martedì 31 marzo 2009

I miei pensieri

Guardo con dolcezza i miei pensieri, belli o brutti che siano, perché non sono altro che energia sedimentata, modelli che prendono il sopravvento sulla mia essenza, sul mio Io. In particolar modo quelli negativi. Li guardo e basta, non li commento, so che se ne andranno da soli. E' questo il potere della consapevolezza, dello sguardo libero che disintegra tutto l'inutile che ci sovrasta. Continuare a pensarci e a ripensarci, cercare di capire, di spiegare, di compenetrarli, contribuirà solo a far si che mi si appiccicheranno addosso ancora di più.
I pensieri possono essere pesanti come il fango e trascinarti a fondo.

lunedì 30 marzo 2009

L'Osteria Da Noi

Sono sinceramente felice che i locali che ospitarono a suo tempo L’Osteria dell’Angelo – di fronte all’Ospedale Civile vecchio – siano tornati, dopo alcuni anni di traversie, ad essere un luogo dove si fa della buona cucina. Avendo molti ricordi piacevoli legati a questo posto, ero profondamente dispiaciuto che dopo quella bella gestione, nessuno fosse più stato in grado di riproporre – anche minimamente – una gastronomia che valorizzasse questi spazi. Il ristorante esalta una caratteristica peculiare della città di Imola, quella di avere una metratura di cantine tra le più elevate in Italia in rapporto alle unità immobiliari presenti. Tutte le stanze sono infatti a pietra vista, ottimamente tenute, con i soffitti a volta tipici di questi scantinati; naturalmente quando il locale è affollato si crea un certo rumore che si veicola meglio con questa architettura, ma non risulta comunque fastidioso. Le luci sono poi ben calibrate e, soprattutto alla sera, aiutano a “scivolare” verso la fine della giornata in compagnia di una buona proposta enogastronomica. Gli spazi tra i tavoli sono adeguati e le sale – fortunatamente – non sono state riempite dei soliti ninnoli o falsi arredi che finiscono per falsare, spesso, questi luoghi. Un equilibrio che l’attuale gestione, come già anticipato, esprime pure nel menù con una carta a mio parere ben calibrata, un buon numero di piatti, ma non eccessivo, una bella scelta di vini e un servizio attento e curato in tutti i suoi aspetti. Oltre alle “classiche” voci, molto gradevole la proposta della stuzzicheria che in una osteria non dovrebbe mai mancare. Tra gli antipasti segnalo il Culatello con saba, fichi e piadina romagnola, Zuppa di cipolla di Medicina con crostini al parmigiano e i calamari scottati al vapore su purea di ceci e pomodoro. Tra i primi i raviolotti verdi di ricotta, miele, pere e pecorino, i tortelli di bufala su crema di melanzane e concassea di pomodoro e gli originali Strozzapreti caserecci broccoli e salsiccia. Tra i secondi troviamo dall’Ossobuco al Baccalà fino ad arrivare alla Catalana e ugualmente sfiziosi risultano alcune proposte di dolci. Anche l’Osteria da Noi si è adeguata proponendo “menù di lavoro” nei giorni feriali, come interessante risultano le proposte di “menù degustazione”. Il mio giudizio: da tenere sempre presente.
Ristorante Osteria Da Noi - Viale amendola, 63 - 40026 - Imola (BO) - Tel. 0542.24045 - Chiuso sabato e festivi a pranzo e domenica
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'Informazione di domenica 29 marzo 2009

domenica 29 marzo 2009

Il cambiamento

Il cambiamento spesso ha come origine la propria insoddisfazione, il fatto di sentirsi poco o tanto fuori luogo, di comprendere di essere ad un capolinea. A volte tanto tempo passato pare invano, si ha la sensazione che si stia rivivendo continuamente la stessa situazione in una sorta di "deja vu" senza fine. E' allora, proprio nei momenti di insofferenza che capita di ritrovare il gusto per la curiosità, la voglia di comprendere ciò che sta accadendo alla propria vita, al proprio percorso personale e professionale, nasce il desiderio di guardare oltre il perimetro degli avvenimenti e provare di individuare altre soluzioni. La volontà, il destino, la fortuna e le capacità faranno il resto.

martedì 24 marzo 2009

Mangiare con le mani (Finger Food)

Lo disse a suo tempo anche Guccini, durante un concerto, che l'inglese ci frega con la lingua, volete mettere parlare di "Finger Food" invece che di "cibo da mangiare con le dita" ? E' tutta un'altra cosa. Comunque sia, sono sempre stato un sostenitore di questo modalità che prevede di consumare il cibo rigorosamente con le mani, ancora prima che diventasse una moda. Da tempo ormai tutte le pietanze ci vengono proposte con le posate, non tanto per motivi legati al galateo della tavola - che prevede altresì diverse eccezioni - ma soprattutto per un cambiamento della cultura e delle abitudini ormai insite nella nostra società. Invece avere ogni tanto la possibilità di tornare a mangiare con le mani, ci permette di recuperare sensazioni altrimenti perdute. Toccare il cibo, sentirne il calore, coglierne la consistenza già sulle dita, riscoprirne gli odori mentre lo si porta alla bocca senza imbarazzi, la trovo un'esperienza molto stuzzicante che lascia un ricordo duraturo. Mangiare con le mani è, in un certo senso, un modo di cogliere l’anima dei cibi. Non dimentichiamo che la maggior parte del genere umano ancora oggi mangia con le mani e, anche in Europa, se ne è fatto largo uso per secoli. In epoca romana, durante i banchetti e convivi dell’epoca imperiale, penso che tutti sappaino che si usava mangiare sdraiati poggiandosi al gomito sinistro e piluccando il cibo con la mano destra, in una posizione che oggi troveremmo scomodissima, ma che per loro presentava un duplice vantaggio: permetteva di ingerire una quantità maggiore di cibo e consentiva ai convitati, sazi oltre misura, di assopirsi tra una portata e l’altra. L’uso delle posate in generale risale alla nascita della cosiddetta “civiltà”, la forchetta in realtà è ricollegabile al Medioevo quando compare per gli arrosti in particolare, ma è soltanto a partire dalla metà del '700 - con le suntose e opulente tavole reali - che il loro utilizzo si diffuse in maniera massiccia e, contemporaneamnete, il galateo codificò le sue regole. Sono un "assoluto e ortodosso" estimatore delle buone maniere, anche a tavola, ma trovo comunque che il mantenimento di questa conoscenza rientri nell’alveo della memoria che occorre salvare dei nostri usi e delle nostre tradizioni. Le mani sono ideali per gustare completamente il cibo, grazie alla capacità tattile delle dita; questa esperienza può piacere oppure non convincere, ma alla prova dei fatti ho potuto notare che la maggioranza delle persone gradisce. La formula, quando è eseguita in un rito collettivo, in un convivio, crea un’atmosfera di complicità particolare tra le persone che partecipano e la situazione induce, dopo un primo imbarazzo, ad un senso di confidenza non comune. E’ ovvio che il tutto si deve basare su cibi che siano buoni, genuini e gustosi, con una preparazione curata della tavola. Risukta fondamentale impiegare eccellenti prodotti di base, porre attenzione nella preparazione e cura nella presentazione. Una bella tavola preparata in "modalità Finger Food”, utilizzando i nostri prodotti, vedrà ad esempio: il pollo in tutte le sue declinazioni, il coniglio al forno, polpette impanate, frittura di pesce e all’italiana, salumi e insaccati, formaggi stagionati, olive, piada al testo e fritta, pane caldo. Delle vaschette con l'acqua accanto ad ogni posto consentiranno ad ogni convitato di sentirsi "pulito" e a proprio agio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 21 marzo 2009

lunedì 23 marzo 2009

Scoprire Toddy a Linaro

Conosco da molto tempo Stefano Falzoni, maestro di cucina del Ristorante Toddy che si trova a Linaro, sulla Montanara, tra Imola e Ponticelli. Direi che ho seguito quasi tutto il suo percorso professionale, da barman a chef, e lo giudico una persona molto valida nel "far da mangiare". In grado di stupire, anche con pochi prodotti a disposizione, preparando composizioni e manicaretti che mai ti aspetteresti da questa figura un pò guascona che ama profondamente la sua professione. Il locale - nato come bar - non rende merito alla cucina che vi viene espressa anche se i proprietari si sono impegnati nel rendere maggiormente riservata e accogliente la parte dedicata alla ristorazione. Già Paolo, scomparso purtroppo poco tempo fa troppo prematuramente - notevole esperto di vini - aveva compreso questa necessità e la sorella Mirella, già presente nella gestione, continua nell'opera. Forse non è così conosciuto il fatto che il locale proponga, oltre i "tradizionali" momenti legati al rito dell'aperitivo e alla ristorazione, una buona offerta di serate a tema - il martedì - che spaziano da menù di caccia a quelli di terra e di mare. Consiglio comunque di andarci di tanto in tanto per gustarsi un bicchiere di buon vino e verificare le continue proposte di questi menù, che cambiano ogni mese. Il pesce è sempre presente anche nella carta per il motivo che Stefano ha sempre amato lavorare questo prodotto, anche in tempi non sospetti in cui i piatti a base ittica non erano proposti in qualsiasi locale. Vengono organizzate altresì degustazioni di vino con la presenza degli stessi produttori, in diversi periodo dell'anno. La carta poi viene aggiornata stagionalmente e prevede una selezione mirata di piatti, a garanzia di un'ottima qualità. Meritano comunque di essere citati dal menù: l'Arlecchino di verdure con ombrina arrosto alla tropea o l'uovo al tegame con purea di zucca e prosciutto croccante negli antipasti, i tagliolini agli scampi, carciofi e zafferano nei primi - oltre alla tradizionali paste romagnole fatte in casa - delizioso inoltre lo spiedo di gamberi imperiali con salsa di sedano e olio al lime, come pure il maialino arrostito su letto di patate al profumo di rosmarino. Assolutamente da non perdere, quindi lasciate "un buco" se andate, l'esperienza della sfogliatina con mascarpone e frutti di bosco.
Ristorante Toddy - Via Linaro,3/A - 40026 - Imola (Bo) - Tel.: (+39) 0542680885 - Chiuso la domenica


Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'Informazione di domenica 22 marzo 2009

venerdì 20 marzo 2009

Dall’America di Madoff all’Italia dei furti autorizzati

DI ALBERTO STATERA
Quando giovedì scorso l'avvocato Ira Sorkin ha chiesto alla Corte distrettuale di Manhattan di confermare a Bernard Madoff, il finanziere che col sistema Ponzi ha frodato 50 miliardi di dollari, gli arresti domiciliari nel suo attico da 7 milioni di dollari, nell'aula si sono levate sonore risate dal pubblico dei risparmiatori truffati. Seguite da scroscianti applausi quando il giudice Denny Chin ha annunciato la decisione di spedirlo in cella nel Metropolitan Correctional Center.A una scena del genere state certi che in Italia non assisteremo mai, come ben sanno, ad esempio, i sottoscrittori dei bond Parmalat. Il loro Bernard, che si chiama Callisto Tanzi, dopo due mesi di carcerazione preventiva, risiede tranquillamente in villa e, dati i tempi della giustizia italiana, ha ottime probabilità, anche a causa dell'età che non è valsa per Madoff, di cavarsela così, definitivamente, in un processo che non arriverà mai a sentenza, visto che la legge Cirielli ha fissato in sette anni e mezzo i termini della prescrizione. Da noi, del resto, uno come Madoff non avrebbe potuto neanche essere arrestato perché la pena massima per appropriazione indebita e truffa è di tre anni ed è una pena che non prevede l'arresto.Per i delinquenti dal colletto bianco l'Italia è così diventata un paradiso in terra, perché il rischio di finire anche per poco tempo in una cella di cinque metri per cinque con assassini e stupratori, come è capitato a Madoff che ci resterà a lungo, è praticamente inesistente. Effetti di un sistema giudiziario che è una via di mezzo tra una comica finale e un incubo, come ha scritto la scorsa settimana l'"Economist" in un articolo intitolato: "Silvio, the actress and the law"."Intrusivo ma lento, costoso e imprevedibile", il funzionamento della giustizia è una delle ragioni per cui l'Italia attira una quota di investimenti così bassa dall'estero, secondo l'"Economist". Gli investitori sono protetti meno da noi che in Mozambico e il rispetto dei contratti è meno garantito che in Colombia, come rivela una classifica stilata dalla Banca Mondiale.Dalla finanza agli appalti in ogni settore, tutte le scorrerie valgono insomma da noi la candela rispetto al rischio di finire in galera. Lo ha scolpito inconsapevolmente ma magistralmente Roberto Petrassi, un imprenditore di appalti pubblici di costruzione coinvolto in varie inchieste, che in una telefonata intercettata dalla procura di Potenza enuncia l'epitaffio della giustizia italiana: "O ti chiami ladro o ti chiami poveraccio, sono due le cose. Noi abbiamo una forma di rubare che è autorizzata sotto certi casi e quegli altri invece sono ladri perché rubano le mele al mercato e vanno in galera".Qualcuno dica all'"Economist" e alla Banca Mondiale che da noi vige il "furto autorizzato", non previsto dai codici in Mozambico e in Colombia.

Mai guardarci indietro

Mai guardarci indietro. Pensare sempre che c'è talmente tanto da fare e che ci aspetta, che non ha alcun senso soffermarci su quello che sarebbe potuto essere. Non è la storia quella, non cambia nulla. Si deve guardare solo avanti una volta presa la decisone o una strada. Non bisogna concentrarsi mai troppo sui propri errori, non più del necessario per capirli e trarre un utile insegnamento per il futuro che ci attende. Arricchirci con queste informazioni ci sarà utile per applicare queste lezioni della vita ai problemi che dovremo affrontare giorno per giorno, da quel momento in poi. In una successione, in una progressione dinamica di crescita che deve stimolare la nostra attenzione per evitare nuovi errori mentre si agisce e individuare - il più possibile - quelli che, inevitabilmente si pareranno davanti alla strada che si sta percorrendo.

martedì 17 marzo 2009

Riflessioni disordinate

Penso che la vita non sia una corsa, ma più un tiro al bersaglio. Non è il risparmio di tempo che conta veramente, ma la capacità di trovare un centro, senza disperdersi.
I nostri cambiamenti tante volte si accumulano in sordina, lentamente, poi ad un certo punto esplodono, ci si rende conto che non riesci più a stare in quel cerchio, in quella matrice, in quel ruolo che si è disegnato e decidi di essere diverso, di imporre una svolta nella tua vita. La decisione sarà giusta o sbagliata ? Tutte le decisioni nel momento in cui vengono prese, tengono in considerazione la situazione di quel momento e la realtà delle cose così come le viviamo. Vada come vada tutte le decisioni sono giuste, con il passare del tempo, modificando e ampliando le conoscenze "sarebbe" forse stato più facile scegliere. Ma è la vita che è fatta in questo modo. Come diceva un mio conoscente: "il lunedì si fa sempre tredici alla schedina".
Quando davanti a noi si aprono più strade e non sappiamo quale prendere, non bisogna imboccarne però una a caso. Ascoltiamo il nostro Cuore, la nostra Anima. Riflettiamo attentamente, prendiamoci del tempo, camminiamo a lungo e in solitudine, aiutiamoci con il silenzio. Normalmente dal profondo di noi sale il nostro istinto primordiale, ciò che ci accompagna dalla notte dei tempi, un misto di sensazioni ancestrali che ci parla, che si rivela e ci indica dove andare. Lo sappiamo tutti, lo abbiamo provato tutti, alcune volte - trascinati dalla fretta, dal rumore di questa società - non abbiamo voluto dargli ascolto, ma ce ne siamo pentiti. Fermarsi nel silenzio e saper ascoltare "dentro": la scelta sarà precisa.

sabato 14 marzo 2009

Consapevolezza di sé

Consapevolezza di sé significa mettere ordine nella propria vita. Ripensare a chi si è e a quali valori ci si ispira e ci si attiene, comprendere pienamente i propri punti ciechi e pericolosi, le proprie debolezze, tutte cose che possono sviare il proprio cammino, la strada intrapresa.
Coltivare l'abitudine di riflettere su se stessi e approfondire le proprie conoscenze. Solo sapendo con chiarezza cosa si vuole, si può puntare a realizzare i propri obiettivi infondendovi il massimo delle energie. Solo individuando le proprie debolezza si è in grado di vincerle. Conoscere - onestamente - se stessi, non è un modo di dire, è la chiave per realizzare ciò che più ci sta a cuore. Il quoziente intellettivo e le capacità tecniche sono assai meno fondamentali di una matura consapevolezza di se stessi.

giovedì 12 marzo 2009

A tavola il falso è servito così si uccide la nostra cucina


Lasagne con panna e carbonara con pancetta, i gourmand dell'Accademia e i Nas hanno scoperto 360 ricette inventate.

di ENZO VIZZARI


Il "falso culinario" non prospera soltanto all'estero ma guadagna spazio anche nelle cucine dei ristoranti italiani. Si sa che il Parmesao brasiliano, il Regianito argentino, il Parma Ham e il Daniele Prosciutto americani, l'Asiago del Wisconsin, la Mozzarella di Dallas e il Danish Grana danese hanno conquistato i mercati tanto da valere, i "falsi", 50 miliardi di euro rispetto ai 20 miliardi dell'export agroalimentare autenticamente italiano. Ma adesso si scopre che il "falso" tocca pure le ricette tipiche del nostro patrimonio gastronomico. Una ricerca promossa dall'Accademia Italiana della Cucina in collaborazione con il Comando carabinieri della salute (i Nas) rivela che su 530 segnalazioni di veri e propri "falsi culinari" - piatti che hanno un nome preciso ma sono preparati secondo ingredienti e procedimenti non canonici - ben 360, oltre il 70%, sono realizzati in Italia. Le ricette canoniche, invece, sono le 2000 catalogate nel ricettario nazionale dell'Accademia Italiana della Cucina. È vero che il filtro degli accademici è piuttosto severo, tanto da bollare come eterodossa parte delle esperienze della "nuova cucina italiana", quella degli Alajmo, dei Bottura, degli Scabin o dello stesso Vissani. Ma è indispensabile ricordare che, per esempio, la carbonara e l'amatriciana richiedono il guanciale e non la pancetta (peggio se affumicata), né il prosciutto o la salsiccia, che il pesto non è pesto senza pinoli, che le lasagne alla bolognese escludono le sottilette, la mozzarella e la panna, che la cotoletta alla milanese non si deve fare con la carne di maiale né con quella di tacchino e si cuoce nel burro, che un vero risotto non si potrà mai confezionare con un riso cinese e nemmeno con un riso parboiled e non prevede la presenza della panna.

E invece nel volumetto "Il falso in tavola. Una mistificazione da conoscere e contrastare", tutte queste deviazioni sono documentate. "Non vogliamo suscitare allarmismo e un piatto frutto di una ricetta falsificata non è pericoloso per la salute ma può esserlo per quella della gastronomia nazionale", sostiene Giovanni Ballarini, presidente dell'Accademia Italiana della Cucina. Certo, applicata alla lettera, la "lezione" dell'Accademia sarebbe vissuta come una camicia di forza dagli eccellenti cuochi innovatori, dai cultori della "fusion" intelligente. In realtà è un richiamo, che fa bene a tutti, alla verità e all'identità dei piatti regionali. Aggiunge Ballarini: "Definito il "modello" di un piatto attraverso i prodotti e i procedimenti, di questo piatto sono lecite diverse interpretazioni, secondo la fantasia e la sensibilità di chi lo realizza. Ma sui fondamentali non ci possono essere equivoci e inganni".

martedì 10 marzo 2009

La repubblica dei Banana vince il potere di dire no a tutto

Il male dell'Italia di questi ultimi anni, l'ostruzionismo a qualsiasi innovazione, a qualsiasi costo, pura demagogia che ci costa in sviluppo, posti di lavoro e modernità. Purtroppo. Quello descritto da Statera è solo un esempio, ma ce ne sono molti altri.
Non c'è crisi economica, cassa integrazione e disoccupazione che tengano. Nonostante la necessità di creare nuovi posti di lavoro e innovazione tecnologica per rilanciare le imprese, la sindrome Nimby, «Not in my back yard», non nel mio cortile, tende a dilagare. Anzi sempre più spesso diventa sindrome Banana, Build absolutely nothing anywhere near anything, cioè costruire assolutamente niente in alcun luogo vicino a niente. Ne ha appena fatto le spese Francesco Merloni con un gruppo di suoi colleghi imprenditori marchigiani i quali, con la startup Ned Silicon, hanno avviato un progetto per sviluppare un nuovo metodo industriale per produrre silicio di grado solare ad uso fotovoltaico, sulla base degli studi del professor Sergio Pizzini, titolare della cattedra di Scienze dei materiali all'Università Bicocca di Milano. Con il silicio fotovoltaico, che si ricava da minerali di quarzo e deve essere purissimo, si fanno i pannelli per produrre energia elettrica dal sole. Il progetto marchigiano punta a ridurre della metà il costo del silicio, che incide tra il 30 e il 50% su quello dei pannelli, il che consentirebbe di produrre energia solare a costi competitivi. Se questo avvenisse, nel momento in cui tutti nel mondo lavorano allo sviluppo delle fonti alternative di energia e in Italia si torna ai progetti per nuove centrali nucleari, sarebbe una rivoluzione non da poco.Per la nuova iniziativa è stata identificata una location nelle Marche, a Fermo, dove ha chiuso lo zuccherificio dell'Eridania, con la quale è stato siglato un accordo che prevede il riassorbimento del personale tecnico oggi in mobilità, con la prospettiva della creazione di 400 nuovi posti di lavoro, di cui buona parte per laureati e diplomati in materie tecnico scientifiche. In più, è previsto l'uso dei capannoni riadattati e la produzione di energia elettrica con la costruzione di una nuova centrale ad olio vegetale. Nulla di inquinante, se è vero, come sostengono i tecnici, che le emissioni dell'impianto equivalgono a poco più di quelle di una Vokswagen Golf.Ma quando tutto sembrava pronto per partire, si sono scatenati i veti incrociati di comitati locali di protesta, che hanno subito trovato la sponda della politica. Il sindaco di Fermo Saturnino Di Ruscio, eletto in una lista indipendente collegata a Forza Italia, che inizialmente si era dichiarato molto soddisfatto dell'iniziativa che avrebbe ridotto la disoccupazione, ha fatto un'improvvisa marcia indietro. Nel prossimo giugno sarà candidato alla presidenza della neocostituita provincia (tutti dicono che le province andrebbero abolite, ma continuano a nascerne) e non vuole rischiare gli attacchi dei professionisti della protesta ambientale. E forse di qualche altro interesse, visto che molti terreni intorno ai capannoni Eridania sono recentemente passati di mano in vista di progetti per investimenti edilizi.Il caso di Fermo è significativo non solo perché il progetto industriale è un possibile paracadute sociale in una fase in cui la cassa integrazione ha tassi d'incremento del 500%, ma anche perché è una sfida innovativa, quando tutti sostengono che il rilancio dell'industria italiana passa attraverso la ricerca e l'innovazione. Ma non è certo l'unico. Il Nimby Forum, che cura un osservatorio e il 12 marzo terrà un convegno a Milano sul tema, ha censito 171 progetti industriali o di opere pubbliche contestati certamente alcuni con buone ragioni in tutta Italia, di cui la maggior parte in Lombardia, Veneto e Toscana. Di questi, dopo le contestazioni, 89 si sono fermati o sono stati cancellati.Soltanto 22 sono andati in porto.Stando ai numeri, è forse arrivato il momento di costituire un Banana Forum.
DI ALBERTO STATERA - Affari & Finanza 9 marzo 2009

TEMPI MODERNI - Da manager a consulente "La mia precarietà di lusso"

di ROBERTO MANIA - 9 marzo 2009

MILANO - All'appuntamento arriva in motorino, puntualissima. Si porta dietro, come sempre, tutto il suo ufficio: personal computer e telefono cellulare. Ufficio minimalista e itinerante, da partita Iva o da capitalismo individuale in recessione. Fino a poco più di un anno fa, però, Paola Vassellatti, milanese, 43 anni, era un manager di una multinazionale: direttore del marketing per l'Italia. Rispondeva al presidente della sua area e comandava direttamente su un gruppo di dieci persone. Insomma, un posto di potere. E anche un posto ambito, tanto più al femminile in un Paese che lascia alle donne non più del 3-5% delle poltrone nei consigli di amministrazione, contro una media dell'8% in Europa e del 15% negli Stati Uniti. Posto fisso, dunque, sicuro e stabile. Soldi, benefits e status sociale. Poi, nell'ottobre del 2007, la svolta. Perché la grandi corporation, spesso, non ti cacciano ma ti mettono nelle condizioni di andartene. Quando succede non è difficile capirlo. Più o meno è quello che è accaduto a Paola Vassellatti. Che, allora, accetta di cambiare lavoro e vita. D'altra parte dopo i quaranta è difficile ricollocarsi in un'altra azienda. Perché questo sembra l'unico ambito in cui l'età gioca davvero a favore dei giovani rampanti contro i cinquantenni spremuti e ormai ingombranti. Vassellatti diventa consulente. Un percorso praticamente obbligato per i manager che vengono licenziati o se ne vanno dalle imprese. E la crisi sta colpendo duramente anche i dirigenti: Manageritalia, il sindacato dei manager del terziario, calcola che solo a gennaio in questo settore ne sono stati licenziati più di trecento, tre volte tanto quelli di gennaio 2007, e stima che nell'industria privata siano rimasti senza lavoro circa un migliaio.
OAS_RICH('Middle');
Così anche Vassellatti entra nel mercato del lavoro di serie B: dalla sicurezza, a cominciare dalla busta paga ogni fine mese, alla precarietà della consulenza per le aziende. Dove tutto dipende dalla propria capacità di "vendersi" sul mercato. Va da sé che sarebbe improprio qualsiasi paragone con il mondo degli addetti ai call center o dei ricercatori a contratto o, ancora, dei lavoratori interinali nelle imprese industriali. Riconosce Vassellatti: "La mia è una precarietà di lusso. Comunque meglio del lavoro frustrante nel quale non c'è spazio per decidere nulla". Insomma, un'altra precarietà. Perché precario non è solo il lavoro poco qualificato e a basso salario. A 35 anni, la Vassellatti, diventa dirigente. La formazione è quella classica per una figlia della piccola borghesia meneghina. Micro imprenditore il padre, insegnante la madre, una sorella che diventerà biologa. La scuola dell'obbligo dalle suore e poi la Bocconi, laurea (110/110) in Economia aziendale con specializzazione in marketing. "Io sono stata molto fortuna", dice. "Non ho avuto difficoltà a trovare lavoro. Mi hanno sempre chiamata. E all'epoca era facilissimo: venivi cercato ancor prima di laurearti". Certo, l'epoca è quella del secolo scorso, ma di anni ne sono comunque trascorsi pochi. Sufficienti però per cambiare in profondità le regole del mercato del lavoro. Vassellatti passa da una multinazionale europea che produce birra, dove sale tutti gli scalini di prammatica, product manager, brand manager, group brand manager, alla multinazionale americana per antonomasia: la Coca-Cola. Poi di nuovo nel settore della birra con il più grande produttore del mondo (l'InBev). Dalle multinazionali si vede anche l'Italia, il suo declino, la sua marginalità economica in tanti casi. "Precaria appare l'Italia", sostiene Vassellatti, perché quando c'è da tagliare posti di lavoro o programmi di investimenti, uno dei primi paesi a subire le decisioni è proprio il nostro per le sue lungaggini burocratiche, per le sue incertezze giudiziarie, per la carenza di infrastrutture, per l'alto costo del lavoro. Insomma non basta raggiungere sempre i target per essere apprezzati o garantiti nel posto. "Tutte le strategie delle multinazionali vengono fissate dagli head quarter. E frustrante lavorare così. Peggio della precarietà". Da manager dipendente, Vassellatti lavorava le sue "classiche" dieci e più ore al giorno, weekend compresi. Alzatacce per le conference call, per rispondere alle e-mail, o per prendere un aereo. Perché nella politica di riduzione dei costi delle grandi aziende c'è anche quella di far viaggiare andata e ritorno i propri manager in giornata, risparmiando sulle spese per l'alloggio. "Cosa mi manca? Poco. Forse il budget da poter gestire, gli eventi, le grandi sponsorizzazioni". Dopo l'uscita dalla multinazionale, c'è l'ingresso nell'instabilità. "Ho sempre voluto fare un lavoro che mi piacesse. Per questo, dopo una pausa, ho deciso di restare nel mondo del marketing. E questo il mio ambiente, ho il mio network e qui a Milano ci si conosce tutti. Lavoro su progetti per le aziende. Guadagno meno, certo, ma non ho spese e non pago più il 50% del mio reddito in tasse. Non ho più l'Audi, giro in motorino o con la Smart che poi è un motorino coperto. Ma quello dell'auto è un problema che hanno soltanto gli uomini". La precarietà, ancorché "di lusso", permette di sperimentare nuove strade. Per esempio quella che Vassellatti chiama del "legal marketing" che, per i non addetti ai lavori, è più o meno la promozione degli uffici legali. In Italia pochi avvocati fanno pubblicità anche perché prima della "lenzuolata" di Bersani era vietato. Ora si può fare "ma convincere gli avvocati, che ti guardano con sospetto e distacco, non è facile". Vassellatti insiste nel dire che la qualità della sua vita è migliorata, ma non esita a rimarcare che non sarebbe così se solo avesse un figlio e una famiglia da mantenere. "La crisi comincia a sentirsi. Le aziende tagliano i budget. Bisogna moltiplicare gli sforzi. Ma posso organizzare il mio lavoro calibrandolo su me stessa". Sì, d'accordo, ma il suo futuro? "Precario, ma a modo mio". E la pensione? "Boh!".

venerdì 6 marzo 2009

OBAMA - la politica nell'era di Facebook

Consiglio a tutti la lettura di questo agevole libro di Giuliano da Empoli, edito da Marsilio TEMPI, in cui si racconta in modo chiaro e ben comprensibile come nasce un leader nel terzo millennio. Giustamente l'autore suggerisce che tutto questo può essere una lezione anche per il mondo politico italiano, fornendo una chiara e sintetica disamina nel confronto tra gli Stati Uniti e il nostro Paese, dando alcune - per me - preziose indicazioni. Il rammarico è che molto probabilmente i nostri politici non lo leggeranno...
E' bravo a evidenziare l'importanza del WEB 2.0 che avanza - ma qui in Italia pochi se ne stanno accorgendo - e come la comunicazione sta cambiando anche con strumenti di "Social Networking" come Facebook. Che non bisogna idolatrare come la soluzione di tutto, ma nemmeno scartare totalmente perchè Soru ha perso le elezioni in Sardegna, utilizzando questi strumenti. Il WEB 2.0 è un canale in più di comunicazione da tenere in giusta considerazione e occorre attrezzarsi per gestirlo.
Il mai e per sempre nella storia non esistono. Come un presidente di colore sarebbe stato impensabile anni fa, alla Casa Bianca, anche in Italia non è detto che tutto possa funzionare solo distribuendo volantini o organizzando riunioni politiche serali.

mercoledì 4 marzo 2009

Grameen, la banca dei poveri, sbarcherà anche in Italia

Grameen Bank, l'istituto che pratica il microcredito fondato nel 1977 dal premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus e diffuso oggi in 57 Paesi, sbarcherà presto anche in Italia, in collaborazione con Unicredit e l'Università di Bologna. Lo ha annunciato lo stesso Yunus, nel corso di un incontro pubblico con il presidente della Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti, davanti a una attenta ed entusiasta platea di giovani e studenti, accorsi per ascoltare il rivoluzionario 'banchiere dei poveri'. L'esperienza del microcredito, che eroga prestiti senza garanzie ai più poveri per permettere loro di avviare micro attività, approda così anche in Italia, dopo aver preso il via già in altri Paesi industrializzati, come Stati Uniti ("in una zona povera del Queens, con risultati eccellenti", ha spiegato Yunus) e Spagna. "L'iniziativa è in stato avanzato, siamo alle fasi finali degli accordi - ha spiegato il professore di economia natio del Bangladesh - collaboreremo con Unicredit e con l'Università di Bologna e, assieme a Grameen Trust, riusciremo a mettere assieme il progetto e far partire Grameen in Italia". Sulla possibilità di coinvolgere nell'iniziativa anche altri istituti, Guzzetti ha affermato che "più banche danno una mano e meglio è", auspicando che anche Intesa Sanpaolo, di cui la Fondazione è azionista, possa prenderne parte. L'auspicio è che il progetto possa prendere il via entro l'anno. "Non sarebbe proprio una vera banca ma un organizzazione di prestito, una Ong senza una licenza bancaria", ha spiegato Yunus. "Sarà un progetto che porterà credito a quelle persone che non possono averlo dalle banche tradizionali, se non dagli usurai e dagli strozzini. Ci rivolgeremo a queste persone dando denaro a tassi di interesse molto bassi per garantire loro la possibilità di avere un lavoro indipendente, autogestito". Oggi la Grameen Bank (la banca del villaggio) eroga prestiti a oltre 7,6 milioni di persone, il 97% delle quali sono donne, in 83.566 villaggi del Bangladesh. Yunus è in tour in questi giorni in Italia per promuovere il suo progetto di business sociale, che possa coinvolgere fondazioni, banche, imprese e multinazionali. Con il libro "Il banchiere dei poveri' ha raccontato la storia straordinaria della nascita della Grameen Bank e del sistema del microcredito. Oggi Yunus è pronto per una nuova sfida: proporre quell'esperienza come un modello per riuscire a estirpare la piaga della povertà. "E' tempo che la nuova idea del business sociale guidi la prossima grande trasformazione del mondo - ha spiegato Yunus, presentando il nuovo libro 'Un mondo senza povertà' - La sfida si può vincere con lo sviluppo e la diffusione del business sociale, un nuovo tipo di attività economica che ha di mira la realizzazzione di obiettivi sociali e non la massimizzazione del profitto. Non elemosina nè aiuti pubblici a pioggia bensì una forma di iniziativa economica capace di attivare le dinamiche migliori del libero mercato conciliandole con l'aspirazione a un mondo più umano e giusto".

martedì 3 marzo 2009

Il 2 per cento del Pil finisce nella pattumiera Ma c’è un modo per evitarlo

DI GIAMPAOLO FABRIS su Affari & Finanza del 2 marzo 2009
In periodi di congiuntura tanto difficile la lotta allo spreco diviene assolutamente prioritaria. Spreco significa infatti distruzione di risorse senza che sia nessuno a trarne vantaggio proprio quando, in momenti come l’attuale, dovrebbero essere invece valorizzate al massimo. Di tutte le forma di spreco quella alimentare è quella più imbarazzante. Anche per i significati culturali e simbolici del cibo. Si calcola è una valutazione abbastanza attendibile perché in molti Paesi il controllo delle immondizie è un codificato, anche se maleodorante, strumento di ricerca di mercato (dusbin check) – che circa un quinto della spesa alimentare finisca nelle immondizie. Una media di circa 600 euro annue per famiglia. Un dato davvero impressionate: pari al 2% del Pil. Uno spreco per via di confezioni scadute, acquisti in eccesso, deterioramento del fresco cui certamente contribuisce l’abitudine di fare la spesa una volta la settimana. La contrazione nella spesa alimentare registrata nell’ultimo anno è anche dovuta ad una forte riduzione degli sprechi domestici: in questi casi un effetto virtuoso della crisi in atto.Gli sprechi sono ancora più patologici e davvero incomprensibili nel settore della distribuzione. Laddove le eccedenze di cibo destinate ad essere gettate via sono ingentissime: perché si approssima la data di scadenza o perché stanno per deteriorarsi. Alimenti ancora commestibili: la data di scadenza è imposta dalla legge ma non è che il giorno dopo non siano più edibili, semplicemente non possono essere più venduti. Un esempio per tutti: nei giorni immediatamente successivi alla data di scadenza uno yogurt non diviene non commestibile, perde soltanto una parte del suo patrimonio di fermenti lattici. Capita così, per una miope lettura della normativa, che volumi davvero impressionanti di cibo vengano, cinicamente e colpevolmente, dirottati verso gli inceneritori. Sarebbe sufficiente l’indicazione di due diverse date di scadenza – una per chi vende, una per il consumatore – per arginare il fenomeno. Un impiego che va diffondendosi è la trasformazione di alimenti scaduti in mangimi per animali, soprattutto suini, o in biocarburanti. Certo meglio che niente, almeno lo spreco non è totale. Da poco si è aperto un canale di vendita per questi prodotti su Internet ma forse il rimedio è peggiore del male perché non si ha nessuna garanzia sulla non nocività dei prodotti, nessuna protezione per il consumatore. Eppure l’estensione di una pratica, ancora limitata ma di grande rilievo, consentirebbe una reale soluzione del problema. Nel senso di ovviare allo spreco e di aprire un canale privilegiato per gli strati meno abbienti della popolazione. Può darsi che esistano esperienze simili (fra queste certamente il Banco Alimentare) in Italia. Quella davvero esemplare, a cui faccio riferimento, è stata promossa da qualche anno da Andrea Segre preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna. Segre è un intellettuale scomodo, certamente un professore universitario atipico: ricordo le sue analisi, e denunce, su dove andavano a finire i soldi degli aiuti pubblici allo sviluppo. Il suo punto di partenza è stato proprio la dissipazione di un capitale tanto importante. La consapevolezza della diffusa realtà della distruzione di cibi "rapidamente deperibili dal punto di vista microbiologico e che possono costituire un pericolo per la salute" (come recita la legge sull’etichettatura) prima però che ciò avvenga, anche se la data è scaduta. Segre ha iniziato dieci anni fa con la sua città a fare da trait d’union tra i supermercati e gli enti di volontariato e di assistenza. Consentendo a questi di essere tempestivamente informati sulla disponibilità di alimenti altrimenti destinati alla discarica, di ritirarli e di consegnarli ai propri assistiti. Per i prodotti freschi il processo si conclude in poche ore. Segre è così riuscito a realizzare oltre 500 mila pasti in un anno per i meno abbienti. Questa esperienza, iniziata in sordina, è oggi presente in 14 città italiane, estesa anche a canali diversi dalla grande distribuzione (ad esempio singoli negozi), ed a tipologie di beni diversi dall’alimentare. Sembra l’uovo di Colombo ma sono stati raggiunti due obiettivi di grande rilievo: uno stop a uno spreco davvero vergognoso e la redistribuzione del cibo a segmenti bisognosi.

lunedì 2 marzo 2009

Salutiamo la primavera con i Lòm a merz

La Romagna è una terra storicamente votata all'agricoltura, attività soggetta alle avversità metereologiche. Per questo motivo la tradizione contadina del passato voleva che - per scongiurare la malasorte - venissero eseguiti dei riti propiziatori come i fuochi magici, in queste terre chiamati appunto i "Lòm a merz" (i lumi di marzo). L'accensione di falò propiziatori celebrava, e celebra ancora in tante zone di campagna, l'arrivo della primavera e invocava contemporaneamente un'annata favorevole per il raccolto dei campi e la fine del freddo e del rigore invernale. I fuochi che bruciano rami secchi e resti delle potature, fungono da una parte da elemento purificatore, dall'altro evocano ed invocano il calore e la luce della primavera in arrivo che porterà la rinascita della vegetazione. In questa occasione era tipico radunarsi nelle aie per uno dei pochi momenti di festa e socializzazione. Si cantava, si ballava e si mangiava. Predominante era la presenza di focacce dolci e ciambella, ma non era raro abbrustolire del pane "spazzato" con aglio, l'olio era prezioso, da accompagnare con zuppe condite con i prodotti disponibili al momento. Era certamente un momento di grande festa, e di inizio di qualche amore, accompagnato generosamente dal vino. Queste tradizioni si sono protratte in Romagna fino allo scoppio della II guerra mondiale, ripresi nel dopo guerra hanno perso il carattere più ludico. Vi capiterà in questi giorni, transitando in campagna al tramonto, di vedere ancora dei falò che, nell'incedere delle tenebre, assumono una valenza quasi magica e per un pò attraggono il nostro sguardo e la nostra mente. In questo periodo era particolarmente importante la festa dedicata a San Giuseppe che vedeva feste paesane e gite con pranzi e merende nei boschi, sui prati, nelle pinete. Un rito di buon auspicio - di origine celtica - per l'arrivo della bella stagione. In questi "pic-nic" del tempo si mangiavano uova sode, insalate di campo (crespini, pimpinelle, radicchi, valeriana), magari arricchita con i bruciatini e accompagnato da quel buon pane bianco fatto in casa o con della focaccia. Il tutto annaffiato con bottiglie di vino nero. Una particolarità di questa festa, poco nota, consisteva nell'usanza da parte delle ragazze "da marito", di osservare la vigilia il giorno antecedente la festa del santo, invocandolo con una curiosa filastrocca "San Jusef, San Jusef, fa si che a feza e pet".
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'Informazione di domenica 1 marzo 2009

domenica 1 marzo 2009

Costituzione, i diritti che non invecchiano

La costituzione è la legge suprema, la carta fondamentale e fondante dello Stato di diritto, dello Stato regolato dal diritto.La parola «costituzione» è moderna, non discende dalla constitutio e le constitutiones dei romani, e non si afferma nel suo significato attuale fino alla seconda metà del Settecento. I puritani inglesi, che pur furono i primi estensori di testi che noi diremmo «costituzionali», non li designarono mai così. Furono i costituenti americani, a cominciare dal 1776 in Pennsylvania e poi nel 1787 a Philadelphia per il nuovo Stato federale, ad adottare «costituzione» intesa come suprema legge. Li seguirono i rivoluzionari francesi del 1789. E la dizione si affermò un po’ dovunque, in Europa, nel corso dell’Ottocento. Fece eccezione Carlo Alberto di Savoia, che nel 1848 concesse al Piemonte uno «statuto», così detto perché era «ottriato», e cioè unilateralmente concesso dal sovrano. Ma lo statuto albertino ricalcava la costituzione belga del 1831, ed era una costituzione alla stessa stregua del suo modello.Il punto è, allora, che sin dalla fine del Settecento alla fine della Prima guerra mondiale il significato di costituzione era «garantista»: non designava qualsiasi forma, qualsiasi struttura dello Stato, ma specificamente quella organizzazione del potere che garantiva la «libertà da», la libertà dei cittadini dallo Stato, nei confronti dello Stato. Paine lo disse concisamente nel 1791: «Un governo senza una costituzione è potere senza diritto ». E nella Dichiarazione francese dei diritti del 1789 si legge: «Una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è definitivamente determinata non ha costituzione».Questa accezione garantista di costituzione viene travolta, o comunque respinta, dalla teoria pura del diritto di Kelsen e, più in generale, dal «formalismo giuridico» che si afferma tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Questo formalismo, attentissimo alla forma e alla coerenza del diritto, è però molto, anzi troppo disattento alla sostanza dei problemi. Resta il fatto che tuttora impera nell’insegnamento delle facoltà di giurisprudenza e nella forma mentis della nostra magistratura. E si capisce perché. Al giurista piace, così come piace e conviene a quasi tutte le specializzazioni, chiudersi in un proprio orto inespugnabile. Il che è bene per la sistematica deduttiva del diritto, ma male per il problema del potere politico. [...] Comunque sia, i nostri costituenti del 1948 uscivano dalla esperienza della dittatura fascista, e i cattolici e i comunisti di quegli anni si temevano e non si fidavano gli uni degli altri. Pertanto si impegnarono nella progettazione di uno Stato il più garantista possibile. Forse anche troppo garantista (a scapito della governabilità); ma che ci ha pur sempre garantiti per più di mezzo secolo.Le costituzioni non sono, e nemmeno dovrebbero essere, immodificabili. Sono, ovviamente, figlie del loro tempo. Però è importante che durino, che siano longeve. Infatti sono, per lo più, costituzioni rigide, e cioè sottoposte a speciali procedure di modifica. Lo è — rigida — anche la nostra. Ma mentre la costituzione degli Stati Uniti è stata modificata in piccolo, per dire con emendamenti di singoli articoli che ne lasciano invariata la struttura portante, noi abbiamo cominciato sin dal 1983 a vagheggiare riforme di interi blocchi della Carta originaria. Nessuna di queste riforme a blocchi è mai andata in porto fino al 2001, quando il governo Amato di centrosinistra varòin extremis un grosso pacchetto di riforme di tipo federalista (vedi, nel Titolo V su Regioni, Province e Comuni, specialmente i nuovi articoli 114-120). Questa riforma fu frettolosa, anche perché ispirata da interessi elettorali contingenti, e incompleta, nel senso che rinviava la riforma del bicameralismo paritario alla futura creazione di un Senato che fosse espressione di rappresentanza territoriale.Al momento abbiamo dunque una costituzione incompleta (e anche controversa) nel suo assetto federalista, mentre siamo assurdamente fermi sulle piccole riforme intese a rafforzare la capacità di governo — e così a correggere l’eccesso di parlamentarismo della Carta del ‘48 — attribuendo al capo del governo il diritto di scegliere e revocare i suoi ministri, e assicurando ai governi una maggiore stabilità introducendo l’istituto tedesco della sfiducia costruttiva. Su queste piccole riforme, che non toccano la struttura del sistema parlamentare, quasi tutti i costituzionalisti sono d’accordo. Eppure non si fanno.Berlusconi e Bossi hanno invece perseguito l’intento di disegnare una nuova costituzione — la cosiddetta costituzione di Lorenzago — che cambiava più di cinquanta articoli della costituzione vigente. Ma il progetto di Lorenzago è stato massicciamente respinto dal referendum del giugno 2006. Nonostante questo secco colpo di arresto, agli addetti ai lavori continua a piacere di ripensare la costituzione in grande. Così la questione più discussa oggi è se la prima parte del testo del ‘48 non sia largamente obsoleta e da rifare.Come già dicevo, è importante che le costituzioni durino e che diano «certezze» durevoli. È vero che alcuni articoli, o anche molti articoli, del testo elaborato sessant’anni fa esibiscono principii «datati». Per esempio, l’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro » (che nella formulazione proposta da Togliatti diceva «fondata sui lavoratori»). Ma la importante distinzione tra norme programmatiche (che sono soltanto «indirizzi», norme virtuali e latenti) e norme precettive (le vere norme cogenti) consente di mantenere in vita senza danno norme che sono, appunto, datate. Io lascerei al tempo il compito di rendere desuete le norme programmatiche che sono diventate tali e non me ne preoccuperei più di tanto. Le vere urgenze investono semmai le norme precettive sulla governabilità che ho richiamato poc’anzi.Concludo sottolineando la grande utilità di questo testo, e di un chiaro e sistematico aggiornamento di una costituzione che è già stata abbondantemente modificata e che molti citano ancora nella versione originaria e superata.

Giovanni Sartori - Corriere della Sera, 27 febbraio 2009