lunedì 31 dicembre 2012

Cucinelli “I nuovi mercati sognano l’Italia. Per questo abbiamo un futuro d’oro”

La sua azienda è stata l’unica a quotarsi alla Borsa di Milano nel 2012. Un record impreziosito dall’andamento del titolo: il 27 aprile le azioni Brunello Cucinelli hanno debuttato a 7,75 euro, oggi viaggiano stabilmente sopra i 13. D’altronde, il fatturato di questa impresa nata da un’intuizione nel 1978 - colorare i pullover in cashmere - è cresciuto costantemente in doppia cifra, anche in questi anni di recessione, passando dai 120 milioni del 2007 ai 280 attesi quest’anno, con utili superiori ai 20 milioni a fine 2011. Al punto che l’imprenditore umbro ha deciso di regalare un premio extra di cinque milioni ai suoi 783 dipendenti, poco più di 6 mila euro a testa distribuiti alla vigilia di Natale.

Un successo imprenditoriale, insomma. Eppure, durante un colloquio di oltre un’ora per preparare questa intervista, Brunello Cucinelli ha raccontato la storia sua e della sua azienda senza pronunciare mai - mai - espressioni come «budget», «Ebitda» o «tassi di interesse». Ha invece parlato di umanesimo e di moralità, del suo sogno di diventare un monaco, di Socrate e della passione per l’imperatore Marco Aurelio («Un genio dell’umanità»), dell’importanza di vivere in un borgo umbro del Trecento - Solomeo - che ha restaurato e in cui ha sede l’azienda o delle regole organizzative che si è dato (alle 18 gli uffici chiudono, anche per il titolare, e si fa altro).

Ancora, ha raccontato l’amore per le camminate in solitudine nei boschi, «da cui ritorno ubriaco di bei pensieri», o il piacere di prendere appunti - «due pagine fitte fitte» - ascoltando Roberto Benigni parlare della Costituzione in televisione.
Ragionamenti e suggestioni che si ancorano però ad alcune certezze. La prima, di non essere un romantico visionario, a dispetto dell’originalità dell’approccio agli affari rispetto a tanti colleghi; e i risultati, rileva, sono lì a dimostrarlo. La seconda, di credere che l’Italia non solo riuscirà a superare questa crisi terribile, ma che avrà davanti a sé uno sviluppo inatteso, un «nuovo Rinascimento» grazie alla fame che i nuovi mercati mondiali hanno dei nostri prodotti.

È una filosofia di vita e di impresa che Cucinelli - 59 anni, sposato, due figlie che lavorano con lui - sviluppa attraverso alcune parole-chiave. Eccole.

Dignità
«Ho investito tutto nella dignità dell’essere umano. Se devo dire un segreto per la mia attività, parto da qui. Ho sempre pensato che l’essere umano che lavora in condizioni migliori è più creativo, geniale, ha un livello di responsabilità altissimo. Io vengo da una famiglia di contadini, ho visto mio padre soffrire quando ha lasciato i campi per lavorare in fabbrica, dove si sentiva umiliato, offeso. Non si lamentava dello stipendio, ma di come veniva trattato. E io mi sono detto - avrò avuto 15 o 16 anni - che quello che avrei fatto nella vita, l’avrei realizzato rispettando l’essere umano. Il premio dato a Natale ai dipendenti è un segno di ringraziamento per questi 34 anni insieme. Ma poiché siamo un’azienda quotata, è giusto spiegare che è stata un’elargizione fatta dalla mia famiglia, privata».

Regole
«Nel costruire la mia impresa mi sono ispirato ad alcune regole. Si entra alle 8 e siamo tutti puntuali, ma nessuno lavora dopo le 18. E non è che io vado a casa e mi metto al computer. Anzi, se non devo uscire, magari resto davanti al fuoco a pensare. Nel mio lavoro ho preso a esempio la cultura di San Benedetto, laddove dice di essere rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre. Dice anche “cura la mente con lo studio, l’anima con la preghiera e il lavoro”. Ecco, io credo che dobbiamo tornare a fare una vita più umana, in cui lavoro, studio e preghiera siano ben bilanciati».

Fascino
«Stiamo continuando a crescere, sì, siamo un’azienda internazionale, esportiamo quasi l’80% dei nostri prodotti. Io, che sognavo di fare il monaco, oggi vivo quasi tre mesi l’anno all’estero, e vi assicuro che c’è un mondo intero, un nuovo mondo, che è affascinato dall’Italia, dai nostri manufatti, dalla nostra bellezza, cultura, unicità. Non esiste un solo cinese che non abbia il sogno di conoscere noi e i nostri prodotti. È ancora un valore essere un’azienda italiana, e poiché siamo sempre la seconda manifattura d’Europa e abbiamo industrie solide e competenze riconosciute, non ho dubbi che il nostro modello di business abbia un futuro».

Rinascimento
«No, non esagero a dire che ci aspetta un secolo d’oro, una nuova primavera, un secondo Rinascimento. C’è un bel momento, intorno al 1535, quando i mercanti tornano dall’America e portano pomodoro, mais e patate e sconvolgono i sistemi di produzione europea. Mi sembra simile alla fase che viviamo oggi, no? Ci sono nuovi mondi che sono arrivati con i loro prodotti e stanno cambiando l’umanità, ma in questo progetto noi siamo al centro, perché per questi popoli noi siamo un punto di riferimento. Quindi è vero che nel breve periodo avremo ancora difficoltà, ci saranno problemi di disoccupazione, ma se guardo a lungo termine vedo che il meglio per il Paese deve ancora arrivare. Certo, dobbiamo essere rigorosi con noi stessi e capire se un’impresa deve cambiare strada rispetto al passato. Come ha detto il ministro Passera, non bisogna più vedere il fallimento di un’azienda come una vergogna, ma come un passaggio a volte necessario per intraprendere una nuova avventura».

Formula
«Non creda che la formula d’impresa che ho realizzato valga solo perché ho un’azienda d’abbigliamento che lavora con il cashmere. Certo, se la nostra sede sorgesse in una zona industriale, avremmo un po’ meno fascino, perché il borgo medievale, il teatro, l’accademia, la biblioteca, beh..., contribuiscono a creare un ambiente particolare. Ma il modello è replicabile, nel mondo del lusso come nell’industria pesante, perché l’essere umano ha gli stessi sentimenti, dal Bangladesh a Perugia».

Coscienza
«Negli ultimi due-tre mesi vedo emergere i segni di una nuova presa di coscienza umana, civile, morale nel nostro Paese. C’è una diversa consapevolezza della realtà e del futuro. Le racconto un episodio. Ogni due mesi facciamo un’assemblea con i dipendenti, analizziamo la situazione, discutiamo di strategie. Nell’ultima, ho detto ai ragazzi: mi raccomando, cerchiamo di essere molto speciali, di risparmiare qualcosa per un amico che ha perso il lavoro, ma continuiamo a credere che possiamo vivere un anno speciale. E ho visto molti con gli occhi lucidi, convinti che siamo ancora una nazione seria, con uomini seri, che non dobbiamo avere paura. Ho visto prima mio nonno, poi mio padre, soffrire la fame, patire la guerra e la dittatura. Come facciamo noi ad avere paura? Oggi vediamo il mondo cambiare, aprirsi, dobbiamo tornare a credere nei grandi ideali».

Artigiani
«Fino a un paio di anni fa una giovane si vergognava di ammettere che faceva la sarta. Oggi non è più così. Sta cambiando la percezione. Io credo fermamente nella grandissima artigianalità italiana, nel valore di produrre tutto qui con artigiani che siano contemporanei, creativi, innovativi. C’è poi il discorso economico. Sapere di cominciare un lavoro per circa 1000 euro al mese, con la prospettiva di arrivare a 1250 dopo otto anni, ecco..., dobbiamo cambiare qualcosa. Un prodotto che esce da noi a 350 euro e arriva in negozio a 1000, ha diciamo 70 euro di manualità vera. Se noi ne diamo 90, non pregiudica nulla dell’attività, ma abbiamo trovato il modo di riconoscere qualcosa di più a persone che sono la nostra fonte di vita e la nostra cultura. Così nasce la decisione di retribuire i dipendenti con il 20% in più rispetto al contratto».

Umanesimo
«No, non credo ci sia contraddizione tra parlare di morale ed etica nel lavoro e prodotti venduti a 1000 euro. Vorrei che mi dicessero che i nostri prodotti sono costosi, sì, ma non cari. Se sono costosi, si riconosce l’opera di chi li ha lavorati, se sono cari allora qualcuno ne ha approfittato. Vorrei che chi compra i nostri articoli sapesse che cerchiamo di fare un profitto sano, garbato, senza cercare di recar danni a nessuno. Sono convinto che stia nascendo una forma di capitalismo contemporaneo, che io chiamo umanistico, in cui le persone che lavorano con me sanno tutto di me, sanno come la penso e dove vado in vacanza, perché l’unico modo per essere credibili, oggi, è essere veri. Ripeto spesso che mi sento custode della mia azienda, con l’impegno di farla crescere e donarla a chi verrà dopo. È un principio che ho imparato da Marco Aurelio, “vivi come fosse l’ultimo giorno, progetta come se avessi davanti l’eternità”».

Politica
«Sono affascinato dalla politica, la rispetto, discuto, parlo di politica anche con i miei dipendenti, ma no, non mi candido a nulla. Ricorda Socrate? C’era un poeta capace, che voleva fare il politico e alla fine non riuscì a far bene il politico e neppure più il poeta... Ecco, io faccio solo l’industriale artigiano. Sono di formazione socialista, forse più correttamente direi socialdemocratica. Di recente ho visto una bella politica con l’esperienza delle primarie del Pd. Renzi? Ha restituito alla politica sogno e garbo, tranne che per quella espressione, “rottamare”, sarebbe servito un termine meno duro. Le dico però che avrei votato anche alle primarie del Pdl, se le avessero fatte».

Luca Ubaldeschi - La Stampa

Una riflessione nel fine anno


Arrivati ad un nuovo fine anno é normale fare bilanci su se stessi. 
Chiedersi se è stato un anno positivo o negativo, se si è stati capaci di sfruttare fino in fondo le opportunità.

Quando mi interrogo su questo provo sensazioni contrastanti. Da un certo punto di vista sento che ho compiuto passi sul cammino della consapevolezza e della crescita professionale, ma avverto anche sensazioni meno positive. Da uomo del dubbio mi chiedo se non sono troppo indulgente nei miei confronti, se veramente ho fatto tutto quello che potevo, se mi sono impegnato a fondo come dovrei. Allo stesso tempo sopraggiungono pensieri che mi portano a riflettere sul fatto che ho lavorato a lungo su tante cose e non tutte possono sempre riuscire al massimo.

In fondo la vita non è mai come te l’aspetti. 
L'imprevisto o l'opportunità sono sempre dietro l'angolo. E non è neppure così importante sapere sempre dove stai andando, ma lo è conoscere il percorso che fai e che vivi ogni momento, con passione e coraggio. 
Perché quando meno te lo aspetti, potrebbe capitare qualcosa di bello, di inaspettato, di impensabile fino a poco tempo prima, più importante di quello che avevi immaginato per te.

Appio Claudio diceva che siamo gli artefici del nostro destino ed è importante, soprattutto in un periodo così pieno di incertezze, afferrare con decisione le occasioni e trasformarle in opportunità. 
Questo è il vero obiettivo che possiamo darci in questi anni di grandi cambiamenti e difficoltà. 

Quindi mantenere lo sguardo alto, lavorare su se stessi, non temere il cambiamento, ricercare continuamente il nostro percorso, mai mollare e cogliere l'attimo, l'opportunità.


Insomma... Ad Maiora !

venerdì 28 dicembre 2012

Socrate in cashmere

Ad ascoltare Brunello Cucinelli parlare di sé e della sua azienda, si resta storditi dalla mole di citazioni che punteggiano ogni argomento. L'imprenditore del cashmere più chic del mondo dichiara impavidamente di camminare nel solco tracciato dai grandi uomini del passato. Come Platone intende «rispettare sempre le regole», come Alessandro vuole muoversi «verso nuovi confini», come Adriano si sente «responsabile delle bellezze del mondo», come San Benedetto cerca di essere «esigente maestro e amabile padre», come Lorenzo il Magnifico propone l'idea che «lavorare con le mani è da grandi artisti»...

Ma a visitare Solomeo, il piccolo borgo medievale vicino a Perugia che Cucinelli ha quasi interamente acquistato e dove ha insediato la sua casa, la sua impresa, gli uffici, i laboratori, la show room, il ristorante, il teatro (dove ha appena ospitato Matteo Renzi), l'accademia, la biblioteca, si finisce per credere che questo imprenditore-filosofo vada realizzando davvero, con i mezzi e i modi del XXI secolo, una sua particolare utopia. Reduce dalle acclamate sfilate di Milano moda, accompagnato da clamorosi exploit di Borsa e dagli articoli celebrativi dei più importanti giornali del mondo (il 'New Yorker' gli ha recentemente dedicato dieci pagine), Cucinelli non risparmia energie per divulgare la sua formula di capitalismo dal volto umano.
In tempo di crisi globale lei moltiplica traguardi imprenditoriali e successi di immagine. Qual è il suo segreto?
«Cercare di realizzare un profitto garbato, vale a dire fare impresa recando il minor danno possibile all'umanità».
Come si fa?
«Restituendo dignità morale ed economica al lavoro. Non sono parole al vento, ma criteri precisi. Io divido i profitti in quattro parti: la prima resta all'impresa, la seconda va alla mia famiglia, la terza alle persone che lavorano con me, la quarta è destinata ad abbellire il mondo, sia aiutando chi è in difficoltà, sia edificando una chiesa o un teatro».

E la sua personale ambizione? Non si arriva così in alto senza metterla in campo.
«Va considerato che io non mi sento proprietario di quanto ho costruito, ma un semplice custode. Ho soprattutto cercato di edificare qualcosa di speciale in un ambiente umano ed esteticamente alto. Qui non si timbra il cartellino e ognuno distribuisce l'orario di lavoro come preferisce. A pranzo si va a mangiare nella propria casa o nel nostro ristorante con tavola apparecchiata e piatti caldi. Alla sera, alle sei, si stacca, perché voglio che tutti tornino in famiglia e abbiano il tempo di ristorare l'anima con i propri affetti».
Sembra un falansterio senza regole.

«Tutt'altro. Le regole sono benedettine, molto rigorose e valgono per tutti, me compreso. Per essere credibili bisogna essere veri e, come Giulio Cesare, 'dormire nello stesso tipo di letto dei soldati'. Una volta la vita di un datore di lavoro era inaccessibile e misteriosa, oggi non più. E' per questo che ho deciso che ogni giovane che viene a lavorare il nostro cashmere sappia tutto di me e della mia famiglia».
E come comincia la sua storia?
«Tenendo dritto un aratro».
E' una metafora della tenuta morale?
«Ma è stata anche la realtà della mia infanzia. Fino a 15 anni ho fatto il contadino ed ero il più bravo della famiglia a fare solchi dritti perché a differenza di tutti non seguivo la coppia di vacche, ma la trainavo dal davanti. Ho continuato con lo stesso metodo».
Ha sofferto la povertà?
«No, nella nostra grande famiglia, composta da 27 persone, tra nonni, zii e cugini, non c'era bisogno di molto. Vivevamo della nostra parte di raccolto, perché la metà andava al padrone, e seguivamo il ritmo delle stagioni. Lì, nella vita contadina, ho imparato a emozionarmi per 'il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me'. Più tardi ho letto Kant e ho capito il valore universale di quel sentimento. Ma anche sentimenti meno alti mi sono stati di aiuto».
Quali?
«L'umiliazione, ad esempio. L'ho vista negli occhi lucidi di mio padre quando lasciò la terra per fare l'operaio: il sogno di una vita. Lavorava duro e bene, scoprì però che la sua dignità poteva essere calpestata da un rimprovero volgare. Se dai del coglione a un contadino che non ha studiato, lo uccidi».

Lei sta dicendo che non ha ritenuto emancipatorio il passaggio dall'agricoltura all'industria e ha cercato una sintesi?
«Di più, sono voluto tornare indietro. Mi sono ispirato al babbo e mi sono chiesto: di che ha bisogno l'uomo forse anche prima del pane? La risposta è: rispetto e dignità».
Cucinelli, lei oggi, a 59 anni, ha un'impresa da 280 milioni di ricavo. Ci sarà stato anche dell'altro.
«Intanto, una giovinezza oziosa al bar: la mia grande scuola di vita, il mio ateneo. Ho passato anni a discutere fino a notte fonda di teologia, religione, donne, economia e soprattutto politica.

C'erano tante persone diverse, dall'industriale, al notaio, il calzolaio, la prostituta che arrivava a fine lavoro. In piccolo riproducevamo Eraclito e l'importanza di Polemos. Poi, un giorno, a 25 anni, ho avuto una folgorazione».
Che cosa ha pensato?
«Semplicemente di colorare il cashmere, che fino ad allora era stato solo maschile e in tinte neutre. Frequentavo il piccolo negozio di abbigliamento della mia fidanzata, che poco dopo sarebbe diventata mia moglie, e avevo notato il successo dei pullover Benetton di shetland colorato. Cominciai a produrre poche decine di pezzi e a venderli in Trentino Alto Adige perché lì c'erano gli unici che pagavano a trenta giorni. Sono ancora miei clienti».

Ora però è il re indiscusso del lusso. Non avverte uno stridore tra i suoi principi etici e i prezzi, inavvicinabili per un comune mortale, dei suoi prodotti?
«No, perché è stata una scelta. Le cose belle costano. Se lei vuole un buonissimo champagne, è inutile nasconderselo, deve comprarlo francese; se vuole un bellissimo orologio, lo prende svizzero. C'è un mondo intero che chiede prodotti di lusso italiani e io sostengo la creatività e la manualità italiana che, come è noto, costa moltissimo. Semmai il problema etico si pone con un vestito che costa troppo poco».
Perché?
«Perché lì c'è sfruttamento, dolore. La differenza non è tra prodotti di lusso ed economici, ma se è stato prodotto recando o meno danno all'uomo. Giorni fa mia figlia ventenne mi ha emozionato dicendomi: 'A Milano, in un posto costoso, ho visto un vestito a 18 euro. Quanto gli avranno dato alla persona che lo ha cucito?'».
Lei quanto dà?
«Almeno il 20 per cento più della media. E' proprio il mercato del lusso che me lo permette. Ma il problema non è tanto il salario, quanto la difficoltà di trovare giovani che si appassionino davvero a un lavoro fatto di alta manualità. Immagini una discoteca, con un ragazzo che chiede a una coetanea: 'Che mestiere fai?'. Lei non confesserà mai che fa la sarta, magari inventerà di stare in un call center, perché si vergogna di dire che fa un lavoro con le mani. Questa è la verità. Noi, anche come Paese, dobbiamo ridare dignità al lavoro».

Ha mai pensato di farlo occupandosi di politica?
«Mai, non fa per me. La penso come Socrate che dice: 'Ho conosciuto un poeta. Si è messo in politica e ha rovinato la poesia e la politica'. Ma continuo a leggere i testi che contano. Recentemente ho ripreso in mano 'La storia mi assolverà' di Fidel Castro e l'ho letto a voce alta a mia figlia e due sue amiche ventenni. Le ho commosse. Inoltre discuto spesso di politica nei cenacoli che organizzo con gli amici di sempre e, da vecchio socialista, riesco ancora ad emozionarni a proposte di vero rinnovamento».
Ne sa indicare qualcuna?
«A suo tempo rimasi abbagliato dal discorso su 'La bella politica' di Veltroni, per il garbo con cui la presentava. Alternava due minuti in cui parlava lui con due minuti di Socrate, Platone, Luther King, Charlie Chaplin, Sacco e Vanzetti. A Natale di quell'anno ho ordinato 800 copie del Dvd e le ho donate a tutti i dipendenti».

Lo rifarebbe?
«Oggi è tutto diverso. Non c'è più una bussola. Io e i miei amici, di destra e di sinistra, aspettiamo solo che si presenti un uomo credibile, uno come Obama, che è un genio dell'umanità. Ultimamente gli ho fatto fare un busto in marmo e l'ho messo nel mio pantheon, tra Federico II e Costantino».
Ora guardi insieme a noi il futuro. Vede un'uscita dalla crisi?
«E' un momento difficile dal punto di vista economico, civile e morale, ma in qualche maniera stiamo riprogettando l'umanità. Sono arrivati popoli nuovi che stanno ridisegnando il mondo. Sarà migliore se riusciremo a governarlo non più solo con la mente, ma anche con il cuore. E io imploro, come Erasmo nel 530 quando vide i mercanti che riportavano patate e mais dall'America: 'Oh signore, fammi vivere altri vent'anni perché sta arrivando il secolo d'oro'».

Stefania Rossini - L'Espresso

mercoledì 26 dicembre 2012

Finanza 3.0 la bisca degli algoritmi


La Finanza 3.0 è già qui, elusiva e pervasiva come una dimensione parallela alla Matrix. Esito estremo della rivoluzione informatica sulle Borse, fa scorrere in chilometri di fibre ottiche transazioni incessanti, velocissime e anonime (high- frequency trading o Hft), spostando milioni di dollari in un millisecondo, cioè in un intervallo di tempo 200 volte più rapido della velocità media di un pensiero umano.
Create da società di cui si servono investitori/ speculatori di ogni stazza, grandi banche in testa (da Credit Suisse a Goldman Sachs, da Ubs a Morgan Stanley) e attive su ogni prodotto deimercati (dalle azioni ai derivati), le Hft sono guidate da algoritmi sempre più sofisticati, plastici e aggressivi, e si muovono fuori dai radar istituzionali, all’interno di dark pools («vasche oscure», o «bacini») dislocate in una vera Borsa-ombra. Secondo gli apologeti — molti trader e turboliberisti — una simile finanza porta solo vantaggi (meno costi, più efficienza e liquidità infinita); secondo i critici — tra cui molti artefici disillusi delle Hft — siamo in presenza di un’alterazione profonda del mercato; alterazione che sarebbe, per vetero o neomarxisti, solo la prova ulteriore della distruttività intrinseca del Capitale. Per sondare le ragioni degli uni e degli altri (e il loro sovrapporsi) può aiutare un libro del reporter finanziario del «Wall Street Journal» Scott Patterson, intitolato proprio Dark Pools (Crown Business, pp. 368, $ 27), che innesca insieme fascinazione e inquietudine.
Ripercorrendo la lunga genesi della Finanza 3.0, Patterson ne ricostruisce le due sequenze-chiave. La prima ci portaametà anni Ottanta, in piena Reaganomics, e a Joshua Levine, il più geniale nerd del settore. A scoprirlo è Sheldon Mashler, boss di una discussa società, la Datek, nota per l’impiego del Soes (Small Orders Executions System), sistema di transazioni senza telefono che si svolgono in una virtuale «sala privata» del Nasdaq (la Borsa elettronica creata nel 1971, stesso anno della Datek) e ricorrono allo scalping, tecnica che assembla micro-profitti su ogni azione (la cui somma dà profitti ingenti). Di fatto, gli embrioni delle dark pools e di certe tecniche Hft. Dal Soes, Levine concepisce diversi programmi- spartiacque, fondati su algoritmi «attivi», capaci di «fiutare» le fluttuazioni di prezzo e comprare/vendere in anticipo sugli altri operatori; e soprattutto (siamo a metà anni Novanta) disegna The Island («L’isola»), concepita come lit pool («vasca illuminata» di transazioni automatiche), ma che si trasforma presto nella principale antagonista di Instinet (la prima dark pool), riempiendosi di trading-piranha di ogni tipo.
La seconda sequenza ha come protagonista principale Jerry Putnam, altro utopista della trasparenza «tradito», che nel 1999 lancia «Archipelago», un programma nato per far interagire tra loro proprio bacini come Island o Istinet, ma che ne diventa a sua volta concorrente, in uno scontro simile a quello che si vedrà nei social network. È in questa fase che la finanza informatizzata giunge a maturazione, arrivando proprio con Archipelago (in sinergia con Goldman Sachs) alla piazza del «Big Board», la Borsa di New York, e alle grandi majors, fino a quel momento più legate agli investimenti istituzionali. Da un lato, iniziano così le Algo Wars, con i vecchi algoritmi- paramecio (programmati come cellule per operazioni basiche) che evolvono in tessuti o «bestie» mutanti, in grado di apprendere e anticipare ogni variazione del mercato e degli altri algoritmi, imitando le reti neurali, le logiche fuzzy (le «sfumature» del pensiero) e la selezione naturale (come quelli usati da Peter Jackson per gli stuntmen virtuali scagliati in aria nelle scene di battaglia del film Il ritorno del re). Dall’altro — con altre società come la Tradebot di Dave Cummings o la potente Getco — si affinano le tecniche delle Hft, tutte tese amuoversi plasticamente tra mercati «in chiaro» e dark pools, facendo apparire e sparire le informazioni. Alla base c’è il latency arbitrage, che permette di entrare nelle oscillazioni di prezzo tra i due livelli, sfruttando per esempio la lentezza con cui il sistema Sip porta le informazioni dal Nasdaq alle dark pools: mentre viaggia un’informazione (un incremento, poniamo, dell’azione Intel da $ 20 a $ 20.02), predatori come Tradebot si inseriscono leggendola in anticipo, comprando l’azione prima che slitti nella dark pool e rivendendola subito con un guadagno di due centesimi (micro-profitto da scalping classico, da assommarsi poi a milioni di altri). E così è per altre tecniche come il layering, emissioni retrattili di «ordini fantasma», cancellati in un millisecondo per gonfiare/sgonfiare la domanda su una società quotata e specularvi.
Dopo il Flash Crash del 6 maggio 2010 (quando, per un malfunzionamento di certe macchine, l’indice Dow Jones crolla in pochi minuti di 700 punti), molti programmatori (come un altro fuoriclasse, Haim Bodek) sembrano meditare sul disastro; e lo stesso Patterson non vede più sacche di dark pools in un mercato più o meno bilanciato,ma l’intero mercato mostrificato in un’unica, diffusa dark pool, popolata di slot-machine e pokeristi. Eppure, mentre il volume di trading «alternativo» è cresciuto dal 15 del 2008 all’attuale 40 per cento, aumentando le difficoltà dei regolatori — dalla Sec americana al Mifid II di Bruxelles alla nostra Consob — già si profilano ulteriori salti per le Hft: un hardware più potente con raffreddamento ad azoto liquido (come nel Detonator di Hardcore Computer); algoritmi veloci al parossismo (quello della londinese Fixnetix che opera in picosecondi, cioè un millesimo di nanosecondo, che è a sua volta già un miliardesimo di secondo); e nuove estensioni di fibre ottiche (quella transoceanica tra New York e Londra progettata dalla Hibernia Atlantic) lanciate suimercati globali, specie verso l’Est asiatico.
È una tendenza segnata, che porterà a una competizione all’ultimo sangue (a una distruzione noncreatrice), sull’onda di algoritmi come il Disruptor della Nanex, che ha devastato il mercato «per eccesso di ordini»? Forse no, non del tutto. Non è impensabile, ad esempio, separare le Borse «casinò» dai mercati trasparenti, un po’ come il Glass-Steagall Act rooseveltiano separava banche commerciali e banche di investimento, il credito dal rischio. Anche se, come s’è visto, la fortuna delle Hft e delle dark pools si fonda proprio sullo slittamento anfibio tra il trasparente e il criptato.
Ma se una correzione consistente della tendenza è utopica, ci venga almeno risparmiata la sua difesa ideologica camuffata da neutralità tecnica: la dimensione Matrix delle Hft si traduce, scorrendo nelle fibre ottiche, in quella desolata di tante solitudini e disperazioni, il cui riscatto non può essere delegato solo a un film di Aki Kaurismäki o dei fratelli Dardenne.

Sandro Modeo - Corriere della sera - Lettura

giovedì 20 dicembre 2012

Lavoro e crescita

Il lavoro non mi piace, non piace a nessuno, ma a me piace quello che c'è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi.

Joseph Conrad

Le persone che investono nello sviluppo del loro talento invece di correggere le loro mancanze hanno moltissimo potenziale di crescita in più.

Tom Rath

La felicità più grande risiede nel praticare un talento che fa parte della nostra natura.

Johann Goethe

mercoledì 19 dicembre 2012

Ogni crisi è un'opportunità

Senza crisi non ci sono sfide,
Senza sfide la vita è una routine.
È nella crisi che emerge il meglio di ognuno,
perchè senza crisi tutti i venti sono lievi brezze.

A.Einstein

Non avere rimpianti

Per cogliere l'attimo occorre non avere rimpianti. I rimpianti sono zavorre che ci tengono legati al passato quando invece occorre andare avanti.
Il passato è passato e non possiamo cambiarlo. Se commettiamo uno sbaglio, non vale la pena rimpiangerlo.
Bisogna procedere oltre.

domenica 16 dicembre 2012

Uomo del dubbio

A volte mi chiedo cosa sarà la mia vita...
A volte mi chiedo se sto percorrendo la giusta strada...
A volte mi chiedo se ha senso ciò che faccio...
A volte mi chiedo cosa potrei fare ancora o di diverso...

mercoledì 12 dicembre 2012

L'etica che serve al mercato

Il brano che segue è un estratto dell'intervista realizzata da Andrea Scazzola a Nino Andreatta per la trasmissione radiofonica Lo specchio del cielo, autoritratti segreti prima di un altro lunedì, e trasmessa da RadioDue il 14 giugno 1992. La versione integrale è pubblicata nel prossimo numero della rivista Arel.

Professor Andreatta, so che nella sua decisione di occuparsi di economia ha avuto un certo peso un episodio dell'infanzia legato all'attività di suo padre, banchiere, a Trento. È così?
Sì, è così. La mia infanzia è legata a epoche difficili, sia sul piano della politica, della pace e della guerra, sia sul piano delle vicende economiche. L'episodio al quale lei si riferisce è forse la prima immagine vivida nella mia memoria ed è accaduto all'inizio del 1933. In tutto il mondo c'era una crisi bancaria, migliaia di banche fallivano. La banca che dirigeva mio padre si trovava nella piazza centrale della mia città e la mia famiglia abitava nell'ultimo piano del palazzo. Anche quella banca ebbe difficoltà e, esaurita la liquidità, chiuse gli sportelli. Si formò una lunga fila di depositanti che speravano di poter cambiare in contante i loro depositi. Fui mandato a casa dei nonni nel timore che, come era accaduto in altre parti del mondo, la rabbia dei clienti delusi potesse provocare tentativi di invasione, o magari di incendio del palazzo (…)

Dopo l'Università cattolica lei è andato a studiare in Inghilterra, a Cambridge, tempio dell'economia keynesiana. Qual è la differenza che l'ha maggiormente colpita tra il mondo anglosassone e la società italiana?
Le grandi università inglesi creano un mondo fittizio, un mondo con un forte senso di appartenenza, dove il rituale è importante, dove la concorrenza - data anche la presenza di una facoltà numerosa - è molto forte. Questo meraviglioso isolamento accademico e contemporaneamente questa attenzione, senza troppi rapporti con la politica del paese in senso pratico, ma invece presente nelle discussioni, negli schemi mentali della gente, mi provocarono anche un lancinante senso della rottura della sintesi tra la vita di ogni giorno e l'esperienza religiosa.(…)

Tornato in Italia, ha vinto la cattedra universitaria e forse allora non pensava alla politica. Come si è sviluppato negli anni il suo rapporto con la politica?
C'era stato questo forte accostamento giovanile alla politica e poi, di fronte allo sfascio pratico dell'esperienza dossettiana, un rientro, un abbandono. Ma prima della cattedra ci fu un lungo anno di lavoro in India. Era l'anno in cui mi sposai, andai con mia moglie in India cogliendo l'occasione di un invito che mi aveva fatto Rosenstein-Rodan, un professore del Mit, di partecipare a un gruppo di quattro-cinque studiosi europei e americani che assistevano alla Planning Commission indiana. (…)

È stato un anno importante, che mi ha lasciato nel fondo del cuore il desiderio di ritornare, magari da vecchio, come oggi sono, a trovarsi sulla frontiera dei problemi che contano, dove le decisioni, i consigli, possono avere degli effetti importanti. (…)

Quanto è stata importante la figura di Moro nel suo itinerario politico?
Con Moro i rapporti erano di timidezza tra professionisti in campi diversi e quindi credo che non gli piacessero le mie ricette, anche se condivideva i valori che portavano a quelle ricette. Tuttavia c'era in Moro, nella sua cultura meridionale, un atteggiamento favorevole ai processi spontanei. Nonostante i suoi discorsi sulla programmazione, c'era quel buon senso quasi "contadino" di diffidenza nei confronti di manovre di bilancio troppo azzardate. (...)

Affrontiamo il discorso su un piano più generale. L'economia, quindi il mercato, il capitalismo, e l'etica. Secondo lei, c'è, se c'è, una relazione tra etica ed economia di mercato?
Il mercato è uno strumento, il migliore strumento che sia stato inventato dall'esperienza collettiva degli uomini per produrre e distribuire le risorse. È uno strumento che non piace agli operatori economici, anche se, ipocritamente, essi lo esaltano. Il mercato ha bisogno di polizia. La mia esperienza, una delle più importanti che feci da ministro, quella relativa al Banco Ambrosiano, è la dimostrazione che c'è la necessità di un'azione di polizia, che non guardi alle associazioni e ai rapporti tra l'imprenditore disonesto e magari ambienti vicini a chi deve prendere le decisioni di polizia. Si consideri soltanto il fatto che se quell'imprenditore disonesto viene salvato, se non gli si contrappone tutta la capacità dell'apparato pubblico di controllo e di analisi, sono falsate le regole del mercato e si introducono precedenti estremamente gravi. Forse i critici del mercato guardano al mercato così com'è, al mercato che funziona con la connessione della complicità dei politici, per creare nel mercato un luogo che è piuttosto l'idea di Hobbes dello stato di natura, dell'uomo nemico all'uomo, dell'uomo che è lupo rispetto all'uomo. No, il mercato è un luogo fortemente condizionato dagli obblighi legali di contrattare secondo regole di trasparenza. È interessante che molte di queste critiche derivino proprio da coloro che praticano quotidianamente continue interferenze politiche sul mercato, a favore di Tizio o di Caio.

L'azione di polizia sul mercato deve invece essere esercitata in nome della legge, in nome della garanzia della concorrenza, in nome della parità di coloro che si presentano sul mercato. Chiaramente, gli appalti truccati, le turbative d'asta, tutto quello che oggi emerge in sede giudiziaria, ma che tutti noi conoscevamo, è il modo esattamente opposto, non ha nulla a che vedere con il mercato (...).

Non si può chiedere che in una società modernizzata, quindi rotta sul piano religioso, le regole siano quelle della morale o quelle dell'insegnamento di Cristo. Occorre stabilire dei patti che hanno una natura come quella delle convenzioni sportive. Il mercato è una di queste convenzioni. Bisogna avere la mentalità dello sportivo, che sa di non poter violare una regola perché quello sport si pratica in quel certo modo. Insomma, è la contrapposizione tra una corsa alle Capannelle e il Palio di Siena. Al Palio di Siena si fa di tutto.
Quindi c'è comunque un'etica in questo tipo di comportamento…
Sì, ma la prima etica è quella di rispettare le regole del gioco. Il primo valore che credo debba essere rispettato è quello delle regole del gioco del mercato.

Di Andrea Scazzola - Il Sole 24 ore

lunedì 10 dicembre 2012

Cultura e ricerca per guardare lontano

Sono stato invitato e ho accettato di venire qui perché sono convinto – e non solo per quello che riguarda me stesso, ma per la responsabilità che ricopro – che quando i padri costituenti hanno scritto la nostra Carta fondamentale non hanno immaginato per il Capo dello Stato un ruolo che si risolvesse (come si dice per i re in altri Paesi) nel tagliare nastri alle inaugurazioni. Ho ritenuto che il Presidente della Repubblica dovesse, secondo la nostra concezione costituzionale, prendersi delle responsabilità, senza invadere campi che non sono suoi: le responsabilità del Governo non sono quelle del Presidente della Repubblica, e viceversa. Ma credo di dovere sempre cercare di interpretare le esigenze, gli interessi generali del Paese, anche in rapporto a scelte del Governo – che rispetto, perché non posso assolutamente sostituirmi a chi ha la responsabilità del potere esecutivo – attraverso un dialogo al quale intendo dare il mio contributo.
Innanzitutto – se posso dire qualcosa a proposito del titolo di questa assemblea – forse «emergenza dimenticata» non è l'espressione più adatta. Perché non è una questione di emergenza: quando parliamo di cultura parliamo di una scelta di fondo trascurata in un lungo arco di tempo. E le questioni che abbiamo davanti oggi non sono nate un anno fa, con questo Governo; la scelta che auspichiamo per la cultura resta da fare perché non è stata fatta in modo conseguente per anni, per non dire per decenni, nel nostro Paese.
Il Manifesto del Sole 24 Ore e il Rapporto 2012 di Federculture ci dicono molto a proposito della cultura come motore o moltiplicatore dello sviluppo – questa espressione è ritornata anche nell'intervento del ministro Fabrizio Barca – perché quello che ci deve assillare è come rilanciare lo sviluppo nel nostro Paese: sviluppo produttivo, sviluppo dell'occupazione e, soprattutto, prospettiva di valorizzazione delle personalità e dei talenti dei giovani, delle giovani generazioni. Questo deve essere il nostro assillo. E dobbiamo sapere che la cultura può rappresentare un volano fondamentale per avviare una nuova prospettiva di sviluppo non solo in Italia ma anche, più in generale, in Europa.
Ho apprezzato anche il contributo che in questi documenti si dà a un'analisi delle diverse componenti della cultura, sotto il profilo delle ricadute sulla crescita dell'economia e concretamente sulla crescita del Pil. Lo ha fatto, in modo particolare, in un suo studio il professor Sacco, che ha individuato sette componenti: da un cosiddetto «nucleo non-industriale» alle industrie culturali e alle industrie creative, alla scienza e alla tecnologia, e ha misurato quale sia il peso occupazionale di ciascuna di queste componenti della sfera complessiva della cultura, e anche quale sia – cosa molto significativa – il grado di propensione all'export, e di successo nell'export, di queste componenti delle attività culturali.
Persiste in Italia – perché non è nata ieri – una sottovalutazione clamorosa di queste tematiche, di queste analisi, di queste ricerche: una sottovalutazione clamorosa da parte delle istituzioni rappresentative del mondo della politica, del governo nazionale, dei governi locali e anche di diversi settori della società civile. C'è una sottovalutazione clamorosa, quindi, delle conseguenze che invece bisognerebbe trarne sul piano delle politiche pubbliche; e non inganni la parola "pubbliche", perché politiche come quella fiscale vanno rivolte a sollecitare e rendere sostenibili anche iniziative private, del settore privato e del settore sociale: non si tratta di affidare tutto al pubblico, tutto allo Stato.
Comunque, a monte di tutte le carenze che qui sono state denunciate, di tutte le cecità di cui soffre la condizione riservata alla cultura oggi in Italia, c'è la scarsa consapevolezza – l'ho ripetuto anche qualche giorno fa – dell'importanza decisiva per il nostro Paese di uno straordinario patrimonio, «ben più largo – ha detto Giuliano Amato – di quello costituito dalle opere d'arte e tuttavia nutrito dallo stesso patrimonio genetico». Ma non voglio ritornare su questa accezione più larga, che il presidente Amato ha assai bene prospettato ed esemplificato. Riprendo invece la sua difesa della scelta dell'Assemblea Costituente. Difendo l'articolo 9 come uno dei principi fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale).
Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L'articolo quindi continua: «La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica «promuovono» e «tutelano»? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque a una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell'economia e dell'occupazione dall'altra? Non vorrei ragionare soltanto in termini economici: quale peso si sta riconoscendo al rapporto tra cultura e scienza, ulteriore incivilimento del Paese, benessere dei cittadini misurato secondo nuovi indici qualitativi, valorizzazione dell'identità e del prestigio dell'Italia nel mondo? Perché non c'è soltanto da valutare quale aiuto diano alla crescita del prodotto lordo la cultura e la scienza, ma come esse siano parte integrante del nostro stare nel mondo, con il profilo e il prestigio che le generazioni che ci hanno preceduto hanno assicurato all'Italia.
In effetti, ripeto, si sta prestando a tutti questi fattori un'attenzione assolutamente inadeguata. E io ho posto, e ancora oggi intendo porre, questo problema in via prioritaria e di principio, cioè per quel che di per sé esso significa, prima di venire a considerazioni relative a temi di intervento legislativo e di finanza pubblica. Ma non eludo questi temi, e non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell'attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l'impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l'Italia deve al governo del PresidenteMario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo.
Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse – che è stato e resta necessario fare i conti con un livello di indebitamento pubblico raggiunto nel corso di decenni e con un grado di esposizione ai rischi del mercato dei titoli del debito sovrano nella Zona Euro, e quindi resta indispensabile perseguire obbiettivi rigorosi, in tempi stretti, concertati in sede europea, di riduzione della spesa pubblica e di contenimento della sua dinamica. Se non facciamo questo, a quale livello schizzeranno gli interessi dei nostri titoli pubblici? Quanto dovremo pagare? C'è anche tanta gente modesta che ha comprato buoni del tesoro: come facciamo a non rendere loro gli interessi che ci siamo impegnati a pagare e che rischiano di crescere? Oggi, dobbiamo pagare fino a 80 miliardi all'anno di interessi sul debito pubblico: che cosa potremmo fare anche solo con una piccola parte di questi 80 miliardi? Dobbiamo scrollarci dalle spalle questo peso insopportabile. E dobbiamo farlo perché altrimenti questi sono i casi e i modi in cui uno Stato può fallire, e non credo che possiamo giocare con questo rischio oggi e nel prossimo futuro, nel nostro Paese, chiunque governi e qualunque situazione politica e parlamentare esca dalle elezioni.
Però, io pongo una domanda, chiaramente molto problematica, anzi critica: ma è fatale che per riuscire in questo sforzo di risanamento della finanza pubblica si debba ancora procedere con tagli rilevanti a impegni di finanziamento in ogni settore di spesa, tagli più o meno uniformi o, come si dice – è diventato un termine abbastanza consueto – «lineari», senza tentare di far emergere una nuova scala di priorità nell'intervento pubblico, e quindi nella ripartizione delle risorse? Non credo, onestamente – pur avendo grande considerazione per chi deve far quadrare i conti pubblici: badate che non è uno scherzo per nessuno – che ciò sia fatale e che ci si debba arrendere a fuorvianti automatismi. La logica della spending review dovrebbe essere di ottenere risparmi di spesa, in qualsiasi settore, attraverso modifiche strutturali, modifiche di meccanismi generatori di spreco e distorsioni pesanti, e attraverso l'avvio di processi innovativi nella produzione di servizi pubblici e nella costruzione di programmi di intervento pubblico.
Questa logica dovrebbe però far salva un'attribuzione di maggiori risorse e finanziamenti da considerare finora sacrificati, a impegni che sono invece essenziali per una ripresa e una nuova qualificazione dello sviluppo del Paese. Si deve salvaguardare una quota accresciuta e consistente di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Perché il contenimento della spesa pubblica e soprattutto della sua dinamica, e innanzitutto la riduzione della sua entità attuale, non comportano che non ci debba essere e non ci possa essere selezione. È molto arduo scegliere e dire: "questo sì e questo no", ma questa è la politica; la responsabilità della politica sta nello scegliere, nel dire dei «no» e nel dire dei «sì». E io credo che debbano essere detti più «sì» a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio.
Qualche spunto specifico. Ritorno innanzitutto sulla ricerca scientifica, di cui ho detto qualche giorno fa in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro». L'Italia ha in campi fondamentali della ricerca tradizioni ed energie vive, dei talenti e un prestigio di cui molti, a ogni livello, nella sfera istituzionale e nell'opinione diffusa, non si rendono conto. Abbiamo dei tesori ignorati, delle capacità, un dinamismo di competenze e di passione per la scienza che vengono largamente ignorati. Parlo di talenti che operano anche fuori d'Italia: qualche giorno fa, in Quirinale, alla «Giornata per la ricerca sul cancro» c'era, fra gli altri, il professor Pier Paolo Pandolfi, un italiano che vive in America da vent'anni e da cinque dirige il Centro di Ricerca Oncologica di Harvard, uno dei più importanti al mondo, ed è venuto a dirci: voi avete tali istituti e tali talenti che dobbiamo lavorare insieme, io italiano dall'America e voi italiani in Italia.
Voglio parlare anche di quei tanti italiani che vivono e operano servendo in istituzioni di ricerca europee. Sono andato a Ginevra e ho incontrato centinaia di ricercatori italiani al Cern; sono andato a L'Aja, all'Estec, centro di ricerche e tecnologie spaziali: altre centinaia di italiani che sono andati lì anche poco dopo i vent'anni, dopo aver preso la laurea o il dottorato, e che sono chiusi tutti i giorni, dalla mattina alla sera – in luoghi che non sono Roma, che non sono belli come le nostre città – mossi non solo dalla passione per la ricerca e dall'impegno per onorare la tradizione scientifica del nostro Paese. È qualcosa che deve far riflettere profondamente, anche quando sentiamo dire: aiutateci, non solo con finanziamenti. Per esempio, i due centri che ho citato sono naturalmente finanziati dalle istituzioni europee, e noi – non ce lo dimentichiamo – siamo tra i maggiori contributori, e quindi contribuiamo a finanziare sia la ricerca spaziale, sia le ricerche del Cern; però, è giustissimo dire: "non solo questo, non solo i soldi, occorre dell'altro". Occorrono capacità operative, occorre liberarsi dal peso delle procedure burocratiche – lo ha detto bene e con forza Ilaria Capua – e anche dal peso crescente di una oramai impraticabile foresta legislativa e normativa che non fa che crescere da una settimana all'altra.
Abbiamo talenti e abbiamo istituzioni. E io mi domando – vi svelo un particolare – come sia stato possibile qualche tempo fa che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere un articolo di legge che prevedeva la immediata soppressione di 12 istituti di ricerca. Il lavoro di questo signore è finito nel cestino, perché abbiamo cercato – non è vero, ministro Profumo? – di tenere insieme gli occhi aperti. Ma è una spia di che cosa può significare la peggiore mentalità burocratica quando è chiamata a collaborare a scelte di governo, che devono invece essere libere da queste incrostazioni.
Un secondo spunto: tutela del paesaggio e del patrimonio. Tutela, cura e valorizzazione del territorio, perché questo è qualcosa che spesso – ma la signora Ilaria Buitoni lo sa benissimo, e lo sa benissimo il Fai – sfugge: si pensa solo al costruito e non si pensa al dove si costruisce, alla messa in sicurezza del territorio. Quello che stiamo vivendo in questi giorni con le alluvioni, in tante parti del Paese, ci allarma. Sono stato mesi fa, dopo le alluvioni nelle Cinque Terre, a Vernazza, e – scusate se mi ripeto, ma certe volte è inutile inventare qualcosa di diverso – ho detto lì: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di piani per la difesa del suolo, l'ultimo del 2010, con cui si stanziava credo un miliardo; ebbene, è una lunga storia di piani, di stanziamenti via via disgregatisi, persisi per strada, non portati a compimento. Questa è la dura storia, questa è la realtà. Quante volte abbiamo aperto questo capitolo, a partire dall'alluvione del 1966 a Firenze, e poi ce ne siamo dimenticati o lo abbiamo chiuso alla meglio, abbiamo rinviato a un successivo piano quello che non eravamo stati capaci di fare, realizzando il piano precedente! E questo rischio antico si è fatto più acuto, ha assunto dimensioni diverse, forme più violente perché siamo – piaccia o no – nell'epoca del cambiamento climatico». Oggi le alluvioni non sono quelle di sempre, le frane non sono quelle di sempre, e abbiamo bisogno di un impegno ancora più forte, ancora più determinato e soprattutto operativo. E non ci siamo: non ci siamo né nella comprensione del problema né nell'azione conseguente a tutti i livelli, innanzitutto – dico – a tutti i livelli istituzionali.
Ora, se mi consentite, io vorrei fare anche qualche osservazione per così dire di carattere "trasversale", cioè che riguarda tutti i settori di attività culturale a cui ci siamo riferiti. Le considerazioni da fare sono abbastanza semplici. Innanzitutto, dobbiamo assicurarci che ci siano anche comportamenti individuali e collettivi nuovi (ecco in che senso "educare", "far crescere" il Paese), perché ci sono – parliamoci chiaro – comportamenti che recano ingiuria e danno al nostro patrimonio monumentale, che non solo non si tutela ma spesso si lascia devastare, si lascia ferire, vandalizzare.
Abbiamo bisogno di comportamenti responsabili in questo senso; e abbiamo bisogno di comportamenti sensibili anche per quello che riguarda la spesa per i consumi, la spesa delle famiglie. Viviamo in un periodo difficile, perché si restringono le entrate disponibili per moltissime famiglie, c'è mancanza di lavoro, c'è cassa-integrazione, ci sono giovani che vedono un'ombra pesante sul loro futuro. Nello stesso tempo, proprio in questo periodo di restrizioni dure e obbligate, vediamo anche i segni di una evoluzione nuova nel costume, nelle scelte dei consumi. E il fatto che diminuiscono sì tanti consumi di beni durevoli o abituali beni di consumo, ma invece non diminuisca la spesa per la fruizione del patrimonio culturale, né la spesa per i musei, né la spesa per quel che riguarda la partecipazione ad attività culturali, e di arricchimento morale e civile, questo è un segno molto incoraggiante che noi dovremmo riuscire a generalizzare nella realtà del nostro Paese.
Poi c'è qualche cosa che non posso sottacere. Badate che in tutti i settori, anche in quelli che fanno capo ad attività culturali, occorrono scelte non conservative per quel che riguarda le strutture e per quel che riguarda le realtà che si sono venute accumulando e incrostando nel corso del tempo. Guai se dovessero prevalere atteggiamenti difensivi, di difesa e conservazione di tutto l'esistente; e anche, diciamo pure, guai se dovessero prevalere atteggiamenti puramente difensivi di posizioni acquisite in termini di categoria, in termini corporativi.
Abbiamo bisogno di innovare soprattutto nel senso – come giustamente si è detto – della sburocratizzazione e del miglior uso delle scarse o limitate risorse disponibili nel complessivo bilancio dello Stato. Non dobbiamo, in questo modo, farci imbrigliare: non tutto quel che c'è in ognuna delle nostre istituzioni che si occupano di cultura e di scienza è difendibile, non tutto è valido, non tutto è produttivo. E dobbiamo avere il coraggio di innovare, se vogliamo salvaguardare l'essenziale, la funzione e il futuro di queste nostre attività.
Infine – ma non entro nel merito e spero che oggi pomeriggio si sviluppi anche questa dimensione del dibattito – i soggetti: quali sono i soggetti che debbono entrare in campo per portare avanti una nuova politica, una nuova visione del ruolo della cultura in tutte le sue espressioni? Il ministro Barca ha detto provocatoriamente – però ha fatto bene – che non è questione di soldi, o non è solo questione di soldi. Penso che se io vi avessi detto: "non esiste nessuna questione di soldi", non mi sareste stati a sentire, perché una questione di soldi esiste, per la cultura, per la scuola, per l'università e per la ricerca; esiste, e l'ho già detto. Però esiste anche una questione fondamentale che si chiama capacità progettuale, realizzatrice e gestionale. Questo significa innanzitutto che abbiamo bisogno in questo senso di una nuova qualificazione delle istituzioni pubbliche. Per esempio le Regioni: non getto l'anatema sulle Regioni – ci mancherebbe altro – però dell'esperienza dei fondi europei per il Mezzogiorno dobbiamo sentire tutto il peso – stavo per dire la vergogna, ma non voglio esagerare – per non avere utilizzate risorse preziose o per averle utilizzate male. Credo che l'impegno con cui il ministro Barca si è messo all'opera per perseguire il recupero e la riprogrammazione delle risorse dei fondi europei determinando delle scelte sapienti – che hanno dato un posto di grande rilievo, per esempio, a progetti per la cultura, come per Pompei – sia uno dei segni positivi venuti da questo Governo, e dobbiamo incoraggiarlo. Soggetti istituzionali da riqualificare e soggetti del privato e del privato sociale da chiamare a raccolta, da stimolare: lei lo sa presidente Squinzi, io dico sempre che c'è un problema di più forte impegno negli investimenti pubblici e privati per la ricerca, e quindi anche da parte delle aziende, soprattutto di quelle maggiori, ma delle stesse medie aziende che oggi competono sul piano internazionale con successo in quanto hanno alle spalle non solo un'eredità – quella di cui ci ha parlato Giuliano Amato, il grande background della creatività italiana – ma perché hanno investito in ricerca e innovazione.
Abbiamo bisogno di investimenti privati, abbiamo bisogno di investimenti pubblici, abbiamo bisogno di mobilitazione nuova di soggetti sociali e cooperativi, anche adeguando – come ha detto la signora Buitoni – la legislazione italiana all'esigenza di valorizzare questi apporti.
Io capisco – voglio dirlo francamente – tante impazienze. Naturalmente, io ho fatto nel passato il "comiziante", e quindi sono abituato anche ad affrontare battibecchi in piazza, non soltanto cioè parlando io e prendendo gli applausi di chi mi ascolta. Ma oggi faccio un altro mestiere, e vorrei dire con molta pacatezza e senso di responsabilità: fate valere le vostre legittime preoccupazioni, esigenze, insofferenze, proteste, fatele valere con il massimo sforzo di razionalità e di responsabilità perché solo così potremo portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi.




giovedì 6 dicembre 2012

Il potere generativo della forza, la via verso i “Guerrieri di Luce”


In una battaglia, chi vorresti al tuo fianco?

Bene… quella persona devi diventare tu.

L’energia e la forza hanno un potere enorme: creano.

La forza, nelle sue mille manifestazioni – fisica, mentale, progettuale – genera.

Può creare un mondo migliore. Così come la sua assenza uccide.

Un corpo morto è privo di forza. Un corpo ammalato ha poca forza. Un corpo pieno di forza può alzare un masso. Un corpo pieno di forza assieme ad una mente lucida e concentrata possono vincere le sfide più incredibili.

Quando entri in palestra o nel campo, che tu pratichi pallavolo, calcio, karate, kickboxing, davvero non importa cosa… ricorda sempre che stai andando a lavorare sul tuo corpo o sulla tua mente, per potenziarle, giorno dopo giorno, sino ad arrivare a toccare il cielo. Pensaci mentre compi il passo che separa il “fuori” dal “dentro”. Intendo proprio fisicamente. Considera quel territorio come un luogo sacro e ti ripagherà.

Pensaci mentre ti stai cambiando, o mentre indossi la tua divisa da allenamento. Se acuisci la tua percezione, sentirai lo stesso flusso di coscienza che provavano i guerrieri prima di una battaglia. E’ un rito ancestrale. E’ un omaggio alla forza e alla luce contro il male e il buio. Non a caso, un grande scrittore e pensatore (Coelho) ha chiamato le persone dotate di forza fisica e mentale “Guerrieri di Luce”.

Il “guerriero della luce”,  un’entità latente presente in tutti gli uomini, che si risveglia in noi quando vogliamo perseguire un sogno e comprendere il miracolo della vita.

Il “Manuale del guerriero della luce” è un libro di Paulo Coelho. Il volume, ad eccezione del prologo e dell’epilogo, è una raccolta di testi e include proverbi e pensieri criptici, estratti dal Tao Te Ching di Laozi e da Chuang Tzu, dalla Bibbia, dal Talmud e altre varie fonti ed è scritto sotto forma di brevi enunciati filosofici, che toccano direttamente l’essenza spirituale di chi persegue una causa o combatte. “Un guerriero della luce pensa contemporaneamente alla guerra e alla pace”.

Allora ti rendi conto che non stai solo giocando a picchiare un sacco, o fare un kata, o colpire un pallone a pallavolo, a calcio. Stai coltivando il tuo essere supremo, la tua luce interiore. Se lo capisci, tutto cambia.

L’energia personale trasuda da persone minute come Madre Teresa di Calcutta, così come da atleti fisicamente potenti che trovano lo spirito per salire sul ring, resistere a colpi massacranti e controbattere.

La troviamo in chi si dedica agli altri, a ricercare, ad esplorare l’universo o la mente. La troviamo in chi si impegna nell’aiutare gli altri.

Ogni giorno in cui ci dedichiamo energie alla nostra crescita spirituale, fisica, mentale, è un omaggio alla vita. La nostra forza aumenta.

E ogni volta che ne facciamo buon uso, qualcuno in cielo ringrazia.

Anche una pianta o un insetto sono immersi in questo viaggio chiamato vita, ma, a differenza di noi, non possono riflettere su di sé o sul senso da dare al viaggio. Se sia meglio o peggio per loro, non lo sappiamo. Ci sono pro e contro. Per quanto mi riguarda, dato che questa occasione che mi viene data una sola volta, voglio sfruttarla. E so che per lottare serve forza, quantomeno, forza di spirito.

Se ci è data una “possibilità” di farlo, non la dobbiamo sprecare.

È una possibilità che non tutti sfruttano: sviluppare piena autocoscienza su chi sei, chiedersi che significato ha il tuo esistere. Che valore hanno le tue azioni. Giorno dopo giorno.

In altre parole, la volontà di dare senso al tuo viaggio.

Per rendere positivo il viaggio ci sono tante cose da imparare. Alcune facili, alcune difficili. Credo sia bene imparare partendo dalle piccole cose.

Ad esempio, alzarsi la mattina. Alzarsi e sentire la “sacralità” del fatto di essere vivi non è solo un vago sentimento, ma è una competenza – una precisa competenza  o abilità mentale- qualcosa che quindi possiamo apprendere, possiamo sviluppare. Anche solo questa micro-competenza ci offre la grande possibilità di dare un “colore” del tutto particolare all’inizio di un giorno, vada come vada il resto della giornata. E se applichiamo questo atteggiamento all’intera vita, ne potranno emergere grandi cose.

Il gesto quotidiano dell’alzarsi con il quale iniziamo a rendere omaggio ad un viaggio che a noi è stato permesso, e a tanti è stato negato.

Di questo omaggio, la vita, dobbiamo essere fieri.

Quando passi dal fuori al dentro, e persino mentre ti avvicini al campo o alla palestra o al tuo Dojo, rifletti su questo. Senti la sacralità di ogni tuo passo, di ogni tuo respiro, di ogni tuo movimento.

Sai che non sei li solo per giocare. Sai che stai seguendo la tua “via” dove apprendi a migliorarti e potenziarti. Poi, dirigi la tua potenza verso fini positivi e per migliorare il mondo e aiutare cause giuste.

Per diventare guerrieri di luce, non serve altro.

Di: dott. Daniele Trevisani – Mental Trainer & Coach – 
Facebook address https://www.facebook.com/humanpotentialcoaching – Sito personale www.studiotrevisani.it


Note articolo:
© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dai volumi di Daniele Trevisani “Personal Energy” www.studiotrevisani.it/hpm3 e “Il Potenziale Umano” www.studiotrevisani.it/hpm2 – Franco Angeli editore, Milano

sabato 1 dicembre 2012

Sempre il meglio

Innovare, lavorare sodo, svolgere il miglior lavoro possibile, curare i particolari. Mettici sempre del tuo per rendere possibili queste cose, non attendere che altri lo facciano al tuo posto.
È ricorda: sei sempre in competizione con le aziende fuori, non con i colleghi.