domenica 20 gennaio 2008

I vantaggi dell'innovazione e della tecnologia

Nella Silicon Valley del deserto israeliano


ALBERTO STABILE (da Repubblica - Affari & Finanza)

Certe volte i miracoli si ripetono. Come a partire dagli anni Venti in poi i pionieri del sionismo riuscirono a far fiorire il deserto, così, a cominciare dagli anni 90, i pionieri dell’hightech sono riusciti a trasformare Israele in una potenza tecnologica alla pari dei paesi più avanzati. Con le proprie caratteristiche, naturalmente, come denuncia chiaramente il nome dato alla regione costiera tra Haifa e Tel Aviv in cui si raggruppano la maggior parte delle aziende del settore. Silicon Wadi è stata chiamata e non Silicon Valley perché è il wadi, il greto asciutto di un torrente che scorre, quando scorre, sotterraneo, tra colline riarse, la caratteristica del paesaggio israeliano. La metà, per estensione, rispetto alla Silicon Valley, cioè 6mila chilometri quadrati, Silicon Wadi è la culla di un formidabile successo. Le società israeliane presenti al Nasdaq sono 120, il che pone Israele al terzo posto, subito dopo Stati Uniti e Canada e davanti a tutti i paesi europei messi insieme, per numero di società quotate nel listino tecnologico americano. Solo nel 2006 sono state oltre 3500 le startup nel settore del software. Per non dire d’alcune vendite nell’ordine di miliardi di dollari che hanno fatto titolo sui giornali. Un boom che dura nel tempo malgrado la bolla tecnologica e la quasi contemporanea esplosione in Israele della seconda Intifada. Il permanere del conflitto tra israeliani e i palestinesi, così come l’ostilità di buona parte del mondo arabo, non sembra aver inciso più di tanto nella crescita record fatta registrare dall’economia israeliana negli ultimi anni. La Seconda guerra del Libano del luglioagosto del 2006, ad esempio, non ha impedito che l’economia israeliana crescesse, quell’anno del 5,1 per cento, né che le esportazioni hitech aumentassero del 22 per cento.Ma non c’è nulla di miracoloso in questo successo. Cultura e istruzione, iniziativa, spirito di gruppo, sono i tre elementi fondamentali della nascita e dello sviluppo della nuova imprenditoria israeliana. In secondo luogo, un’azione efficace dello stato sul fronte degli incentivi e delle infrastrutture. Ha contato anche il massiccio afflusso d’immigrati russi a partire dal 1989, un milione di persone, fra le quali oltre cinquemila ingegneri e scienziati, nonché un numero imprecisato di tecnici informatici, che hanno trovato in Israele le condizioni per mettere in pratica la loro conoscenza e sviluppare idee e progetti che il sistema sovietico gli aveva impedito di sviluppare. Ma decisivo è stato l’intervento dello Stato. La base l’ha offerta il sistema scolastico che in Israele sforna il 28% di laureati e l’1,35 di ingegneri e scienziati (contro lo 0,80 degli Stati uniti e lo 0,45 del Canada). Superfluo aggiungere che Scienze e Tecnologia hanno priorità nei programmi scolastici. Ma se la scuola ha fornito il materiale umano, diciamo così allo stato grezzo, il laboratorio per una prima fondamentale specializzazione e sperimentazione nel campo delle nuove tecnologie è stato offerto dall’Esercito. L’Idf ha sempre puntato sull’innovazione (Mamram, il primo centro computerizzato militare risale al 1960) e l’innovazione ha permesso all’Idf di conseguire un vantaggio strategico rispetto agli eserciti della regione contro i quali si è trovato a combattere.La maggior parte della classe dirigente israeliana si è formata nei ranghi delle Forze Armate. L’esercito in Israele è un cacciatore di cervelli. I giovani intellettualmente più dotati vengono individuati sui banchi di scuola. Le famiglie considerano un onore che i propri figli siano arruolati nelle unità d’intelligence, dove vengono studiati e sperimentati gli strumenti tecnologici più avanzati nel wireless, nei network, nella sicurezza delle comunicazioni. Conclusa la carriera militare molti di questi ufficiali aprono un’azienda. Zohar Zisapel, fondatore con il fratello Yakhov del Grupo Rad (13 aziende, 18 mila dipendenti, entrate per 450 milioni di dollari), detto il Bill Gates israeliano, exufficiale nei servizi d’intelligence, spiega così la nascita del boom: «Noi diciamo che la persona che ha creato l’industria della Difesa israeliana è stata Charles De Gaulle perché il suo embargo ci ha dato la spinta per mettere in campo le nostre energie». Era il 1967, guerra dei Sei Giorni: vittoria israeliana ed embargo della Francia, allora maggiore fornitore d’armi a favore d’Israele. Nel periodo prima che gli Stati Uniti sostituiscano la Francia, gli israeliani si rimboccano riescono a sviluppare la loro tecnologia militare. A metà degli anni 90 con l’irrompere sulla scena di Internet, l’hitech israeliano inventato nei laboratori di ricerca dell’esercito viene particolarmente richiesto. Il web, pone alle imprese problemi di sicurezza: l’Idf ha già risolto il problema di come collegare fra di loro i computer senza pregiudicare la sicurezza di quelli che contengono informazioni segrete e l’industria israeliana se ne avvantaggia. Gil Shwed fonda la Check Point e inventa Firewall, un software destinato a proteggere sistemi organizzativi connessi a un network esterno. E non è l’unica invenzione riuscita.Tre anni di servizio militare obbligatorio, più una sostituzione annuale di un mese fino ai 40 anni, creano legami interpersonali solidissimi. L’abitudine a condividere mansioni ardue e rischiose, il cameratismo responsabile, l’informalità dei rapporti gerarchici: tutto questo rende i giovani israeliani particolarmente adatti al lavoro di squadra. Il senso del gruppo non cessa con la fine del servizio militare ma si prolunga nella vita civile e trova terreno fertile nella creazione d’impresa. Sono quattro ventenni, Yair Goldifnger, Arik Vardi, Sefi Vigiser e Amnon Amir a fondare nel 1996 Mirabils, una web company destinata ad introdurre una nuovo modo di comunicare attraverso il web. Lesti ad intuire la popolarità d’Internet, i quattro capirono anche che milioni di persone erano collegate in rete ma non erano interconnesse. Quattro mesi dopo la nascita di Mirabilis venne lanciato il programma ICQ, I seek you, uno strumento che permetteva agli utenti di ritrovarsi online e di creare canali di comunicazione peertopeer. Il successo di ICQ e di altri gadget della comunicazione prodotti al ritmo di uno al mese, tra cui anche i programmi per la chatroom, fu subito riconosciuto, finché nell’88 la compagnia Mirabilis venne acquistata da Aol per 400 milioni di dollari. Uno dei finanziatori dell’impresa fu Yossi Vardi, un uomo d’affari che a puntare sull’hitech ci ha visto prima degli altri. Yossi aveva una buona ragione per scommettere i suoi soldi. Uno dei quattro fondatori di Mirabilis, Arik Vardi, è suo figlio e Yossi credeva nelle doti del ragazzo e dei suoi amici. Tant’è che cominciò a girare il mondo per promuovere ICQ, senza timore di ammettere che Mirabilis non produceva alcun reddito. Di società a reddito zero ne sono nate e morte a centinaia negli anni del boom dell’hitech. Tuttavia quelle che hanno avuto successo hanno prodotto un effettovolano che tuttora resiste. Fino al 2002 in Israele sorgevano 500 startup l’anno, ma il ritmo è rimasto sostenuto: lo Stato, prima che i privati, ha capito che favorire la creatività imprenditoriale dei nuovi manager della tecnologia era un buon affare.L’istituzione dell’Ufficio del Chief Scientist, che avalla i progetti più innovativi e vendibili sul mercato internazionale e ne facilita il finanziamento, va di pari passo alla creazione dell’Israeli Venture Capital, una società finanziaria pubblica che con un primo programma di cento milioni di dollari chiamato Yozma (in ebraico iniziativa) ha dato vita a dieci fondi di Venture Capital per sostenere le startup tecnologiche. Il resto l’ha fatto il mercato, la fiducia degli investitori americani nelle risorse dell’imprenditoria israeliana ha portato le maggiori imprese hitech del mondo ad aprire settori dedicati alla Ricerca e Sviluppo in Israele, Motorola in testa, seguita da Intel, Ibm e così via. Ma soprattutto ha favorito massicci investimenti nei fondi destinati alla VC community fino a raggiungere la cifra record di quattromila miliardi di dollari. Adesso c’è qualche segnale di pausa. Le condizioni dell’economia americana peggiorano, ma l’Europa ha trovato incentivi per puntare sull’hitech israeliano. Nell’aula magna del Technion di Haifa (il prestigioso istituto di ricerca, fucina di premi Nobel) Zohar Zisapel illustra le strategie del gruppo. La parola d’ordine è unified communication, la comunicazione audiovideo più sofisticata. «La voce – dice il Gates israeliano – resta il principale strumento di comunicazione, ma niente come la possibilità di vedere in faccia la persona che ascolta aiuta a capirsi». La videoconferenza cederà il passo alla telepresenza. A costi accessibili, naturalmente.

sabato 19 gennaio 2008

I profeti della catastrofe sconfitti dagli ottimisti per contratto

DI ALBERTO STATERA


Il 2008 si apre con una crescente schiera di disastristi di ritorno, di declinisti resipiscenti, di antitarli della malinconia depressiva, di anticrepuscolari che non ne possono più di descrivere la nostra catastrofe quotidiana e, meritoriamente, vanno alla ricerca di ogni segnale di un latente nuovo Rinascimento. Tralasciamo Romano Prodi, Emma Bonino, Pierluigi Bersani e altri ottimisti per contratto, con relative illusioni rinascimentali. Andiamo invece un po' a scavare, sulla traccia di Marco Vitale, Alberto Quadrio Curzio, Marco Fortis e altri benemeriti, tra i luoghi comuni talvolta ingannevoli che nell'immaginario collettivo hanno fatto dell'Italia un paese per definizione con le stampelle, destinato ad arretrare non solo sotto la Spagna, ma anche sotto la Grecia, a perdersi forse appena un po' più a nord del Nord Africa. "Finiremo ultimi", ha proclamato Angelo Panebianco, grande esperto in luoghi comuni. Ma è proprio così?Prendiamo che so? la disoccupazione: se le ultime statistiche non ci ingannano, il nostro tasso è più basso di quelli di Francia e Germania. Vi par poco? O, se vogliamo stare alla minoranza "turboimprenditoriale", quella "vitale" che Giuseppe De Rita ha salvato, tonica, nell'Italia mucillaginosa, andiamo a vedere le nostre esportazioni: nel 2007 sono cresciute del 12% contro l'11% di quelle tedesche, il 3% delle spagnole, il 3% delle francesi, a fronte della frana del 14%di quelle britanniche. La Lega voleva far guerra a Pechino per le importazioni di tessili e scarpe in Italia. Ma sapete che succede? Che il 12,5% del nostro export tessileabbigliamento e il 10% di quello calzaturiero è diretto in Cina. L'Italia NordCentro ha esportato nel 2007 quanto l'intera Gran Bretagna, le cui statistiche, peraltro, ci collocano all'ottavo posto nel mondo per qualità della vita, contro il ventinovesimo assegnato allo stesso Regno Unito.Gli arcigni critici inglesi li vogliamo, ci servono, ci aiutano a guardarci dentro quando fanno le pulci al berlusconismo e anche al prodismo. Dio ce li salvi. Ma sapete che gli esperti anche britannici prevedono per quest'anno il peggior crollo della sterlina dal 1992 e una recessione da far paura? A Londra arriverà la tempesta americana, con le prime tre banche Usa che riveleranno i buchi dovuti ai mutui subprime e a tutta la spazzatura che hanno ingoiato. L'America ha già bruciato un trilione di dollari e il boccone dovrà adesso digerirlo Londra, dove la Confindustria locale prevede due shock convergenti: la crisi del credito e l'aumento del prezzo del petrolio.I guai degli altri non fanno il nostro bene, per carità. E poi dicono l'Italia sarà pure produttiva, ma ha la palla al piede di una politica (e di una burocrazia) debole, autoreferenziale, litigiosa, quando non corrotta, votata al potere più che al bene della Nazione. Vero. Ma non abbiamo forse appena assistito, su soggetto degno dei fratelli Vanzina, alle vacanze di Natale del nuovo e osannato premier francese Nicholas Sarkozy con la modella italiana a bordo del jet privato del finanziere Bollorè? Noi Berlusconi, il suo stile, il suo disprezzo per alcune regole anche formali di democrazia, l'abbiamo archiviato forse per sempre. Loro inaugurano adesso la stagione del Berlusarkozismo, che vedremo presto dove condurrà.Che il nostro paese si presenti malinconico al 2008 non sapremmo negarlo, anche se altri in Europa non stanno meglio di noi e in America anche peggio. In Italia i salari stagnano, i consumi di conseguenza, le aspettative sono tutt'altro che felici. Ma la malinconia depressiva di una nazione si vince anche con una comunicazione forte, convinta, credibile. Non con una rincorsa minimale a rintuzzare ogni alito soffiato, dentro e fuori, dai tanti menagramo.

venerdì 18 gennaio 2008

Riflessioni sulla capacità di competere

Nel XXI° secolo i vincitori saranno coloro che si terranno oltre la curva del cambiamento, ridefinendo continuamente l'approccio al settore in cui operano, creando nuovi mercati, tracciando nuove vie, reinventando se occorre le regole del gioco competitivo, del Business, mettendo in discussione gli status quo.

Occorre distaccarsi dal passato, la vita la si comprende guardando al passato, ma con la capacità di viverla nel futuro. Se ci leghiamo troppo al passato per creare il nostro futuro avremo quasi sicuramente grossi problemi. Difficilmente le soluzioni che ci hanno permesso di arrivare fin dove siamo, sono valide nuovamente per trovare soluzioni o mantenere semplicemente le posizioni.

Mettere in discussione e, spesso, rifiutare i vecchi modelli, i vecchi paradigmi, le vecchie regole, le vecchie strategie, i vecchi assunti o le vecchie "ricette" per il successo.
Occorre ricordarsi sempre che spesso migliorare ciò che facciamo ci permette solo di rimanere in gara, non certamente a vincere. Rimanere quindi in gara non è sufficiente, sopravanzare gli altri conservando poi il vantaggio deve essere la base di una strategia che vuol essere vincente. E penso che la strategia consista nel distinguersi dagli altri, dai concorrenti.
La cosa più difficile.

lunedì 14 gennaio 2008

Pensiero Zen

Chi è maestro nell'arte di vivere distingue poco tra il suo lavoro e il tempo libero, tra la sua mente e il suo corpo, la sua educazione e la sua ricreazione, il suo amore e la sua religione.
Con difficoltà sa cos'è cosa. Persegue semplicemente la sua visione dell'eccellenza in qualunque cosa egli faccia, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o giocando.
Lui pensa sempre di fare entrambe le cose insieme.

domenica 6 gennaio 2008

Quei dolci della Befana nati nella civiltà contadina


Quando già a Roma la nascita di Cristo si celebrava il 25 dicembre allo scopo di sostituire una precedente festa pagana dedicata al “Sole Invicto” (Solstizio Invernale), nella Chiesa d'Oriente si continuò per molto tempo a mantenere il 6 gennaio come data identificativa più importante. A questo proposito ricordo nitidamente che per tutti gli anni ’60 almeno, i regali più importanti per i bambini (quale io ero) si ricevevano per la Befana e non per Natale (molti ricorderanno che c’erano fin dagli anni ’20 “famose” Befane per “ceto lavorativo” destinate ai bambini).

Il 6 gennaio era stata scelta inizialmente perché non si conosceva la data del Redentore e quindi si era puntato su quella del suo battesimo nel Giordano che, essendo la prima manifestazione divina (in greco significa appunto epifania), diede anche il nome alla festa. In seguito, dal momento che nell'ambito della religione mitriaca il 6 gennaio si festeggia la venuta dei Magi (sacerdoti persiani), la Chiesa di Roma modificò il ciclo natalizio dedicando quel giorno all'adorazione dei Re Magi.
Befana: il suo nome è dovuto ad uno storpiamento del vocabolo Epifania e la sua figura è costituita da una vecchietta, brutta e rugosa, con naso aquilino da strega e con i vestiti vecchi e rattoppati, che la notte tra il 5 e il 6 gennaio, volando nel cielo a cavallo di una scopa, dispensa dolci e caramelle ai bambini buoni, mentre a quelli cattivi lascia carbone e cipolle rosse. La leggenda più accreditata sulla festa della Befana trova anch’essa la sua genesi nei riti pagani del folklore pre-cristiano, come le tradizioni propiziatorie agrarie legate all’inizio dell’anno. La vecchia simboleggiava infatti l’anno trascorso, al quale veniva dato l’addio bruciando sul rogo un fantoccio con abiti vecchi e strappati, dando così il benvenuto all’anno nuovo. I regali e i dolci erano simboli bene auguranti per l’anno nascente e quindi propiziatori per un ricco e abbondante raccolto.
La civiltà contadina e la cultura della terra sono l’anima del territorio romagnolo, e se i “mangiari”, l'arte di creare cibi (combinare i prodotti della terra e gli ingredienti, elaborarli creativamente, fino ad ottenere un prodotto diverso dalla loro somma) è la più antica forma di cultura popolare orale per eccellenza, la Romagna è una di quelle terre dove la storia delle tradizioni e delle memorie popolari combacia straordinariamente con la storia della sua cucina.

Il giorno della Befana i cibi importanti erano i dolci e quello più importante che ha fatto le veci in questa terra per tantissimo tempo, prima che arrivasse il panettone, era la ciambella romagnola (brazadèla o brazzadella) che chiudeva i ricchi pasti di queste feste, ancora oggi il dolce più caratteristico e gradito in Romagna. Con la ciambella l’altro pezzo forte era la zuppa inglese (che di inglese ha solo il nome), sempre presente un tempo in occasioni importanti che fossero pubbliche, private o religiose. Questo dolce che ha diverse varianti di ingredienti, dai liquori utilizzati (alchelmers, rosolio, ma anche cognac), col cioccolato, mandorle, pinoli e ciliegie sotto spirito fino alla base che varia dal pan di spagna ai savoiardi e amaretti.
Altri dolci del 6 gennaio erano i tortelli o ravioli con marmellata, castagne e saba anche fritti (naturalmente nello strutto). I “sùgal” (sughi) un altro dolce romagnolo antichissimo composto da mosto bollito, pane grattugiato, farina di granoturco, mela cotogna, buccia di limone e anice. Il sanguinaccio o migliaccio o “burleng” (da non confondere con “E’ bustrengh” altro dolce tipico, ma con farina bianca e gialla, pangrattato, zucchero, uova, latte e buccia di limone) fatto con il sangue di maiale e arricchito con moltissimi elementi quali ad esempio il cioccolato, le mandorle dolci, i canditi, la saba ed altro. Un dolce per me buonissimo, ma che, data l’origine, oggi poco proposto perché i “gusti” sono cambiati (salvo poi ingerire porcherie di altro genere di cui nulla si sa sulla esatta lavorazione dei componenti). In provincia di Ravenna poi c’erano (e ci sono ancora) “I sabadò” (tortelli con la sapa o saba) che contengo farina, fagioli lessi, castagne secche cotte, sale, saba e buccia di limone. In base alle località si potevano trovare anche budini vari (al ghiaccio, allo zabaglione, di riso, ecc.), latte alla portoghese, torta di mele e “E castagnaz” (in Appennino soprattutto) fatto con farina di castagne, buccia di limone e di arancia grattugiata, arricchito variamente con mandorle, pinoli, fichi secchi ed altro.

Sono tipici poi di questa festività anche il croccante, il torrone artigianale, gli zuccherini, la crema e il… carbone per i più cattivi (ma anche questo alla fine, dolce).

Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna

venerdì 4 gennaio 2008

Parole senza tempo

"Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario"

George Orwell

giovedì 3 gennaio 2008

Il "divin porcello" in Romagna



Da fine novembre (Sant’Andrea) a metà gennaio (il 17 è Sant’Antonio Abate) il protagonista nelle campagne, anche Romagnole, era ed è, là dove si mantiene viva una certa tradizione, il “divin porcello”, il maiale.
Considerato normalmente un animale sporco e sudicio, vietato in certe religioni e demonizzato dalle diete oggi per essere “sempre in forma” salvo poi soffrire ugualmente di extra-large, il maiale trova consolazione nella tradizione cristiana che gli ha dato anche un santo protettore: appunto Sant'Antonio Abate.

Da noi, in Romagna, era comunque considerato una "benedizione del Signore" o della provvidenza, anche dalle famiglie più atee e miscredenti. E il motivo di questa conversione temporanea era semplice: il maiale veniva allevato con gli avanzi di casa, con cibi poveri e forniva carne e salumi per l'intero anno.
Del maiale, si dice, "non si butta via niente". Fino agli anni ’50-60 è stato così, oggi è meglio dire che “non si buttava” quando c'erano i maiali buoni certamente, ma soprattutto quando c'era la fame con la "F" maiuscola. Cambiando le abitudini e l’alimentazione, ora si scarta molto di più e certi dettami della modernità hanno praticamente ucciso preparazioni indimenticabili come “e migliaz” (il migliaccio) dolce sanguinaccio romagnolo a base di sangue suino. Come di estinguersi corrono il rischio i maiali di razza romagnola.
La Mora Romagnola infatti è una razza suina che rischia l’estinzione (oggi sono circa 300 capi e un consorzio cerca di mantenere e aumentarne la produzione), una razza che un tempo era allevata nell'intera Romagna con prevalente diffusione nel Forlivese e nel Faentino.

Si può dire che il maiale in Romagna è rintracciabile non solo a cose legate alla cucina. Nelle parole ad esempio. In certe zone dell’appennino romagnolo i bambini venivano chiamati “ i ninè” che è lo stesso nome che si da al piccolo del maiale, ma non era usato in senso assolutamente offensivo. Probabilmente i bambini e i maialini erano comunque un segnale positivo della provvidenza… Ma pensate anche al detto “se sant’antonio u sé innamure in tu’n porz…” che è sempre stato il lasciapassare per qualsiasi commento su una coppia di persone che “la gente” di paese non approvava nella loro unione sentimentale.

Ma tornando al nostro maiale e al suo totale utilizzo ricordiamo cosa si produce dalla macellazione di questo animale: sangue per il migliaccio, ossa da cuocere e piluccare, strutto, salsicce, salami (in quelli “buoni” della tradizione si mette ancora il sangiovese dell’ultima vendemmia), capocollo, coppe, fegatelli, coppa di testa (dove finiscono testa, ossa, cotenne, orecchie, codino, zampetti...), guanciale, lardo, ciccioli, cotechini, pancetta (cotta all’alba con la piada fritta prima di andare nei campi), mortadelle, soppressate, lonzino, stinco, braciole, costolette, cotiche... fino ad arrivare al prosciutto, quello crudo. Il premio finale. L'ultimo a mangiarsi.
In tavola tutto questo si traduce in alcuni piatti tradizionali romagnoli dei quali vale la pena segnalare: i fegatelli con la rete e la salvia in graticola, i bruciatini di pancetta all’aceto (oggi solo balsamico, ma è un falso storico), l’arrosto di lombata, la polenta al ragù o alla salciccia, la porchetta, le bracioline, “e frizon” (il friggione) con la salciccia in alcune zone. Ma un ruolo molto importante, oggi ormai perduto se non in pochi “capisaldi” della ristorazione tradizionale era quello svolto dallo strutto.
Per friggere, conservare salsicce, fare la piadina, non solo un ingrediente, ma il simbolo di una civiltà gastronomica che fa da cerniera tra l’Italia del Nord che utilizza il burro e quella del sud che usa invece l’olio. Chi ricorda la differenza di sapore delle patate arrosto o fritte nello strutto, tagliate grosse con rosmarino e sale grosso ?

Lo strutto era utilizzato anche per certi dolci, come le castagnole, le sfrappole, per i soffritti in genere, per il salto in padella delle erbe di campo. Ricordo ancora mia madre che per lungo tempo lo ha utilizzato al posto della margarina (perché il burro per lei che aveva visto la Fame vera durante la guerra nell’appennino romagnolo, era troppo nobile) o certi parenti di mio padre, contadini, con cui da piccolo andavo a trovare che avevano sempre la padella nera vicino al fuoco con due dita di strutto pronti per i diversi momenti di alimentazione legati al ciclo di vita dei campi.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna sulla rivista "Civilità della Tavola" dell' Accademia Italiana della Cucina.

martedì 1 gennaio 2008

Capodanno in Romagna

In Romagna c’è sempre stata una cucina del territorio più che regionale, la Romagna (già citata da Dante nell’Inferno 37-54 che la definiva “tra ‘l Po, e l’monte e la marina e l’Reno” e il territorio compreso tra Montefeltro e Imola) quindi vive tra il cenone di Capodanno e il pranzo del primo dell’anno differenziandosi da comune a comune e da ceto sociale. Paradossalmente in una terra di “mangiapreti” fu lo Stato Pontificio il primo a definire la “Legazione di Romagna” e a creare una sorta di “status regionale”. Personalmente sono d’accordo con quanto affermò Cino Ricci tempo fa dicendo che “non si è Romagnoli per nascita, ma per orgoglio”.

Più cucine quindi diverse tradizioni, anche se varianti a volte di poco. Romagna terra contadina con alcuni “signori”, differenze che si notavano in tutto e quindi anche in tavola, in particolare nelle occasioni e nelle ricorrenze importanti.
All'inizio dell'anno, queste tradizioni hanno soprattutto l’obiettivo di assicurarsi l'abbondanza, il benessere e la felicità per l’intero anno. Ciò si ricerca anzitutto attraverso la scelta dei cibi e dei dolci, tipici di quel giorno.
I ceti più abbienti festeggiavano anche con il cenone di Capodanno e le tavole erano imbandite con la minestra di lenticchie, che secondo la tradizione popolare portano soldi, cotechino e dolci quali la zuppa inglese (che di inglese ha solo il nome) con il pan di Spagna o i savoiardi inzuppati di rosolio o alkermes, la inossidabile ciambella da sposare con il vino e i sabadoni, che ritroviamo anche nei pranzi del primo dell’anno. In tavola non poteva mancare l’uva in quanto cibo propiziatorio. L’ uva racchiude in sé la forza rigenerativa dei semi e della polpa capace nel magico processo fermentativo di cambiare essenza e di arricchirsi da se trasformandosi in vino. Per queste sue caratteristiche era usata come cibo rituale, anche l’uva passa, nella passaggio dell’anno per favorire la ricchezza e il guadagno.
La maggioranza della popolazione, contadini e braccianti, limitavano i festeggiamenti al pranzo del 1° gennaio con un menù che, con le varianti territoriali, si presentava con il piatto bandiera della Romagna: i passatelli. Rigorosamente in brodo (di carne nell’entroterra, di pesce sulla costa). In base alle possibilità erano fatti con il pangrattato oppure con formaggi fatti in casa (di pecora o misti), lasciati seccare su assi di legno e grattugiati alla bisogna. Con il passare del tempo e il diffondersi del benessere economico, negli ultimi venti-trent'anni si è virato decisamente all’utilizzo del parmigiano grattugiato. Completano poi la ricetta uova e noce moscata (alcuni mettevano la scorza di limone). Il brodo era insaporito con midollo di bue (a volte inserito anche nell’impasto), muscolo, rigata, osso di stinco ed eventualmente lingua, parti di gallina o oca, oppure con prevalenza di carne di “bassa macelleria”, con aggiunta di carote, sedano e, a volte, cipolla. Dagli anni ’60 compare anche la “forma” (la buccia del parmigiano) che viene poi servita come secondo e contorno unitamente a tutti gli altri prodotti rimanenti dalla bollitura del brodo. Per insaporire ulteriormente il brodo e i passatelli, una volta serviti, ricordo che mio nonno, ma è un gesto che ho visto fare da altre persone di quella generazione, mettevano un cucchiaio di Sangiovese, a testimoniare il forte legame che questa terra ha sempre avuto con il vino (tutti sapranno la differenza tra Emilia e Romagna…), “e bé” (il bere) non è l’acqua in Romagna, ma il vino.
La minestra che poteva sostituire i passatelli in questo giorno erano le lasagne verdi alla romagnola, anche questo un piatto che, per ricchezza di ingredienti, voleva essere di buon auspicio per un anno di abbondanza.
Un altro elemento propiziatorio è dato dalle strenne: ricevere molti regali, accumulerà l'abbondanza per tutto l'anno. L'uso presso i romani si chiamava “streniarum commercium”.
In Romagna, nella ricorrenza del Capodanno, si ha il principio dell'analogia e del contrasto, dove i contadini dicono che “bisogna fare un poco di tutti i lavori perché cosi vanno a riuscire tutti bene”.
Ancora oggi in molte famiglie, il primo dell’anno, si fanno tutte quelle attività che si vorrebbe fare o che andassero bene per tutto il resto dell’anno. L’anno inoltre si apre positivamente se, il 1° gennaio, si incrocia, come prima persona, un uomo, ancor meglio se benestante. Incontrare una donna o, peggio, ospitarla in casa, è considerato di cattivo auspicio. Ricordo che mia madre mi mandava al mattino presto, da mia nonna come “messaggero” di buon augurio. Lo facevo volentieri anche perché non mancava mai un soldino di ricompensa.
Ancora oggi, anche se la cosa si sta perdendo per ovvie ragioni, sono molti gli anziani convinti che le donne, il primo dell’anno, portino disgrazia. Ci sono anche donne che non escono di casa in questo giorno e non rispondono neppure al telefono per non “portare male”.
Sacro e profano da sempre si intrecciano in questa terra anarchica, repubblicana e socialista.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna .

Sulla Politica

"La vicenda politica che si è aperta e gli anni che vengono richiedono fantasia. Questa nuova politica pretende risolutezza e movimento: nessuno di noi si scopra sconsolatamente affezionato ai cocci di vecchi idoli infranti."

Nino Andreatta