrono piccole strategie. «Innanzitutto non essere ossessivi rispetto all’obiettivo, il cervello è l’organo della naturalezza, per centrare i risultati bisogna avere poche battaglie interiori. Poi sempre meglio puntare sulla completezza che sulla perfezione: i risultati spesso arrivano, come per la Kostner, quando si smette di corteggiarli accanitamente». Capitolo a parte per i sentimenti. Il caso di Kate Middleton, principessa dopo 10 anni di estenuante attesa, non va copiato. «Il cervello ha scritti dentro di sé i codici dell’attrazione e del desiderio: ostinarci con una persona che non ci vuole ci ripagherà al massimo con un matrimonio arido».

di Michela Proietti – Corriere della Sera del 02.04.2012

domenica 1 aprile 2012

Marketing manager la nuova missione è costruire il "mito"


È una piccola rivoluzione quella che si sta consumando tra i manager del marketing. Rivoluzione favorita in parte dalla crisi economica, che ha imposto un taglio ai budget operato in misura maggiore proprio su questa funzione, e in parte dall’accrescimento tecnologico dei metodi e degli strumenti utilizzati per "piazzare sul mercato" i nuovi prodotti.


Oltre alla teoria del padre del marketing, Philip Koetler, che nel suo ultimo lavoro del 2009 "Chaotics" ha continuato a definirlo come un processo manageriale diretto a soddisfare i bisogni attraverso la creazione e lo scambio di prodotti, il marketing è divenuto uno strumento sempre più strategico per le aziende. E case histories come quella della Apple dimostrano che, in un mercato anemico, lo strumento più efficace per conquistare il cliente è proprio questo. 
A conferma di ciò una ricerca realizzata dal Centro di Formazione Manager del Terziario (Cfmt) rivela che quella del marketing è stata negli ultimi due anni la funzione più stabile in termini di ricambio professionale e che per il 61% dei dirigenti intervistati proprio il marketing sarà uno dei fenomeni che impatterà maggiormente sul business dei prossimi anni.


«Il marketing sta acquistando sempre maggiore importanza per vari motivi – commenta Marcella Mallen, presidente del Cfmt – non ultimo l’impatto della digitalizzazione sulla vita di tutti noi. La necessità di collaborare di più all’interno e all’esterno (fornitori, clienti ecc.) delle aziende, la sempre più reale globalizzazione e multiculturalità dei mercati anche di quelli nazionali e la necessità di tornare a pensare in modo globale, ma agendo localmente, diventano elementi centrali per il successo di un’azienda, e il marketing ne è l’area funzionale più interessata».Da qui la specializzazione sempre maggiore dei manager che operano nel settore chiamati a ricorrere a strumenti sempre più sofisticati come il Romi (return on marketing investments), un indice che misura il ritorno economico degli investimenti in marketing. A questo proposito uno studio realizzato su 300 imprese dall’Area Marketing della SDA Bocconi School of Management rivela che le aziende italiane non hanno nulla da invidiare a quelle straniere. Nella competizione internazionale i player del made in Italy vantano competenze maggiori nello sviluppo di nuovi prodotti, nella gestione dei canali informativi e nella gestione del marchio. Sono più indietro invece nell’utilizzo delle informazioni di mercato, nella pianificazione e nell’implementazione dei processi di marketing.«Il marketing – commenta Bruno Busacca, professore universitario e Direttore Divisione Master della SDA Bocconi – ha vissuto un momento molto difficile con la crisi economica perché i tagli aziendali sono finiti in larga parte lì. Detto questo, è proprio il ritorno all’economia reale figlio della crisi che restituirà importanza e centralità alla funzione del direttore marketing. Del resto, se si guarda al mercato, le aziende che registrano i tassi di crescita maggiori (pensiamo alla Apple negli Stati Uniti ma anche alla Tod’s in Italia) sono quelle che hanno una forte capacità di lavorare sul mercato e nelle relazioni con i clienti». Una sensibilità diffusa anche in Italia dove un’azienda come la Ducati mantiene uno strettissimo legame con i suoi appassionati, che vengono utilizzati come interfaccia per le ricerche di mercato. Lo stesso è accaduto con il lancio della nuova "500" quando la Fiat ha presentato la piattaforma Internet "500 wants you" usata per interagire con i potenziali acquirenti. Ovviamente permane una netta differenza tra le medie e le grandi aziende. 

«Nelle aziende medie – spiega Luca Temellini, ad della società di executive search EXS Italia, controllata da GI Group (multinazionale italiana specializzata nel mercato del lavoro) – l'attività di marketing è custodita dalla proprietà, che la interpreta come sviluppo di prodotto. Dunque non strumenti per vendere di più, ma grande attenzione alla qualità e all'affidabilità. Questo vale soprattutto per il settore manifatturiero che, nonostante tutto, punta fortemente, e con successo, sull'esportazione».Diverso è il caso dei grandi, dove tutto ruota intorno alla figura del manager, sempre più internazionale e costretto a fare i conti con una competizione agguerrita. «Il ruolo del direttore marketing è cambiato molto nell’ultimo periodo – dichiara Paolo Carrozza, a capo del Market Management & Strategic Marketing per il Mediterraneo, Africa e Medio Oriente del Gruppo Euler Hermes, controllato dal Gruppo Allianz e leader nell’assicurazione al credito – mentre prima il suo compito era principalmente quello di cercare nuovi clienti, adesso è chiamato a valutare i clienti più profittevoli, e a selezionarli perché gli investimenti si sono ridotti e le politiche aziendali si focalizzano su target precisi».«Il manager – continua – partecipa al posizionamento dell’azienda e opera sempre in stretto contatto con le altre funzioni, come il risk management, la finanza, il commerciale e le risorse umane. Per questo un aiuto arriva dalle nuove tecnologie, come i social network e in generale gli strumenti digitali, che permettono di abbattere i costi e veicolare il messaggio ai clienti di riferimento senza disperdere risorse».

E proprio i social network e il web marketing sono ormai, secondo la Bocconi, un riferimento strategico sul mercato e il 38% delle aziende afferma di effettuare campagne di comunicazione online e di lanciare in rete i suoi piani di marketing. Un altro tassello di una rivoluzione che ruota intorno alle attitudini innovative dei manager, ma fonda le sue basi sulla loro capacità di vedere in anticipo dove andrà il mercato.