domenica 30 gennaio 2011

La classe

La classe è qualcosa che uno sceglie di avere. Consiste nel competere con lealtà, nell'affrontare i problemi a testa alta, accettando le lodi sperticate di buon grado e con umiltà, senza demolire gli avversari.
Se uno ha classe è leale con se stesso e con quelli che lo circondano. In ogni situazione di vita. Ci si potrà rammaricare a volte per avere tenuto questo comportamento che qualcun'altro ha sfruttato per danneggiarvi. Ma dentro ci si sentirà sereni e comunque felici. 
La classe nasce dal rispetto di se stessi e da una giusta considerazione degli altri. 

giovedì 27 gennaio 2011

27 Gennaio: Giorno della Memoria, per non dimenticare, mai !

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell'Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.

Il testo dell'articolo 1 della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria:

« La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. »

Un'ampia bibliografia è possibile reperirla a questo link: http://www.unilibro.it/find_buy/findresult/libreria/prodotto-libro/argomento-campi_di_concentramento_.htm 
 
Segnalo perchè letti personalmente:
- Se questo è un uomo di P. Levi
- Sonder kommando - S. Gradowski
- La risiera di san sabba - F. Folkel

- Tu passerai per il camino - V. Pappalettera
- Le cavie dei lager. Gli «esperimenti» medici delle SS - L. Sterpellone
- I medici nazisti - Lifton Robert J.
- Album Auschwitz

- Mauthausen. Storia di un lager - G. Mayda

- Da Buchenwald a Dora. Testimonianze dai lager - B. Giacomaniello

mercoledì 26 gennaio 2011

150esimo anniversario dell'Unità d'Italia: Il 17 marzo diventa una festa nazionale solo per questo anno

ROMA — Nel 2011 Pasquetta coincide con il 25 aprile e Natale cade di domenica. Ma l’anno dei ponti spariti avrà anche una festa in più, e sarà un giorno davvero speciale: il 17 marzo, un giovedì, uffici e scuole resteranno chiusi per lasciare spazio alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
«Penso che quel giorno non si andrà né al lavoro né in classe perché così è scritto nella legge» dice Gianni Letta durante la presentazione delle cerimonie ufficiali per l’anniversario nella sede della stampa estera a Roma.
«Ma non sarà così sempre — spiega il sottosegretario alla presidenza del consiglio—sarà così solo per il 2011, l’anno della ricorrenza».
Un giorno di festa in più, dunque, ma una tantum. E che dovrebbe riguardare non solo gli uffici pubblici ma anche il settore privato. Dovrebbe, perché in realtà la legge non è chiarissima e non modifica «l’elenco delle ricorrenze festive» fissato 60 anni fa e ritoccato solo una volta sempre per legge.
«Sarà probabilmente necessaria una norma interpretativa da parte del governo » dice Antonio Saitta, presidente della provincia di Torino che con l’Unione delle province, di cui è vice presidente, aveva lanciato la proposta per «consentire a tutti di celebrare l’unità del Paese».
Sempre il 17 marzo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sarà al Pantheon per rendere omaggio a Vittorio Emanuele, che proprio il 17 marzo del 1861 proclamò il regno d’Italia.
«È stato il primo capo dello Stato italiano—spiega Giuliano Amato, presidente del comitato dei garanti per le celebrazioni dell’Unità—ed è per questo che Napolitano andrà quel giorno al Pantheon, non c’è nulla a che vedere con i suoi successori».
Oltre alle tante iniziative che andranno avanti in tutto il Paese e per tutto l’anno, ci sarà poi un’altra giornata speciale, quella del 2 giugno, festa della Repubblica. La parata militare di Roma sarà tutta dedicata all’unità nazionale e saranno invitati 26 capi di Stato europei, più quelli di Stati Uniti e Russia, Obama e Putin, e quelli di Paesi con una forte immigrazione italiana, come Argentina, Brasile ed Uruguay.
I capi di Stato saranno sul palco delle autorità lungo i Fori imperiali e, dopo la colazione al Quirinale, in Campidoglio daranno il loro saluto all’Italia. L’intenzione era di invitare anche loro per l’anniversario del 17 marzo, spiega il sottosegretario Letta, «ma era una data troppo vicina per le loro agende». Sempre per i 150 anni dell’Unità erano state pensate una serie di grandi opere come l’auditorium di Firenze, il palazzo del Cinema di Venezia, la ristrutturazione del Teatro San Carlo di Napoli e del Museo nazionale di Reggio Calabria.
«Siamo ancora alle prese con i finanziamenti — spiega Letta — e mancano 100 milioni di euro. Ma cercheremo di portare avanti le 11 opere pubbliche progettate e già appaltate ».

Lorenzo Salvia

LA DATA

La ricorrenza. Il Regno d’Italia nacque il 17 marzo del 1861 e, lo stesso giorno, il Parlamento proclamò Vittorio Emanuele II di Savoia primo re d’Italia.
Il Presidente. Solo nel 2011, per ricordare il 150 esimo anniversario dell’Unità d’Italia, il 17 marzo sarà festa nazionale e ci saranno numerose manifestazioni. Il presidente Giorgio Napolitano sarà al Pantheon per visitare la tomba di Vittorio Emanuele II

domenica 23 gennaio 2011

Un anno gratis con gli scarti

Immaginate di avere fame, di non avere un quattrino e di non poter chiedere un prestito. Immaginate, in altre parole, di essere in una città sconosciuta a caccia di cibo. All'elemosina c'è un'alternativa più dignitosa, mostruosamente ovvia, sorprendentemente rivoluzionaria: andare al supermercato.

O meglio, andate nel retro del negozio a scoprire, fra i cassonetti dell'immondizia, i tesori di una silenziosa tragedia quotidiana. Tonnellate di prodotti alimentari assolutamente commestibili sono gettate via, ogni sera, in tutto il mondo occidentale. Nel pomeriggio di un giorno qualsiasi in uno dei tanti Waitrose - catena up market britannica - nella campagna del Sussex, non troppo lontano da Brighton, abbiamo fatto la spesa fra i rifiuti per almeno 100 euro mettendo in fila: tre confezioni di formaggio cheddar organico grattugiato, un ananas, fette di tacchino bio, una confezione di panna, quattro pizze, due sandwich con humus, un pacco di pan carrè, due chili di carote, due di zucchine, uno di cavolfiori, mezzo chilo di salsicce, verdure tagliate e confezionate, un pollo satay, mezzo chilo di carne trita, un salamino italiano e due mazzi di gladioli non ancora fioriti. Tutto perfettamente confezionato, scaduto da 24 ore oppure in scadenza quel giorno stesso o nei mesi a venire. Tutto commestibile, eccezion fatta per la carne trita di inquietante pallore. L'ananas era perfetto, gusto intenso, sapore allappante. Provato per credere.

«Non è andata molto bene. Questa è una spesa mediocre. Da Spitafield, a Londra, sono tornato a casa con 25 cesti di mango delizioso. Il cassonetto aiuta la maturazione». Tristram Stuart, 32 anni, una laurea a Cambridge, militante Freegan, ovvero divoratore di quanto è gettato via, per scelta ecologista e non politico-ideologica, si concede a farmi da guida nel mondo della spazzatura. Setacciamo insieme il pattume sotto gli occhi del tutto disinteressati dei passanti, che vanno a comperare quello che domani Tristram raccoglierà gratis.

Affonda fino ai gomiti, si fa largo, scava e, reperto alla mano, commenta. «Prendiamo questo salame italiano. È stato distrutto un pezzo di foresta amazzonica per far crescere la soya, importata in Europa e usata per sfamare i maiali, poi macellati, lavorati, insaccati, messi in vendita. E buttati via». Tristram ama le immagini forti e, sicuramente, le esemplificazioni, ma siede su un vulcano di dati complessi e di grande impatto messi in ordine in anni di lavoro per dare a una sensazione diffusa - quella dello spreco alimentare - la certezza dello scandalo planetario.

Da un terzo a metà del cibo dell'Occidente, sostiene, è gettato via nella lunga filiera che muove dalla produzione per finire nelle dispense dei consumatori. Che le arance in Sicilia e i pomodori in Spagna siano sempre distrutti è noto; che le patate deformi o le mele nane siano spesso eliminate è fatto quasi risaputo; che i supermercati mandino agli inceneritori migliaia di tonnellate di alimenti pronti per la tavola, molto meno.
Waste-Uncovering the global food scandal è la summa del grande lavoro di Tristram Stuart che analizza tutta la catena alimentare in buona parte del mondo. Un atto d'accusa che vagamente echeggia, nell'approccio globale, Super Size me, la vita a forza di McDonalds del regista Morgan Spurlock. «Mi hanno chiesto di fare un film, ho contatti con documentaristi, vedremo». Per ora si accontenta del libro e di una gloria nata per caso.
In principio fu Gudrun, formosa e insaziabile scrofa della qualità Gloucester Old Spot. «Avevo 15 anni - ricorda Tristram - e volevo nutrire il mio maiale con avanzi alimentari. Oggi è vietato da una legge europea scandalosa. È stata varata per far fronte all'afta, ma peggiora tutto, costringendo a produrre alimenti per i maiali quando si potrebbero allevare molto meglio con gli scarti». E continua: «Torniamo a Gudrun e alla sua fame. Per accontentarla e per far nascere maialini organici (Tristram li mangia, non li contempla perché Freegan non significa Vegan, ovvero vegetariano estremo, ndr) ho cominciato a raccogliere gli avanzi della mensa scolastica, degli agricoltori che buttavano le patate malformate, dei panettieri che si liberavano del pane poco lievitato».

Grazie all'amore di Gudrun, Tristram ha sviluppato l'occhio clinico per quel che resta. Utilissimo a Cambridge quando non c'erano più maiali da sfamare, ma lo stomaco di un giovanotto da riempire. Il suo. «Negli anni del liceo avevo capito che molti rifiuti sono in realtà commestibili. Da allora rummaging the bins è diventato normale per me. Non lo faccio per contestare la società capitalista come molti Freegan, né per risparmiare, a parte forse quando studiavo, ma per passione ecologica. Il cassonetto migliore per me è quello vuoto».

In realtà è un po' una fissazione che la moglie Alice, giovane scrittrice di successo, sembra accettare, più che favorire. Ma non disdegna, apparentemente. «Quanto spendo per mangiare? Dipende da quello che voglio, se non lo trovo lo compro. Ma mi creda, si trova tutto. Me lo ha insegnato Spider».
Se Gudrun è stata la scoperta, il clochard Spider, con una tela di ragno tatuata in faccia, è stata l'illuminazione: «Ci siamo incontrati nel supermercato Sainsbury's: quando gli ho fatto presente che non volevo prendere cibo utile ai mendicanti, lui mi ha risposto "Hey mate..., ma tu non capisci. Se tutti gli homeless del paese dovessero venire a sfamarsi qui ci sarebbe ancora molto cibo per te"». Era vero, e non solo in quel Sainsbury's o da Sainsbury's in quanto tale. È per tutti così. La verità è che i manager dei supermercati in quegli anni non erano affatto interessati al cibo che si buttava via. E oggi? «La situazione è un po' migliorata, ma nel mio libro porto l'esempio di una recentissima spesa di successo, non come quella mediocre fatta insieme. In un Waitrose ho trovato: 28 pasti pronti - da chicken tikka a lasagne - 83 yogurt, 16 paste, sei meloni, 223 frutti vari, 23 brioche, una torta al cioccolato, sei pacchi di patate, 18 forme di pane.
Quello del pane è un dramma. I produttori dei panini di Marks & Spencer eliminano le due croste e le prime fette dopo le croste di ogni pane a cassetta. Migliaia di pezzi ogni giorno».

Il caso britannico, sul quale il libro si diffonde maggiormente, non deve fuorviare: è una realtà che si moltiplica, per ragioni quasi analoghe, ben oltre i confini del Regno. Per Tristram Stuart accade ovunque, anche in Italia. «Nelle sole abitazioni del Regno Unito il governo ha calcolato che si getta via un quarto del cibo acquistato. Cibo vero, non bucce di banana o avanzi non commestibili. Sono 5,4 milioni di tonnellate all'anno. Si parla di una media di 112 chili a persona. In America 96 anche se, calcolato con un metodo diverso che ridurrebbe, qualora applicato al Regno Unito, lo spreco britannico a 70 chili. In Italia ho ipotizzato 73 chili, ma sulla base di quanto è stato recuperato dalle pattumiere di un campione di case in alcune aree del nord del paese. È difficile dire, in questo caso, quanto cibo fosse davvero commestibile, resta un'indicazione. Quando studiavo a Firenze battevo i supermercati con lo stesso successo di Londra».
Sulle ragioni dello spreco Tristram Stuart mette in fila varie motivazioni: «Limitandoci a considerare i supermercati, pesano una serie di fattori. Nessuno vuole vedere scaffali semivuoti e l'abbondanza della merce è considerata dai manager essenziale; è più semplice eliminare piuttosto che pianificare il riciclaggio; è più economico per un supermercato avere più cibo ed eventualmente gettarlo piuttosto che non averne; è opinabile la capacità di programmazione dei quantitativi necessari». E prosegue: «Un elemento che contribuisce parecchio allo spreco sono le offerte "prendi tre, paghi due": compri ciò che non ti serve e finisce che il consumatore cestina l'eccedenza. Se acquistassi una cosa a prezzo ridotto sarebbe molto meglio. In Inghilterra ogni anno, finiscono in discarica 480 milioni di yogurt mai aperti».

Resta da capire perché al macero e non a favore dei meno abbienti, degli anziani bisognosi, del mondo delle charity. FareShare, l'unica organizzazione britannica che si occupa di recuperare gli scarti dei supermercati ponendosi in concorrenza diretta con le discariche, ritiene che il motivo principale sia, come dice la portavoce Maria Olsen, «la difficoltà da parte della grande distribuzione di integrare politiche del genere nel proprio modello di business».
Come dire: è più semplice buttare via, senza curarsi di quanto si appesantisce l'ecoinsostenibilità del sistema. «Se le mie raccomandazioni - aggiunge Stuart - fossero accolte si recupererebbe un terzo della produzione alimentare del pianeta». Qualcuno lo ascolta se è vero che Sainsbury's ha portato a 6.600 le tonnellate di cibo che riesce a dirottare ai più bisognosi. L'inizio di un nuovo corso? La strada è lunga e, prima dei supermercati, incrocia la produzione, l'industria e le cattive abitudini dei consumatori.
Tristram fa la sua parte da quindici anni. Per amore di Gudrun e, per la cronaca, senza mai essersi preso neppure un legittimo mal di pancia.

leonardo.maisano@ilsole24ore.com

sabato 22 gennaio 2011

Cari antisionisti ascoltate Luther King

Consiglio la lettura di questo libro, unitamente a quello di Sergio Romano "Lettera ad un amico ebreo".
Per inciso nel fine anno sono andato in Israele e il timbro l'ho voluto assolutamente.

Il libro di Battista per chi non riconosce la legittimità dello Stato di Israele

Reduce da un indisponente interrogatorio ai controlli di sicurezza in partenza, il viaggiatore appena sbarcato si presenta allo sportello doganale dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, e si sente formulare un’altra domanda spiazzante. «Il timbro lo vuole sul passaporto o a parte?». La maggior parte dei Paesi arabi, infatti, anche quelli lontani e niente affatto belligeranti, nega l’ingresso a chi porta il timbro d’Israele marchiato sul documento, a prescindere dalla sua nazionalità. È una forma di negazione bislacca, in fondo innocua e facilmente aggirabile: chi non esclude di recarsi nell’universo islamico si fa timbrare un foglio da restituire all’uscita da Israele, lasciando intonso il passaporto. Questa limitazione è dunque una nota quasi folkloristica, ma carica di un significato storico pregnante. Prima ancora che un nemico da combattere, Israele è da sempre per il fronte arabo una realtà da negare, mentalmente e materialmente. Nelle sue invettive, Ahmadinejad non menziona mai per nome il suo destinatario: è «l’entità sionista», un’ombra vaga e fragile, senza consistenza.

Questa negazione «esistenziale» del nemico non è solo un radicalizzare il conflitto, non è solo o necessariamente la spia di una volontà di annientamento. Prima ancora che ostilità assoluta, indica un modo di pensare. È una caratteristica di quel conflitto che da decenni sta alla ribalta della cronaca mondiale, è l’espressione, magari subliminale, del rifiuto di considerare Israele e gli ebrei come una realtà normale o normalizzabile. Il sionismo e lo Stato d’Israele sarebbero una contraddizione in termini, un’esistenza fasulla. A colui che, in modi più o meno obliqui e confessi, non è disposto a riconoscere la legittimità dello Stato ebraico, il diritto degli ebrei a esercitare l’autodeterminazione storica prima ancora che politica, è dedicato il nuovo libro di Pierluigi Battista, Lettera a un amico antisionista (Rizzoli, pp. 120, euro 17,50). Non un pamphlet ma decisamente di più, come attesta un illustre precedente, di pari titolo: «Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente “antisionista”. E io dico: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei… E che cos’è l’antisionismo? È negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell’Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. È una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio».

Non sono parole di un falco colonial-imperialista, ma nientemeno che di Martin Luther King, scritte nel 1967, subito dopo la guerra dei Sei Giorni. Battista, che si collega indirettamente, per contro, anche alla Lettera a un amico ebreo di Sergio Romano, ripercorre in questo suo nuovo libro gli eventi successivi, focalizza lo sguardo attento sulle costanti (molte, purtroppo) e sui cambiamenti che delimitano ora la questione israelo-palestinese. Ribadisce l’ovvia legittimità delle critiche alle politiche di governo, spiega qual è la differenza tra questo esercizio e l’«ostilità esistenziale». Illustra la particolarità di questo conflitto: la tragedia di rappresentare un simbolo, oltre alla tragedia stessa - guerre, vittime, morti. La «sublimazione» del conflitto, che è la causa della «dismisura» di visibilità e mobilitazione di cui Battista fornisce un’ampia disamina, è tra le cause del suo stallo.

Il sacrosanto diritto dei palestinesi all’autodeterminazione (negata peraltro dal fronte arabo che rifiutò la risoluzione Onu del novembre 1947 con cui si sanciva la nascita di due Stati palestinesi - uno arabo e uno ebraico) confligge, oltre che con il triste presente politico, anche con la «trascendenza» che le hanno assegnato i filopalestinesi e antisionisti (ma perché le due cose devono necessariamente negarsi a vicenda?). Diventata bandiera universale, la questione palestinese si scolla dalla realtà e stagna nel pantano di un presente un po’ rabbioso e un po’ rassegnato, per colpa non solo di un Israele aggressivo o di un’autonomia palestinese passiva, ma anche di quella schiera di amici che l’hanno imbalsamata nell’«incarnazione, il paradigma, il simbolo della Vittima».

Elena Loewenthal - La Stampa

giovedì 20 gennaio 2011

Cornetto, il "copyright" è veneziano

Nel '600 arrivò in Laguna il dolce che celebrava la vittoria sui turchi.

Il parco che circonda la Fondation Maeght di Saint-Paul-de-Vence, a pochi passi da Nizza, sembra quasi irreale per le sculture e le fontane di Miró e Chagall. Accanto, il piccolo bar nascosto nel verde è arredato con tavolini e sedie intarsiate di Giacometti. La locandiera spolvera il marmo del bancone, sospira e chiede ai turisti italiani: «Adoro il mio lavoro e mi piace farlo come si deve, perciò ditemi, non mi offendo: il mio cappuccino è buono come il vostro?».

Il primato italiano è un mito. Non fosse altro che il cappuccino lo prepariamo da più tempo. E lo serviamo insieme al «cornetto», alias «brioche», alias «croissant»: la loro patria, nonostante i nomi francesi, è l’Italia. Più precisamente, Venezia.

La tesi è di Gianni Moriani, ideatore del master in «cultura, cibo e vino» all’Università Ca’ Foscari che sull’argomento ha scritto un libro «Cornetto e cappuccino. Storia e fortuna della colazione all’italiana» (edizioni Terra Ferma).

Le prime notizie del caffè, materia indispensabile per un buon cappuccino, lo descrivono «acqua negra» e sono del 1615: le portarono a Venezia i viaggiatori da Costantinopoli. Per gli stretti rapporti economici i commercianti italiani, levantini e lungimiranti, decisero d’importarlo. Trent’anni dopo, nel 1645, accade ciò che oggi si definisce un boom: Goldoni alla bevanda dedica una commedia, Bach compone una cantata. L’«acqua negra» entra nella cultura e frequentare i «caffè» diventa un modo di essere della borghesia veneziana. Ma il lusso, come spesso accade, finisce per essere gustato anche dalla povera gente. E dei poveri frati: uno di loro, nel 1683, inventa il cappuccino.

Marco da Aviano, diplomatico raffinato dall’eloquio straordinario, viene mandato a Vienna dal Papa per coalizzare la lega cattolica contro il nemico turco. Qui, per gustarsi un caffè (che da Venezia intanto aveva raggiunto il resto dell’Europa) entra in una bottega accanto al Duomo: non gli piace granché, l’aroma è troppo forte, chiede di aggiungere acqua, poi latte e il colore scuro vira verso il marrone. Assomiglia a quello del saio che indossa. L’esclamazione di chi lo serve, per quanto lapalissiana, è la più immediata: «Kapuziner!».

Ma non esiste cappuccino senza croissant, e il professore Moriani, nel libro, spiega anche le origini del dolce che nel nord Italia si chiama «brioche» e nel centro sud «cornetto». Il primo termine deriva da «brier», impastare, il secondo ha una chiara valenza popolare partenopea. Ma «croissant» che vuol dire?
L’origine della nascita del dolce è nella scelta francese del nome: significa «crescente». Come la luna nella bandiera turca. Già perché il cornetto è legato all’assalto ottomano a Vienna nel 1683, un anno decisivo per la colazione italiana. I turchi strategicamente pensarono di sorprendere l’esercito di notte. A far fallire l’attacco, una categoria che di notte lavora, i fornai. A molti di loro si deve la vittoria dell’Austria e a uno soltanto la creazione del dolce per festeggiarla: una pastafrolla a forma di mezzaluna - appunto «crescente» - il «kipferl»: per mangiare simbolicamente gli ottomani.

E così, poiché la repubblica di Venezia confinava con l’Austria, «il dolce - dice certissimo il professor Moriani - prima di arrivare in Francia per la golosità di Maria Antonietta, è sbarcato in laguna col nome “chifel”. Ci sono tomi, documenti a confermarlo».

Un cumulo di certezze per il professore e la barista della Fondation Maeght che in attesa della risposta sulla qualità del suo cappuccino scruta l’espressione degli italiani: «Lo so, il segreto è nell’equilibrio dei sapori e nella consistenza della schiuma. Battaglia persa: sono doti che voi avete nel dna».

ELENA LISA

Parliamo come mangiamo o mangiamo come parliamo?

Quando frasi, parole, detti popolari, prendono come riferimento termini enogastronomici.

Quanti si soffermano a riflettere su quante frasi, parole, detti popolari, “condiscono” la nostra lingua quotidianamente? A conferma dell'importanza che rivestono, in Italia, il cibo e la cucina nella nostra vita, in quella “way of life” che tutto il mondo ci invidia. "Le parole che mangiamo" sono un tutt'uno con il nostro lessico nell'uso comune e sicuramente la maggioranza delle persone, non ci fa più caso. Invece le utilizziamo come metafore tutti i giorni, per sottolineare azioni, esprimere giudizi, indicare situazioni od oggetti. Così, ad esempio, parliamo di grossa "nespola" quando vogliamo evidenziare una bella botta o un bel problema, di "cipollone" se vogliamo indicare un orologio magari un po’ datato, esprimiamo invece un giudizio negativo quando diciamo di una persona che non è "nè carne nè pesce". Comunichiamo continuamente con espressioni gastronomiche, siamo in alcuni casi "da uova e da latte", a volte veniamo definiti “bolliti" o “pesci lessi” oppure possiamo "essere della stessa pasta" o "avere le mani in pasta". Possiamo "dividerci o spartirci la torta" viceversa accontentarci di “un tozzo di pane”, sapere o meno "cosa bolle in pentola", siamo bravi a passare "la patata bollente" a qualcun altro, anche se di solito finisce tutto a "tarallucci e vino". A volte veniamo beccati “con le dita nella marmellata” e, forse, un po’ ci vergogniamo. Noi italiani ci lamentiamo che è "sempre la stessa minestra" o comunque "una minestra riscaldata", ma siamo "di bocca buona" anche se in certe occasioni "non riusciamo a digerire il tale". Chi è iperattivo mette "troppa carne al fuoco" con il rischio che ci "sia tanto fumo e poco arrosto", c'è sempre chi "la vuole cotta e chi la vuole cruda", chi ha la fortuna di cadere "come il cacio sui maccheroni" oppure di essere ovunque "come il prezzemolo", il peggio però è essere "cattivi come l'aglio". Ci sono anche le persone tutto "latte e miele", quelli che riescono sempre a mettere "la ciliegina sulla torta" nei lavori, chi fa "cuocere nel suo brodo" gli altri, ma poi in fondo dice che… “tutto fa brodo", qualcun altro sa "allungare il brodo", ma i peggio sono quelli che "rivoltano sempre la frittata". C’è anche chi "fa la frittata". E come ci stanno antipatici quelli che hanno sempre avuto "la pappa fatta". Quante volte abbiamo pensato: "che pizza". Ci sono persone che "non valgano un fico secco", altri dicono delle cose che "c'entrano come i cavoli a merenda". A volte si "rimane a bocca asciutta". Ci sono persone che definiamo "tenere come il burro" e quelli che vorrebbero invece "far le nozze coi fichi secchi", a volte si mette "tutto nello stesso calderone". I bravi si specializzano nel loro "piatto forte" per poter impressionare, qualcun altro "è alla frutta". E chi non sa che non bisogna far sapere al contadino "quanto è buono il formaggio con le pere". Ci sono persone che hanno "sete di conoscenza" e "divorano libri". Si potrebbe continuare ancora, tanto è “infarcita” la nostra lingua di tali espressioni. Mi colpisce, negli ultimi anni, il fatto che molti manager amano usare allegorie legate alla cucina o alla ristorazione per spiegare la “mission” della loro azienda o la qualità dei servizi erogati. La cucina si conferma ancora una volta una grande forma di civiltà e maestra di vita.

Pierangelo Raffini

martedì 18 gennaio 2011

Essere Steve Jobs

Mi è piaciuto molto. Come al solito un Steve Jobs si conferma essere un genio anche nella comunicazione. Consiglio la lettura a chi vuol migliorare l'efficacia dei suoi interventi con Power Point o Keynote.


I segreti del più grande venditore di idee dei nostri tempi. D'ora in avanti anche tu potrai stupire il tuo pubblico come Steve Jobs.
Fin dal lancio del primo Macintosh ogni intervento pubblico di Steve Jobs si trasforma in un evento memorabile. Che stia presentando il nuovo iPhone o tenendo un discorso a un gruppo di neolaureati, il genio di Apple riesce a elettrizzare la platea grazie a uno stile unico. Jobs non si limita a dare informazioni ma racconta una storia, pennella un'immagine, trasmette una visione, offrendo ai propri ascoltatori un'esperienza coinvolgente e indimenticabile. Non è un segreto per nessuno che il grande successo dell'azienda di Cupertino si debba anche (qualcuno dice soprattutto¿) alla straordinaria abilità comunicativa del suo capo .Ma il carisma è un talento innato? Assolutamente no. Le abilità e le tecniche di Steve Jobs si possono imparare. In queste pagine l'autore, un esperto communication coach che da anni si dedica all'analisi delle sue presentazioni, illustra tutti i segreti che hanno fatto di Jobs il comunicatore più convincente dei nostri tempi. Grazie agli esempi dettagliati e alle strategie illustrate in questo libro, da oggi anche tu potrai esporre le tue idee, trasmettere il tuo entusiasmo e stupire il pubblico proprio come Steve.Uno strumento indispensabile per chiunque desideri migliorare le proprie doti comunicative - dal CEO impegnato nel lancio di un nuovo prodotto, all'insegnante che voglia coinvolgere i propri studenti, a chi sia semplicemente interessato a "vendere bene" se stesso - e una lettura imperdibile per tutti i fan della mela morsicata e del suo guru.

Perché non temere la morte

Il più rabbrividente dei mali, la morte, nulla è per noi, perché, quando noi siamo, la morte non è presente, e quando è presente la morte, allora noi non siamo.

Epicuro

sabato 15 gennaio 2011

Andiamo a cena in libreria

Da negozi a "social network" in cui mangiare, incontrarsi, discutere delle proprie passioni

Notturne, mangerecce, esoteriche, sportive, marinare, femministe, girotondine, fasciste, erotiche, religiose, modaiole, «musicose», low cost. Altro? Metà delle librerie italiane è così: posti in cui non si va per comprare best seller ma per cercare risposte a interessi solo nostri. Oppure - ed è questa la novità - luoghi in cui incontrarsi e socializzare con chi la pensa come noi.

Il cibo
Nei bastioni delle mura cinquecentesche di Palermo, vicino Porta dei Greci, il Kursaal Kalhesa è una libreria «ipogea», ricavata nei sotterranei di palazzo Forcella-De Seta. Fuori ci sono il mare e il quartiere della Calza: fino a pochi anni fa non esattamente un posto per dandy e signorine. Se l'atmosfera è cambiata qualcosa si deve anche a questa libreria, dove non ci sono solo libri ma anche salotti in cui leggerli, un giardino in cui prendere il sole e un ristorante. È l’esempio di una contaminazione cibo-cultura-libri che da Palermo ha risalito la penisola. E così si legge, si sente musica e si mangia anche al «Bibli» di Roma, in pieno Trastevere, o da «Libri e caffè» a Milano.
«L’abbinamento tra lettura e cibo - spiega Giovanni Peresson, direttore dell'Ufficio studi dell'Aie, l’associazione degli editori - è una delle esperienze più riuscite del fare libreria negli ultimi anni. Al libraio serve per sostenere i costi, al cliente per ribadire che la lettura è un piacere come gli altri, per esempio il mangiare». Talmente vero che ad Alba (Cuneo) Clemente Inaudi e Gigi Marchisio hanno aperto «I piaceri del gusto», sottotitolo: «Enolibreria». Il vino e le cose buone, con tutta la cultura che c'è intorno.

I viaggi
«Non c'è vascello che come un libro possa portarci in contrade lontane» scriveva la poetessa americana Emily Dickinson (di per sé del tutto stanziale), e sarà forse per questo che dopo il cibo è il viaggio a essere declinato spesso insieme al libro. «La libreria del viaggiatore» a Roma, in via del Pellegrino (nomen omen), non risponde solo all'esigenza di chi deve partire, ma è anche una biblioteca sul viaggio. Analogamente le librerie del mare - ce ne sono a Milano, Roma, Palermo - raccolgono gli appassionati delle onde.

Il cinema
Contro la concorrenza spietata e inarginabile dei grandi bookstore, dunque, le piccole librerie si specializzano e coltivano nicchie settoriali e spesso ricche. D’altronde ogni anno si pubblicano in Italia circa 54 mila titoli, molti di questi hanno vita breve sugli scaffali e chi ha interessi specifici rischia di non trovarli più . E allora ecco che i cinefili vanno a colpo sicuro, nella «Libreria del cinema» di Roma o di Milano. In quest'ultima città possono rivolgersi anche alla «Libreria dello spettacolo» o alla «Babele», mentre a Roma una ricca offerta è presente nel mega-shop dell'Auditorium.
Grande scelta anche per tifosi dell'agone: il marchio «Libreria dello sport» è presente in varie città come Milano, Torino, ma anche Pesaro. A Parma, capitale verdiana, non poteva mancare una libreria sulle stesse corde. C’è infatti «Musidora»: pane per tutti, dai melomani ai rockettari. La «Libreria del fumetto» di Milano (così come «Little Nemo» a Torino), invece, non vende solo ciò che promette, ma soprattutto fantastiche e costose tavole originali dei personaggi più noti.

La notte
«I veri libri - diceva Proust - devono essere figli non della luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio». Per questo c'è chi ha pensato ai libri per gli insonni e gli amanti della notte. Nel borgo antico di Biella c'è «La civetta», luogo che evoca le taverne fumose di un tempo: al piano terra i piaceri del palato, a quello superiore quelli dello spirito, sollecitati da libri raffinati. Il tutto fino alle ore piccole. Anche nella Bari vecchia, a ridosso del fortino, c'è una libreria che preferisce la luna al sole: «La Gaia scienza» di evocazione Nietzschiana e a attenta ai temi esoterici. Sempre a Bari vecchia c'è anche «La terra di Tule», vicina alla società «Tolkieniana»: fantasy, ma anche simpatiE per il pensiero di destra tra il celtico e il neopagano.
È tutto? No, ci sono le piccole librerie per grandi minoranze: le molte «Librerie delle donne», le sempre più diffuse librerie gay. Un’ultima chicca: «Mondobizzarro», a Roma, ha tutto sull'erotismo, comprese stampe d'epoca, illustrazioni artistiche, cartoline, letteratura amorosa e, va da sé, «istruzioni per l'uso».

RAFFAELLO MASCI - La Stampa

L'importanza di definire il proprio obiettivo

Il maggior pericolo per tutti noi non è che il nostro fine sia troppo elevato e non riusciamo ad arrivarci, ma che sia troppo basso e lo raggiungiamo.

Michelangelo

venerdì 14 gennaio 2011

L'Hagakure: un libro fondamentale

Si può imparare qualcosa da un temporale. Quando un acquazzone ci sorprende, cerchiamo di non bagnarci affrettando il passo, ma anche tentando di ripararci sotto i cornicioni ci inzuppiamo ugualmente. Se invece, sin dal principio, accettiamo di bagnarci eviteremo ogni incertezza e non per questo ci bagneremo di più. Tale consapevolezza si applica a tutte le cose.

Hagakure (1, 79)

L’autore

Yamamoto Tsunetomo vissuto tra il 1659 ed il 1721 è stato un militare e filosofo giapponese, ma è stato soprattutto un vero e proprio Samurai della prefettura di Saga nella provincia di Hizen, al servizio del Daimyo Mitsushige Nabeshima, al cui servizio era entrato all’età di soli 9 anni.
A vent’anni conobbe prima Tannen, un monaco Zen che aveva lasciato il tempio locale in segno di protesta per la condanna di un altro monaco, e Ishida Ittei, un letterato confuciano consigliere di Nabeshima esiliato per più di 8 anni per essersi opposto alla decisione di un daimyo. Quando il suo patrono morì nel 1700, Tsunetomo ebbe alcuni screzi con il successore di Nabeshima e decise pertanto di prendere i voti buddhisti con il nome Jōchō e di ritirarsi in un eremo sulle montagne.
Ormai vecchio, tra il 1709 e 1716 raccontò i suoi pensieri a un altro samurai, Tsuramoto Tashiro; molti di questi riguardavano il padre e il nonno del suo patrono, il bushidō e la decadenza della casta samurai nel pacifico periodo Edo. Tashiro non pubblicò il contenuto delle conversazioni avute con Tsunetomo che molti anni più tardi, con il nome collettivo di Hagakure (葉隱 o 葉隠, Hagakure, ovvero “All’ombra delle foglie”).

Pubblicato per la prima volta nel 1906, ma composto due secoli prima, Hagakure è una delle opere più famose e controverse tramandateci dalla letteratura giapponese. Esso racchiude l’antica saggezza dei samurai sotto forma di brevi aforismi. L’autore, Yamamoto Tsunetomo, vissuto in un’epoca di pace e di conseguente decadenza della figura del samurai, si chiuse in un monastero buddhista, dove per sette anni ammaestrò all’antico codice d’onore il giovane Tashiro Tsuramoto. L’allievo trascrisse le conversazioni avute con il maestro e le raccolse negli undici volumi che compongono “Hagakure”, preziosa testimonianza di un pensiero complesso e positivo, ben diverso dallo stereotipo del kamikaze votato all’annullamento di sé ancora vivo nell’immaginario occidentale. La scelta di aforismi operata dalle curatrici di questo volume mira a far conoscere al pubblico italiano l’attualità e l’universalità dell’etica samurai, e vuole essere un invito alla riflessione e uno strumento per la ricerca interiore.

Alcune domande chiave da porsi

In cosa sei bravo ?
In cosa potresti essere migliore ?
Cosa ti rende felice ?
Cosa ti emoziona ?
Cosa ti fa sentire realizzato ?
Quale è la cosa fatta nella tua vita che ti rende più orgoglioso ?
Sapresti rifarla o svilupparla ulteriormente ?
Cosa ti diverte condividere ?

giovedì 13 gennaio 2011

E’ boom per la cucina giapponese, ma è solo una moda?

Sushi, wasabi, sashimi: termini che stanno diventando usuali anche nei nostri territori.
Da alcuni anni il nostro Paese si è arricchito con proposte di cucina giapponese. Tutto è iniziato quando i primi ristoranti cinesi si sono convertiti al Sol Levante. Ho sorriso dentro di me un pò compiaciuto, avendo conferma del mio pensiero: considero la cucina un’arte che unisce. La storica inimicizia sino-giapponese, legata ai misfatti di Nanchino nel ’39 ad opera delle truppe giapponesi, era stata cancellata grazie al potere della gastronomia.

Oggi l’avanzata del sushi è un dato di fatto. Una moda? Forse. Ma se fosse solo una moda, la cosa sarebbe stata abbandonata da tempo e la maggioranza della gente ci andrebbe una volta sola. Mi rendo conto invece che oggi molti considerino il sushi un’alternativa alla pizza e ad altri ristoranti. L’aumento del 72%, negli ultimi 10 anni, dei ristoranti stranieri fornisce una conferma. Un altro dato racconta che il 90 % dei ristoranti giapponesi in Italia sono in mano ai cinesi. Ancora loro. Non solo. Da pochi anni stanno nascendo catene di franchising per la ristorazione giapponese, create da italiani, es. Sosushi (www.sosushi.it), che curano sia l’immagine che la qualità del prodotto, assumendosi l’onere della formazione degli “suhi-men”, sempre più ricercati e della diffusione di una certa cultura, attraverso la pubblicazione di testi.

Il Giappone da noi ha avuto influenze ondivaghe. Negli anni ’70 le prime aperture delle palestre per l’insegnamento delle arti marziali che, nel giro di pochi anni dilagarono in tutta l’Italia per poi flettere inesorabilmente dagli anni ‘80, in cui partì la passione per i film di Akira Kurosawa. Veri “must” per intellettuali e “radical-chic”. Kurosawa si portò appresso anche una certa letteratura legata ai Samurai e allo studio dell’Hagakure (il codice dei samurai). Dai primi anni ’90 cominciano ad arrivare - in particolare a Milano e Roma - i primi ristoranti di Sushi.

Ma cos’è il sushi? Brevemente si tratta di una cucina basata su piccoli pezzetti di pesce crudo, ma non solo, accompagnati con riso - cotto con aceto di riso, zucchero e sale - da inzuppare in salsa di soia nella quale è stata stemperata una piccolissima dose di wasabi. Il wasabi è una salsina verde che accompagna molti piatti giapponesi. Esistono vari tipi di sushi, quelli che più attraggono maggiormente l’occidente sono i vari futomaki, hosomaki, uramaki. Si tratta di sushi di varie forme che hanno in comune la presenza di un’alga scura - chiamata nori - intorno al riso o all’interno del pesce. Questi “piatti” hanno vari tipi di guarnizione quali ad esempio: tonno pregiato, salmone, polpo, uova di pesce, anguilla, gamberetti, frittata, avocado, cetriolo. Frequentando questi locali troverete anche il termine sashimi che significa pesce crudo senza nient’altro. L’arte del sashimi è nella filettatura, cioè nel modo in cui viene tagliato e per mangiare un buon sashimi è fondamentale che il pesce sia fresco e di qualità. Ecco su questo punto, invece non banale, molti esercizi improvvisati o riciclati distruggono tutta la “poesia” che questa cucina possiede. E’ vero che molte persone non sono in grado di giudicare questo elemento, impressione acquisita dai giudizi più disparati che nascono durante una cena a base di pesce “normale”. Con il sushi si beve sake, freddo o caldo, (bevanda alcolica tipica giapponese realizzata dal riso) oppure tè verde bollente.

Tenete presente che in un vero ristorante giapponese i prezzi non sono popolari, tutt’altro. Proprio perché si dovrebbe usare pesce crudo, quindi freschissimo, il costo sale. In Italia capita di sovente, ma quasi sarebbe inutile sottolinearlo, che venga immediatamente recepita e applicata la questione del prezzo, mentre per la qualità ci si pensa strada facendo...

Se non siete mai stati, preparatevi a farvi trascinare alla prova del Sushi. Troverete la non richiesta disponibilità di qualche amico che vorrà farvi vivere un’imperdibile esperienza di cui avreste in realtà fatto volentieri a meno. Nel caso poi siate un minimo identificati come buongustai o gastronauti sarete inesorabilmente colpiti da una frase, come una frustata micidiale, che suonerà più o meno così: “ ...proprio uno come te non ha mai provato il Sushi...”, accompagnato da uno sguardo di leggero compatimento come a dire “e poi vuoi fare l’intenditore”. Probabilmente vi toccherà pure mentire per non essere tacciati di pochezza culturale e xenofobia gastronomica. Salvo che, trovando un momento di orgoglio, non decidiate di reagire come Fantozzi di fronte all’ennesima proiezione del film sulla corazzata Potemkin pronunciando “per me il sushi è una c... bestiale”. Il vantaggio da tutto questa cucina ricercata e molto “fusion” è che ne guadagna la linea, vi sentirete leggeri all’uscita, un poco anche nel portafoglio. Per concludere comunque, scegliete o fatevi consigliare un ristorante adeguato, e fate questa conoscenza almeno una volta. Potrebbe anche piacervi.

Pierangelo Raffini

La perfezione

La perfezione è raggiunta non quando non c'è più niente da aggiungere, ma quando non c'è più niente da togliere.

Antoine de Saint-Exupery (autore del Piccolo Principe)

lunedì 10 gennaio 2011

Scopri l'Amore

Prendi un sorriso, regalalo a chi non l'ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole, fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente, fa bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima, posala sul volto di chi non ha pianto.
Prendi il coraggio, mettilo nell'animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita, raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza, e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà, e donala a chi non sa donare.
Scopri l'amore, e fallo conoscere al mondo.
Mahtma Gandhi

domenica 9 gennaio 2011

Riflessioni per questo inizio 2011

Ogni inizio d'anno la maggioranza delle persone, ritengo, si propone dei "buoni propositi" da attuare perchè si inizi bene, con il piede giusto, con le motivazioni corrette, con gli obiettivi chiari. Sul lavoro, ma anche nella vita privata. Normalmente si pensa di cambiare qualcosa, tanto o poco, negli atteggiamenti, negli approcci, nelle sfide giornaliere. Queste poche righe vogliono essere una libera riflessione in aiuto a questi propositi.

Abbiamo l'opportunità di mettere in atto il cambiamento, occorre coerenza e perserveranza. Possiamo cambiare abitudini, comportamenti, atteggiamenti, modi di pensare e di essere. Possiamo prendere il controllo della nostra vita, piuttosto che sentirci controllati, trascinati o manipolati. Possiamo uscire dai limiti che ci siamo imposti nella nostra mente. Possiamo fare molto di più di ciò che facciamo, avere molto di più, dare molto di più. Possiamo.
Per ottenere questi risultati non dobbiamo azzerarci, per costruirci, possiamo partire da dove siamo, da come siamo, per evolverci, espanderci, progredire.
Impariamo a individuare nelle abitudini i nostri principali nemici per questa crescita.
Non dimentichiamo che tutte le cose sono difficili prima di diventare facili.
E' nel momento in cui prendiamo delle decisioni che creiamo il nostro Destino. Ognuno di noi è artefice del proprio. L'atteggiamento mentale è determinante. Se prendiamo una vera decisione, l'atteggiamento mentale è basilare per essere consapevoli che non si torna più indietro, c'è solo la strada che abbiamo scelto, tutte le altre direzioni non sono più percorribili. Abbiamo bruciato le navi alle nostre spalle. Si avanza e si combatte per arrivare sull'obiettivo.
L'atteggiamento mentale ci permette di vincere la paura delle conseguenze, la paura di fare la scelta sbagliata, l'insicurezza, la paura di fallire, del giudizio delle altre persone. La paura è uno stato mentale.

Come sciveva Goethe "... un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non c'era più nessuno...".

giovedì 6 gennaio 2011

Pellegrinaggio in Terra Santa: un'esperienza unica.

Gerusalemme dalla Porta Bella
Fresco di ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, carico ancora di emozioni e consapevole di avere fatto un'esperienza profonda. Unica e personale. Che consiglio. Un viaggio a cui ho sempre aspirato e che ha, finalmente, trovato il suo compimento in questo fine anno.
La Croce Cosmica della Terra Santa
La sensazione che ho avuto è quella di essermi riconnesso alle mie radici giudaico-cristiane, chiudendo in qualche modo un cerchio vitale che mi ha reso ancor più consapevole. Mi ha donato armonia interna, molta tranquillità e una grande felicità che, in qualche caso, si è trasformata in commozione viva.
Ora la parte più difficile, riuscire a mantenersi consapevoli, riconoscere nella quotidianità i segnali giusti, mantenere "la barra dritta" nonostante i "disturbi" che ci circondano ogni giorno, i falsi miti e i valori-non-valori.
Penso che comunque, il migliore augurio che mi possa fare, come diceva Don Giussani, è quello di avere "una vita inquieta".

lunedì 3 gennaio 2011

LA CENA CONVIVIALE BENEDETTINA FA IL PIENO

Grande successo a Imola sabato scorso per un evento culturale “golosissimo” per gli appassionati di enogastronomia e di storia che hanno risposto in gran numero alla «Conviviale ecumenica benedettina» organizzata nelle cantine, da poco ristrutturate, di Santa Maria in Regola da Don Pierpaolo Pasini, Pierangelo Raffini, Delegato di Lugo dell’Accademia Italiana della Cucina e Claudio Mita della Cooperativa Sociale Botteghe e Mestieri di Castel Bolognese.
L’evento, iniziato con una visita guidata al museo di San Domenico per la mostra sul movimento benedettino è poi proseguito presso i locali posti sotto Santa Maria in Regola.
La Conviviale è stata aperta da Pierangelo Raffini che, oltre a presentare il menù, si è soffermato sul ruolo che l’Accademia deve svolgere in quanto Istituto Culturale della Repubblica Italiana e come i Benedettini abbiano rappresentato anche per l’enogastronomia il ruolo di “cerniera” tra il mondo antico e quello moderno, fondendo Tradizione e Innovazione. Sono intervenuti inoltre Romano Linguerri, che ha parlato dell’impegno missionario in Africa dell’associazione AVSI che oggi svolge un compito similare a quello che i Benedettini svolsero nei secoli precedenti, David Navacchia (titolare dell’azienda Tre Monti) che ha proposto l’assaggio del «vino dell’Abate» di produzione 2007 frutto, ha spiegato, della vite secolare presente in nel cortile di S. Maria in Regola e risalente almeno al 1600, ed infine Claudio Mita, della Cooperativa Sociale Botteghe & Mestieri, che è stato chiamato con tutti i ragazzi che hanno reso possibile la serata, per un calorosissimo applauso di ringraziamento per la qualità della Conviviale che, ha sottolineato Raffini, ha superato il livello di molti ristoranti visitati. Mita si è soffermato sul ruolo ricoperto dalla Onlus (associazione S.Giuseppe S.Rita di Castelbolognese) a cui andava devoluta la maggior parte della cifra incassata per la serata. Il menù, frutto di una ricerca storica, era il seguente: zuppa di fave dei Monaci Camaldolesi, gnocchi Robiola e zafferano con erba cipollina, spezzatino di pollo infinocchiato alle madorle, formaggi accompagnati da miele e marmellate monastiche, biscotteria e torrone accompagnati da vino dolce. I vini e la birra trappista sono stati presentati dal sommeliers Paoletti che si è soffermato anche sugli aspetti storici di queste produzioni.