venerdì 28 febbraio 2014

BUROCRAZIA. La consorteria dei mandarini più forte di qualsiasi governo

Li chiamano mandarini. E a ragione, perché l’organizzazione delle burocrazie fu importata originariamente in Europa dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove avevano osservato il complesso sistema di selezione dei mandarini e dalla durata delle loro cariche pubbliche. Ora Matteo Renzi, con giovanile impeto, giura che per lui la “madre di tutte le battaglie” sarà riformare «l’albero mortifero della burocrazia », come lo chiamò Gaetano Salvemini. Bella sfida, con la quale si sono misurati invano nei decenni decine di presidenti del Consiglio e di ministri, dando vita anche ad episodi di rara comicità. Come quando nel 1964 il ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione del primo governo Moro, il socialdemocratico Luigi Preti, indisse un concorso a premi tra tutti i cittadini (150 mila lire) per le migliori idee di riforma dell’apparato burocratico dello Stato. Il povero Preti forse immaginava quella immensa “macchina senz’anima” descritta da Max Weber come un esercito di Policarpo De’ Tappetti ufficiale di scrittura, l’impiegato ministeriale della Roma Umbertina interpretato da Macario in un film di Mario Soldati. 

E non come una consorteria di potenti grand commisinamovibili che i ministri se li bevevano in un sorso nei pochi mesi in cui questi restavano in carica. Il professor Sabino Cassese, massimo esperto di Pubblica amministrazione, ricorda spesso come il ministro del Tesoro Gaetano Stammati prendesse ordini in quasi tutto dal ragioniere generale dello Stato Vincenzo Milazzo e per il resto da Luigi Bisignani, che già stava mettendo in piedi il suo “nominificio”.
Naturalmente dell’ingenuo concorso di Preti non si seppe più nulla. Poi a partire dal 1998 leggi diverse hanno disposto che i dirigenti dello Stato più alti in grado siano legati alla durata dei governi, mentre gli altri possono essere nominati nell’incarico per non meno di tre e non più di cinque anni. Ma non molto è cambiato con l’applicazione di un minispoils system nel quale consiglieri di Stato, consiglieri della Corte dei conti, giudici dei Tribunali amministrativi, avvocati dello Stato e giuristi vari, si alternano – più o meno sempre gli stessi – nei gabinetti ministeriali e negli uffici legislativi, come nella porta girevole di un Grand Hotel.

Anche il governo Renzi dovrà fare il suo spoils system nel prossimo mese. E sarà curioso vedere alla prova Marianna Madia, quella giovane eterea messa al ministero per la Pubblica amministrazione e la semplificazione alle prese con mandarini astuti, potenti anonimi, alcuni dei quali affetti dalla sindrome della “leadership tossica”, come la chiama lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, e esperti cultori di “sabotaggio burocratico”.

Le premesse, per la verità, non sono le più incoraggianti. Il ministro ciellino Maurizio Lupi ha già confermato alle Infrastrutture Ercole Incalza, che calca i corridoi di quel ministero fin dai tempi del socialista Claudio Signorile. Mentre l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, è caduto nella rete di Salvo Nastasi, giovane padrone di fatto del ministero, appartenente alla squadra di Gianni Letta, che adesso Dario Nardella, prossimo sindaco di Firenze, preme su Renzi chissà perché per far confer-
Ma si sa, la legge si applica per tutti e si interpreta per gli amici. 

Solo tre esempi, per ora, in attesa di vedere che cosa il nuovo governo saprà fare almeno nelle cinquanta poltrone più importanti nella Pubblica amministrazione. Ma già Luigi Einaudi avvertiva: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi che non sono in grado di compierla da soli. Per quanto siano bravi, per riformare devono fidarsi di qualche funzionario, o competente, non interessato, devoto al Paese il quale dica ad essi che cosa devono fare». Sarà brava la Madia, o lo stesso Renzi che rispetto ai suoi ministri sembra comportarsi come un uomo solo al comando? O sarà vero, come dice qualche suo amico, che Matteo si è già innamorato della sacralità di certi legulei capi di gabinetto? Alcuni sono notoriamente «sabotatori burocratici », come li ha definiti sempre Cassese, il quale racconta di un noto capo di gabinetto – forse il suo quando fu ministro della P.A. – contrario a certi cambiamenti nell’amministrazione previsti da una legge appena approvata: «Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge». Ne sanno qualcosa Mario Monti e Enrico Letta che hanno lasciato in eredità 852 decreti necessari per rendere operative le norme varate dai loro governi, scritte peraltro come sempre in ostrogoto, il burocratese che solo i mandarini ministeriali sanno interpretare.

Sono in tutto 3,2 milioni i dipendenti statali e costano 165 miliardi. Pochi credono davvero che il giovane Matteo con la candida Madia possa essere capace di condurli all’efficienza o addirittura a ridurli di 10 mila, cominciando dai capi (e di sfoltire le migliaia di leggi e leggine), per assumerne 1.000 meno adusi ai vicoli oscuri della giurisprudenza e più capaci di adattarsi al nuovo. Lodevole velleità, ma Matteo Renzi deve sapere che “la madre di tutte le battaglie” è contro una mostruosità autorigenerante che Robert King Merton descrisse come un «circolo vizioso disfunzionale» che vive di "incapacità addestrata".

Alberto Statera - La Repubblica - giovedì 27 febbraio



Che cosa vuol dire Startup (e perché l'Italia ha le carte in regola per investire sul suo futuro)

Il termine è avanti per definizione: start up. Fa molto americano, ma dietro c’è un mondo nuovo che  può contribuire a rilanciare il lavoro, l’occupazione e fare innovazione. Start up è anche un approccio culturaleche va alimentato, insegnato, spiegato, diffuso, supportato e utilizzato per contribuire a rilanciare il sistema Paese in generale e i territori in particolare.

Start up

“Con il termine start up s’identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa. Nello start up possono avvenire operazioni di acquisizione delle risorse tecniche correnti, di definizione delle gerarchie e dei metodi di produzione, di ricerca di personale, ma anche studi di mercato con i quali si cerca di definire le attività e gli indirizzi aziendali”.

Questa la definizione che fornisce Wikipedia di start up e fa comprendere il significato di questo termine che sempre più spesso leggiamo e viene citato dai media.

Start up e Agenda Digitale

Quando si parla di start up si tende a pensare unicamente al settore high-tech, all’informatica, alle imprese che lavorano in Internet. Non è così anche se è vero che l’informatica è ormai pervasiva in ogni attività che intraprendiamo e la Rete ci permette di oltrepassare i confini fisici del territorio in cui nasce l’impresa, la start up. Quindi la tecnologia è una componente ormai irrinunciabile per fare impresa. Ma le start up possono originarsi dai settori più diversi e a volte mai considerati. Da qualche tempo, anche nel nostro Paese, si sta acquisendo consapevolezza su quest’aspetto. Tant’è vero che l’ex-ministro Corrado Passera ha dotato per la prima volta l’Italia di un’Agenda Digitale che poi è sfociata (non per nulla) nel Decreto di Crescita 2.0. Un vero e proprio programma d’indirizzo sulle start up, con una proposta di legislazione e di agevolazioni fiscali destinate a queste nuove imprese che, sul modello americano, devono essere snelle, rapide nel partire e se non funzionano, anche nel fallire. Oltre a introdurre regole chiare per ilcrowdfunding, il finanziamento collettivo veicolato sempre più spesso da piattaforme online. A questo proposito, per chi non lo conoscesse, consiglio di scaricare Il dossier Restart, Italia!, redatto da una task force di esperti. Uno strumento per fare dell’Italia un Paese per giovani e imprese giovani (ovvero, per le start up). Sì, perché il fallimento è contemplato nei paesi più avanzati e non viene vissuto come una vergogna, ma come un tentativo andato male che fornisce esperienza per migliorare nel successivo. Oltreoceano è pieno di imprese di successo i cui titolari provengono da insuccessi iniziali.

La cultura del give backstart up in Italia - bisogna crederci e investire ora

Sono un convinto sostenitore e nutro grande passione per il mondo delle start up. Per questo, oltre alla mia attività professionale, mi interesso e studio molto sul tema. Sono socio di Italia Startup e anche mentore per Innovami, un incubatore che si trova in provincia di Bologna. In questo modo ho sviluppato diverse idee sul modo in cui un territorio potrebbe diventare una culla per l’innovazione e un esempio in Italia e in Europa attraverso le start up, gli incubatori o degli acceleratori.
Proprio in virtù del tessuto imprenditoriale privato esistente in Italia ritengo che occorra sviluppare anche la cultura del give back. Questo termine sottende a un concetto che si basa su due punti. Il primo sta nella disponibilità di chi ha avuto successo nel mettersi a disposizione, gratuitamente, per valutare la business-idea delle giovani imprese e una volta scelte, riversare la propria esperienza sulle stesse. Il secondo punto è l’interesse a finanziare le neo imprese con modalità che possono variare da quella del business angel a quella del venture capital. Diffondere quest’approccio sarebbe un vantaggio per il territorio perché creerebbe un ciclo virtuoso del valore, offrirebbe posti di lavoro e svilupperebbe la capacità di pensare al lavoro in modo innovativo.

Una ricchezza per il territorio

Molti territori nel nostro Paese offrono possibilità uniche per la creazione di start up: dalla meccanica all’energia, dall’information technology alle charity company (imprese dedicate al sociale). Tutte in grado di sviluppare business e ricchezza per il territorio stesso. Un forte e riconosciuto incubatore in grado di far nascere, seguire e fare decollare le nuove imprese generano richieste di nuovi spazi abitativi e per ufficio, aumenta i consumi e la richiesta di servizi (si parla di tre posti di lavoro generati da ogni persona impiegata in una start up per lavanderia, pulizie, ristorazione, eccetera…), induce alla nascita di nuovi nuclei familiari che sono portati a rimanere sul territorio e richiama a sua volta altri capitali. Senza trascurare lo sviluppo di un più forte legame con le università in quei territori dove sono presenti.

Guardare al futuro, ora!start up - una ricchezza per il territorio

Il tema è lungo e articolato, porterò altri contributi prossimamente. Sottolineo che nulla si ottiene se non con un lavoro metodico, programmato e concreto. È una questione di approccio, di cultura, di cambio di mentalità. E di speranza nel futuro. Un solo esempio illuminante: Israele ha 8 milioni di abitanti, non ha materie prime (come noi), ma questo non le impedisce di essere la nazione con il numero maggiore di start up nel mondo (5000, in Italia sono circa 1300) di cui un buon 50% è quotato al Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici americana). Impiegano 237mila persone e generano il 60% dell’export. Hanno trasformato le difficoltà in risorse, senza ricchezze naturali hanno sviluppato la creatività. Che a noi non manca, come ci riconosce il mondo. Ma il momento è adesso. Se non ora, quando?

domenica 23 febbraio 2014

@pier61: Il no profit in Italia genera 47 miliardi di euro, pari al 4% del PIL #sapevatelo #charity_startup

@pier61: Il no profit in Italia genera 47 miliardi di euro, pari al 4% del PIL #sapevatelo #charity_startup

by Pierangelo Raffini
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sabato 22 febbraio 2014

La ricchezza è un bene se aiuta gli altri

La prefazione del Papa al libro del cardinale Müller «Povera per i poveri. La missione della Chiesa»

Papa FrancescoPapa Francesco

Chi di noi non si sente a disagio nell’affrontare anche la sola parola «povertà»? Ci sono tante forme di povertà: fisiche, economiche, spirituali, sociali, morali. Il mondo occidentale identifica la povertà anzitutto con l’assenza di potere economico ed enfatizza negativamente questo status. Il suo governo, infatti, si fonda essenzialmente sull’enorme potere che il denaro ha acquisito oggi, un potere apparentemente superiore a ogni altro. Perciò un’assenza di potere economico significa irrilevanza a livello politico, sociale e persino umano. Chi non possiede denaro, viene considerato solo nella misura in cui può servire ad altri scopi. Ci sono tante povertà, ma la povertà economica è quella che viene guardata con maggior orrore. In questo c’è una grande verità. Il denaro è uno strumento che in qualche modo - come la proprietà - prolunga e accresce le capacità della libertà umana, consentendole di operare nel mondo, di agire, di portare frutto. Di per sé è uno strumento buono, come quasi tutte le cose di cui l’uomo dispone: è un mezzo che allarga le nostre possibilità. Tuttavia, questo mezzo può ritorcersi contro l’uomo. Il denaro e il potere economico, infatti, possono essere un mezzo che allontana l’uomo dall’uomo, confinandolo in un orizzonte egocentrico ed egoistico.


La stessa parola aramaica che Gesù utilizza nel Vangelo - mammona , cioè tesoro nascosto (cf. Mt 6, 24; Lc 16,13) - ce lo fa capire: quando il potere economico è uno strumento che produce tesori che si tengono solo per sé, nascondendoli agli altri, esso produce iniquità, perde la sua originaria valenza positiva. Anche il termine greco, usato da San Paolo, nella Lettera ai Filippesi (cf. Fil 2, 6) - arpagmos - rinvia a un bene trattenuto gelosamente per sé, o addirittura al frutto di ciò che si è rapinato agli altri. Questo accade quando dei beni vengono utilizzati da uomini che conoscono la solidarietà solo per la cerchia - piccola o grande che sia - dei propri conoscenti o quando si tratta di riceverla, ma non quando si tratta di offrirla. Questo accade quando l’uomo, avendo perso la speranza in un orizzonte trascendente, ha perso anche il gusto della gratuità, il gusto di fare il bene per la semplice bellezza di farlo (cf. Lc 6, 33 ss.).


Quando invece l’uomo è educato a riconoscere la fondamentale solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini - questo ci ricorda la Dottrina sociale della Chiesa - allora sa bene che non può tenere per sé i beni di cui dispone. Quando vive abitualmente nella solidarietà, l’uomo sa che ciò che nega ad altri e trattiene per sé, prima o poi, si ritorcerà contro di lui. In fondo, a questo allude nel Vangelo Gesù, quando accenna alla ruggine o alla tignola che rovinano le ricchezze possedute egoisticamente (cf. Mt 6, 19-20; Lc 12, 33). 
Invece, quando i beni di cui si dispone sono utilizzati non solo per i propri bisogni, essi diffondendosi si moltiplicano e portano spesso un frutto inatteso. Infatti vi è un originale legame tra profitto e solidarietà, una circolarità feconda fra guadagno e dono, che il peccato tende a spezzare e offuscare. Compito dei cristiani è riscoprire, vivere e annunciare a tutti questa preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà. Quanto il mondo contemporaneo ha bisogno di riscoprire questa bella verità! Quanto più accetterà di fare i conti con questo, tanto più diminuiranno anche le povertà economiche che tanto ci affliggono.


Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all’economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo «dai nostri beni» (cf. Lc 12, 15). Originariamente l’uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente dal bisogno e dall’aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell’impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere «creature»: non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere.


In ogni caso, dipendiamo da qualcuno o da qualcosa. Possiamo vivere ciò come una debilitazione del vivere o come una possibilità, come una risorsa per fare i conti con un mondo in cui nessuno può far a meno dell’altro, in cui tutti siamo utili e preziosi per tutti, ciascuno a suo modo. Non c’è come scoprire questo che spinge a una prassi responsabile e responsabilizzante, in vista di un bene che è allora, davvero, inscindibilmente personale e comune. È evidente che questa prassi può nascere solo da una nuova mentalità, dalla conversione ad un nuovo modo di guardarci gli uni con gli altri! Solo quando l’uomo si concepisce non come un mondo a sé stante, ma come uno che per sua natura è legato a tutti gli altri, originariamente sentiti come «fratelli», è possibile una prassi sociale in cui il bene comune non rimane parola vuota e astratta!


Quando l’uomo si concepisce così e si educa a vivere così, l’originaria povertà creaturale non è più sentita come un handicap , bensì come una risorsa, nella quale ciò che arricchisce ciascuno, e liberamente viene donato, è un bene e un dono che ricade poi a vantaggio di tutti. Questa è la luce positiva con cui anche il Vangelo ci invita a guardare alla povertà. Proprio questa luce ci aiuta dunque a comprendere perché Gesù trasforma questa condizione in una autentica «beatitudine»: « Beati voi poveri! » (Lc 6, 20). 
Allora, pur facendo tutto ciò che è in nostro potere e rifuggendo ogni forma di irresponsabile assuefazione alle proprie debolezze, non temiamo di riconoscerci bisognosi e incapaci di darci tutto ciò di cui avremmo bisogno, perché da soli e con le nostre sole forze non riusciamo a vincere ogni limite. Non temiamo questo riconoscimento, perché Dio stesso, in Gesù, si è curvato (cf. Fil 2, 8) e si curva su di noi e sulle nostre povertà per aiutarci e per donarci quei beni che da soli non potremmo mai avere. 
Perciò Gesù elogia i «poveri in spirito» ( Mt 5, 3), vale a dire coloro che guardano così ai propri bisogni e, bisognosi come sono, si affidano a Dio, non temendo di dipendere da Lui (cf. Mt 6, 26). Da Dio possiamo infatti avere quel Bene che nessun limite può fermare, perché Lui è più potente di ogni limite e ce lo ha dimostrato quando ha vinto la morte! Dio da ricco che era si è fatto povero (cf. 2 Cor 8, 9) per arricchirci con i suoi doni! Egli ci ama, ogni fibra del nostro essere gli è cara, ai suoi occhi ciascuno di noi è unico ed ha un valore immenso: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati... voi valete più di molti passeri » ( Lc 12, 7) . 

Papa Francesco - @Pontifex_it - Corriere della sera - 19 febbraio

mercoledì 19 febbraio 2014

CHE COS’È LA INTERNET OF EVERYTHING? TRA SCIENZA E FILOSOFIA, È IL NOSTRO FUTURO. IL MONDO CONNESSO SARÀ PIÙ INTELLIGENTE

Gli oggetti ci parlano, immersi in un eterno divenire di informazioni, grazie a nuove tecnologie di connessione: l’attenzione si sposta dall’Rfid alla Internet of Things (intelligenza delle cose) che qualcuno inizia a chiamare Internet of Everything (intelligenza di ogni cosa).
internet of things
Internet of Everything significa che tutto il mondo diventa comunicante grazie alle nuove tecnologie (con o senza fili). Le automobili, gli edifici, le piante, le confezioni dei prodotti, gli altoparlanti dello stereo, gli occhiali (i Google Glasses sono solo i dispositivi indossabili intelligenti di una lunga serie). Insomma tutti gli oggetti animati o inanimati possono dialogare con noi. Come lo fanno? Grazie a sensori, carte Sim, tag Rfid ma anche (e sempre più) attraverso i nostri smartphone. L’aggiunta di una nuova componentistica intelligente consentirà agli oggetti di diventare veri e propri nodi di una comunicazione che viaggia attraverso il World Wide Web.
“Oggi, poco meno dell’1% di ciò che può essere connesso alla Rete lo è effettivamente – ha spiegato David Bevilacqua, vicepresident South Europe Cisco -. Per arrivare a questo ci sono voluti almeno vent’anni, attraverso diverse fasi che si sono susseguite con rapidità crescente. Dalla prima era della connettività siamo passati alla Networked Economy (Economia della Rete), e oggi viviamo in un contesto in cui attraverso la rete si vivono esperienze relazionali e immersive: con i social network, con la collaboration, la possibilità di accedere ovunque in mobilità e con ogni mezzo al nostro mondo digitale”.

Sono dati ma, siccome sono tanti, si dicono Big Data

Big dataNon è un caso che la prima a parlare di Internet of Everything invece che di IoT sia stata Cisco (già un paio di anni fa)Signore storico del networking, il provider conosce la vera natura della Rete e delle possibilità applicative di questa intelligenza che viaggia tra cavi e satelliti, tra sensori, lettori e smartphone, gestita attraverso un corollario di software che veicolano e usano in vario modo quel nuovo flusso di informazioni (che gli esperti chiamano Big Data).
Internet, infatti, non è una rete: è la Rete. Un sistema neurale di connessioni che favorisce il passaggio delle informazioni più disparate, dal tasso di umidità dell’aria all’arrivo di un pulman, dal quantitativo di Like al numero di transazioni di pagamento.
Cisco sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione e di evangelizzazione sulla Internet of Everything, snocciolando dati  che spiegano i fatti: nel mondo sono 2,2 miliardi gli utenti connessi a Internet (in pratica un terzo della popolazione mondiale). Nel 2012 gli oggetti connessi erano dodici miliardi, nel 2015 saranno 15 miliardi, nel 2020 quaranta miliardi. L’evoluzione della Internet of Everything? Raggiungere il 99% di quel mondo ancora non collegato per capirlo meglio, trasformando la tecnologia in nuove opportunità di servizio.

Internet of Everything in un Italian Forum

Negli scorsi giorni l’Internet of Everything Italian Forum (road show itinerante del provider) si è tenuto a chiusura del Cisco Live, l’appuntamento più importante a livello europeo per la comunità di partner, clienti, sviluppatori Cisco. Settemila persone riunite a Milano per capire di che cosa si parla quando si tirano in ballo sensori, tag Rfid, connessioni e tutte le potenzialità dell’Internet of Everything. Cisco ha chiamato esperti e comunicatori capaci di trasformare il linguaggio dei tecnici (che parlano di Internet of Things e di Rfid) in un linguaggio per tutti. Perché una cosa è certa: l’Internet delle cose cambierà ogni cosa e, a mano a mano che nuove persone, processi, dati, cose potranno connettersi e interagire grazie alla Rete, potremo usufruire di nuove informazioni e servizi che prima non avremmo mai preso in considerazione.
Internet of Everything
L’interesse al tema è importante soprattutto perché la Internet of Everything (IoE) rappresenta la quarta rivoluzione industriale.
“È essenziale comprendere fin dall’inizio la portata della Internet of Everything per capire come sfruttare al meglio le opportunità aperte dall’evoluzione tecnologica che sta dando forma a questa nuova era, connettendo il nostro Paese con gli scenari globali – ha detto Agostino Santoni, Amministratore Delegato di Cisco Italia -. Se oggi le persone interagiscono con il web con strumenti quali il pc o lo smarthpone, attraverso i social network e altre reti, nel mondo dell’Internet of Everything le persone stesse potranno diventare nodi della rete, comunicando dati e informazioni, attraverso sensori e in altre forme. Il valore e la rilevanza delle nuove connessioni che nasceranno sarà determinato dall’attivazione di processi in grado di garantire che le informazioni corrette raggiungano il destinatario corretto, nel momento giusto e nel modo più appropriato: in sicurezza e proteggendo la privacy. I dati prodotti da ciò che sarà connesso alla rete non saranno più disponibili solo in forma grezza, perché la maggiore intelligenza e le maggiori funzionalità disponibili permetteranno di combinarli producendo informazioni cui macchine, computer, umani potranno attingere”.

Quanto vale il mercato della Internet of Everything

Valore Internet of everythingNello sforzo di comprendere meglio questa rivoluzione, Cisco ha condotto un’analisi sull’impatto economico potenziale dell’Internet of Everything per quantificarne il valore. Il risultato? 14.400 miliardi di dollari per il solo settore privato, a livello globale, nei prossimi dieci anni, come risultante del progressivo emergere dell’Internet of Everything e 4.600 miliardi di dollari per il settore pubblico.
I risultati vengono da una combinazione del nuovo valore economico netto creato come conseguenza dell’Internet of Everything e del valore che migrerà dalle aziende, dalle amministrazioni e dai settori che resteranno indietro a quelle che sfrutteranno le innovazioni in arrivo, sottraendo a questo i costi di implementazione delle stesse. Basandosi su tale analisi, l’Internet of Everything ha la potenzialità di aumentare i profitti aziendali globali di un 21% aggregato, nei prossimi 10 anni.
Adottando un approccio bottom up, l’analisi prende in considerazione casi di utilizzo per i quali i dati sono disponibili, in opposizione a un approccio top down basato per buona parte su previsioni ad ampio raggio in termini di miglioramento della produttività e del Pil. Alcuni dei casi di utilizzo, come l’adozione di tecnologie di collaboration e il maggiore utilizzo del telelavoro, riguardano tutti i settori economici; altri, sono specifici di un settore.

IoT come …Italian of Things? Speriamo di no

La Internet of Everything è una realtà che chiama in causa non solo gli smartphone o le smart city (considerando che nel 2050 il 65% della popolazione mondiale vivrà in una città, la gestione dei servizi non sarà banale). Ci vuole tanta nuova intelligenza, anche per il sistema Italia. Sul palco di Cisco, infatti, chiamati a parlare esponenti diversi da quelli del solitobusiness. Stefano Mancuso, Director – Linv Polo Scientifico Università di Firenze, ad esempio, che in qualità di scienziato e di botanico ha ricordato che in Italia ci sono 70 milioni di piante che potremmo utilizzare come sensori per rilevare tantissime informazioni come l’umidità, l’inquinamento o i terremoti, senza doverne introdurre di nuovi e artificiali (aggiungendo che le piante in più sono autoriparanti, il che dice tante cose…). Il mondo della ricerca sta lavorando per noi, ad esempio su dei microrobot che possono sostituire le medicine, intervenendo in modo specifico e mirato sulla causa fisica della malattia per rimuoverla senza contaminare o intaccare l’organismo. Internet of Everything significa anche che dobbiamo rispettare la natura e sviluppare un’intelligenza capace di identificare nuovi rapporti tra forma e funzione.Luciano Floridi, professore di Filosofia ed Etica delle Informazioni dell’Università di Oxford, ha accompagnato il pubblico nella comprensione più esistenziale della natura delle cose e del mondo che ci circonda, speculando come un tempo facevano i greci presocratici quando cercavano di dare un senso al mondo e al nostro essere nel tempo e nello spazio. Internet è interazione e noi siamo interattivi: invece di concentrarci sugli oggetti, dobbiamo focalizzarci sulle interazioni per capire la portata dell’innovazione e sviluppare il nostro futuro. L’Internet of everythings è il tempo delle cose immerse nel business ma anche quello di un Paese come l’Italia che, come ha ironizzato Riccardo Luna chiamato a chiudere la tech session, parla di futuro e di agenda digitale senza saper parlare inglese o che spiega l’Agenda Digitale con una pagina Web che per sei mesi è rimasta criptata dietro al cartello Sito in manutenzione. La Internet of Everything è un obiettivo importante per ogni singolo individuo che vuole contribuire a un nostro futuro più smart. Tutto questo al di là degli sviluppi del rapporto Caio, commissario di Governo per l’Agenda Digitale italiana che, speriamo, aiuti il Paese distinguendosi dai vari Tizio e Sempronio venuti prima di lui.



MICROSITE DI:  / 

 LAURA ZANOTTI   -  The BizLoft

Acquisire la capacità di Vision

Ritengo che possedere una visione sia la capacità di fare sintesi sui propri desideri più veri e profondi e dargli un percorso che non ostaccoli il fiume della vita, ma ne segua consapevolmente il corso.
Avendo una "vision" riesci a trovare anche la tua missione e, di conseguenza, la tua serenità, il tuo benessere interiore.
La propria missione cambia nel tempo, perchè normalmente si evolve durante la propria esistenza. Non è un voltafaccia. Si può cambiare missione restando fedele a se stessi, ai propri principi, ai propri Valori.

Significa applicare quello che qualcuno definisce "coerenza dinamica" e non "statica", cambiando appunto come cambia il mondo e come mutano i propri Valori nel tempo. Se così non fosse si rimmarrebbe sempre uguali senza cogliere i mutamenti attorno a noi.



martedì 18 febbraio 2014

Cosa si dovrebbe sapere sul Personal Branding, di Sebastiano Zanolli

Riprendo e pubblico questo post di Sebastiano Zanolli, grande amico e fantastico ispiratore.

Il tema del trattare se stessi e il proprio nome come un marchio ed applicare le categorie del marketing alla propria vita è una attività che negli ultimi anni ha trovato grande diffusione e pratica.
Non è strano.
Quando i mercati sono alle strette e non hanno confini, se non quelli che metti tu, la competitività diventa parossistica.
Qualunque cosa è un’alternativa ai miei prodotti e servizi che sono in concorrenza con merce e prestazioni che fino a ieri avrei classificato come innocue e ininfluenti per la mia performance.
Come l’influenza aviaria si sposta dagli animali all’uomo, questa competitività si trasferisce dalle cose alle persone.
Siamo noi i prossimi a essere passibili di sostituibilità.
Noi che credevamo di essere gli unici giudici, ora ci ritroviamo a essere giudicati.
Poco male per i venditori coscienti.
Molto male per i venditori incoscienti, nel senso di chi non ha cognizione di sé e del significato dei propri atti.
La gara è così spietata che l’asset, il patrimonio, la caratteristica più idonea da sfruttare, la meno imitabile e la più monetizzabile è il proprio profilo personale.
Ecco allora la trasposizione di alcune mosse di marketing aziendale in campo personale.
Competenza. Sapere risolvere problemi reali.
• Visibilità. Che la gente sia in grado di sapere che gli puoi risolvere questi problemi.
• Network. Una rete che trasmetta la tua capacità e generi opportunità, connettendo domanda e offerta e magari stimoli nuovi livelli d’intervento.
• Essere punti di riferimento per un’audience definita e affogare tutto il movimento che fai nella vita reale e in quella digitale, con la glassa dei tuoi talenti e dei tuoi tratti caratteriali più interessanti e marcati.
• Occultare punti di debolezza e porre l’accento sui punti di forza.
• Sapere raccontare in modo avvincente, credibile e motivante la tua storia individuale.
Tutto questo, e altro, è curare il proprio marchio personale.
Funziona. Ne sono certo per averlo visto produrre i risultati economici e di immagine che promette.
Tra le tante invenzioni e panacee che il mercato consulenziale è costretto a mettere insieme con i più disparati acronimi e termini perlopiù inglesi, questo funziona davvero e ci tengo a sottolinearlo.
Ma la piccola riflessione che vorrei tentare di fare con queste righe è una altra.
Corre veloce verso l’alto.
Richiede un salto di grande portata.
Un salto di coscienza.
Vediamo se riesco a spiegarmi.
Il mercato è un gioco, crudele e spietato, ma pur sempre un gioco.
Frutto di regole, a volte comprensibili, a volte meno.
In questo gioco noi siamo immersi totalmente e, per potere giocare adeguatamente, accettiamo che il gioco non sia un gioco, ma che sia la realtà data.
Non c’è nulla di male in sé, ma confondere un’attività umana, creata per produrre risultati materiali ed economici, con il senso dell’esistenza ha in sé i semi di un possibile disagio.
Un po’ come se Robert De Niro fosse ancora convinto di essere Travis Bickle, il ventiseienne alienato, depresso, tassista notturno di taxi Driver.
Noi, come donne e uomini, esistiamo al di là del mercato e dei mercati.
Esistevamo prima ed esisteremo poi, come genere, come specie.
Questi mercati sono una soluzione temporanea a un problema eterno per l'umanità.
Come sopravvivere materialmente in un ambiente più o meno difficile.
La soluzione attuale, il capitalismo e il libero sono estremamente produttivi per il benessere materiale e l’evoluzione e diffusione del benessere fisico della specie.
Permette potenzialemente anche a chi abita in Alaska o nel Sahara di vivere con dignità.
Come fa’ un termosifone o un condizionatore, alterano le condizioni date.
Ma come sempre accade per qualcosa di artificiale, serve adattare chi deve giocare in modo che giochi bene, mano a mano che la specializzazione cresce.
Come i cani da combattimento o i tori da corrida.
I canarini da competizione, i gladiatori o i cavalli da corsa.
Non vanno bene tutti.
I mercati, oltre ad essere conversazioni, sono invenzioni umane.
Il profilo dei giocatori anche.
Qui è il nodo.
Noi siamo qualcosa in più.
Siamo un passo più in là della nostra idea di noi stessi.
Siamo un grumo di pensiero ed emozioni capaci di ragionamenti ma soprattutto di sensazioni e sentimenti.
Siamo individui nati con una coscienza che permette di osservare il nostro pensiero.
E il pensiero è la radice del mondo che abbiamo creato.
Siamo potenzialmente dei creatori di realtà.
Ma a volte, spesso a dire la verità, dimentichiamo e confondiamo causa ed effetto.
Rovesciandoli.
Una via verso l’insoddisfazione, che ricordiamolo è il meccanismo chiave del gioco di mercato, è dimenticare che possiamo essere ciò che desideriamo.
A prescindere da ciò che noi o altri crediamo di essere.
Capisco che sia un po’ complicato.
Mi rispiego.
Tutto parte dal pensiero, l’idea di noi, dei giochi che vogliamo mettere in piedi, delle regole, dei meccanismi.
A volte, dimentichiamo che i creatori di questa realtà siamo noi.
La costruiamo a partire dai nostri ricordi, sensazioni, giudizi, conoscenze.
Ma è pur sempre solo una tra le innumerevoli possibilità.
Se domani decidessimo di essere felici con altre regole potremmo farlo.
Purtroppo ci scordiamo spesso di questo particolare e crediamo che il gioco, la realtà , le circostanze siano più reali di noi.
Siamo enormemente più grandi e potenti del gioco che abbiamo messo in piedi.
Come De Niro è enormememente più potenziale di Travis Bickle che è solo una delle facce che può assumere o non assumere.
Il Personal Branding è uno strumento per giocare meglio al gioco.
Non per sostituirsi alla nostra esistenza più alta.
Infondere la propria personalità nella competizione economica funziona in termini di risultato. 
Punto.
Non soddisfa la voglia di crescita personale, di essere persone che volano più alte per comprendere quale sia il destino che ci attende meno dopo questo passaggio sul pianeta.
Da risposta alla domanda “ chi devo essere io per funzionare bene nel gioco?”.
Non dà risposte alla domanda “Chi sono io in realtà, al di la del mercato?”.
Visto che spesso mi ritrovo in aula a parlare di Personal Branding, devo marcare questo importante fatto.
Qualcuno fa confusione e si espone a un pericolo grande.
Di essere qualcosa che è solo una tra le mille possibilità e rimanerci incastrato per tutta la vita, in un impeto di costretta coerenza.
Drammatico.
Per cercare la felicità si devono affrontare le domande alte e poi, strumentalmente e sapendo che tutto è una commedia che sembra quasi reale, affrontare le domande più materiali.
Le prime riguardano lo spirito, l’anima, o qualunque nome si voglia dare a quel qualcosa che è prima di noi e delle nostre invenzioni.
Le seconde sono le domande che ci servono a vivere, portare a casa il pane, a mantenere i figli a scuola o ad andare in vacanza.
E’ importante non confondere i livelli e cercare di fare il meglio su ambedue.
Non siamo solo quello che vogliamo dimostrare sul mercato.
Lì si pratica una parte, si ricopre un ruolo.
Recitiamo pure, e bene, godendoci i frutti dell’agonismo di mercato.
Ma non fermiamoci li.
Abbiamo un avvenire più grande se solo alzeremo lo sguardo per vedere le infinite strade che possiamo disegnare senza l’aiuto delle regole.

Da V+:

Cosa si dovrebbe sapere sul Personal Branding.

Il tema del trattare se stessi e il proprio nome come un marchio ed applicare le categorie del marketing alla propria vita è una attività che negli ultimi anni ha trovato grande diffusione e pratica.
Non è strano.
Quando i mercati sono alle strette e non hanno confini, se non quelli che metti tu, la competitività diventa parossistica.
Qualunque cosa è un’alternativa ai miei prodotti e servizi che sono in concorrenza con merce e prestazioni che fino a ieri avrei classificato come innocue e ininfluenti per la mia performance.
Come l’influenza aviaria si sposta dagli animali all’uomo, questa competitività si trasferisce dalle cose alle persone.
Siamo noi i prossimi a essere passibili di sostituibilità.
Noi che credevamo di essere gli unici giudici, ora ci ritroviamo a essere giudicati.
Poco male per i venditori coscienti.
Molto male per i venditori incoscienti, nel senso di chi non ha cognizione di sé e del significato dei propri atti.
La gara è così spietata che l’asset, il patrimonio, la caratteristica più idonea da sfruttare, la meno imitabile e la più monetizzabile è il proprio profilo personale.
Ecco allora la trasposizione di alcune mosse di marketing aziendale in campo personale.
Competenza. Sapere risolvere problemi reali.
• Visibilità. Che la gente sia in grado di sapere che gli puoi risolvere questi problemi.
• Network. Una rete che trasmetta la tua capacità e generi opportunità, connettendo domanda e offerta e magari stimoli nuovi livelli d’intervento.
• Essere punti di riferimento per un’audience definita e affogare tutto il movimento che fai nella vita reale e in quella digitale, con la glassa dei tuoi talenti e dei tuoi tratti caratteriali più interessanti e marcati.
• Occultare punti di debolezza e porre l’accento sui punti di forza.
• Sapere raccontare in modo avvincente, credibile e motivante la tua storia individuale.
Tutto questo, e altro, è curare il proprio marchio personale.
Funziona. Ne sono certo per averlo visto produrre i risultati economici e di immagine che promette.
Tra le tante invenzioni e panacee che il mercato consulenziale è costretto a mettere insieme con i più disparati acronimi e termini perlopiù inglesi, questo funziona davvero e ci tengo a sottolinearlo.
Ma la piccola riflessione che vorrei tentare di fare con queste righe è una altra.
Corre veloce verso l’alto.
Richiede un salto di grande portata.
Un salto di coscienza.
Vediamo se riesco a spiegarmi.
Il mercato è un gioco, crudele e spietato, ma pur sempre un gioco.
Frutto di regole, a volte comprensibili, a volte meno.
In questo gioco noi siamo immersi totalmente e, per potere giocare adeguatamente, accettiamo che il gioco non sia un gioco, ma che sia la realtà data.
Non c’è nulla di male in sé, ma confondere un’attività umana, creata per produrre risultati materiali ed economici, con il senso dell’esistenza ha in sé i semi di un possibile disagio.
Un po’ come se Robert De Niro fosse ancora convinto di essere Travis Bickle, il ventiseienne alienato, depresso, tassista notturno di taxi Driver.
Noi, come donne e uomini, esistiamo al di là del mercato e dei mercati.
Esistevamo prima ed esisteremo poi, come genere, come specie.
Questi mercati sono una soluzione temporanea a un problema eterno per l'umanità.
Come sopravvivere materialmente in un ambiente più o meno difficile.
La soluzione attuale, il capitalismo e il libero sono estremamente produttivi per il benessere materiale e l’evoluzione e diffusione del benessere fisico della specie.
Permette potenzialemente anche a chi abita in Alaska o nel Sahara di vivere con dignità.
Come fa’ un termosifone o un condizionatore, alterano le condizioni date.
Ma come sempre accade per qualcosa di artificiale, serve adattare chi deve giocare in modo che giochi bene, mano a mano che la specializzazione cresce.
Come i cani da combattimento o i tori da corrida.
I canarini da competizione, i gladiatori o i cavalli da corsa.
Non vanno bene tutti.
I mercati, oltre ad essere conversazioni, sono invenzioni umane.
Il profilo dei giocatori anche.
Qui è il nodo.
Noi siamo qualcosa in più.
Siamo un passo più in là della nostra idea di noi stessi.
Siamo un grumo di pensiero ed emozioni capaci di ragionamenti ma soprattutto di sensazioni e sentimenti.
Siamo individui nati con una coscienza che permette di osservare il nostro pensiero.
E il pensiero è la radice del mondo che abbiamo creato.
Siamo potenzialmente dei creatori di realtà.
Ma a volte, spesso a dire la verità, dimentichiamo e confondiamo causa ed effetto.
Rovesciandoli.
Una via verso l’insoddisfazione, che ricordiamolo è il meccanismo chiave del gioco di mercato, è dimenticare che possiamo essere ciò che desideriamo.
A prescindere da ciò che noi o altri crediamo di essere.
Capisco che sia un po’ complicato.
Mi rispiego.
Tutto parte dal pensiero, l’idea di noi, dei giochi che vogliamo mettere in piedi, delle regole, dei meccanismi.
A volte, dimentichiamo che i creatori di questa realtà siamo noi.
La costruiamo a partire dai nostri ricordi, sensazioni, giudizi, conoscenze.
Ma è pur sempre solo una tra le innumerevoli possibilità.
Se domani decidessimo di essere felici con altre regole potremmo farlo.
Purtroppo ci scordiamo spesso di questo particolare e crediamo che il gioco, la realtà , le circostanze siano più reali di noi.
Siamo enormemente più grandi e potenti del gioco che abbiamo messo in piedi.
Come De Niro è enormememente più potenziale di Travis Bickle che è solo una delle facce che può assumere o non assumere.
Il Personal Branding è uno strumento per giocare meglio al gioco.
Non per sostituirsi alla nostra esistenza più alta.
Infondere la propria personalità nella competizione economica funziona in termini di risultato. 
Punto.
Non soddisfa la voglia di crescita personale, di essere persone che volano più alte per comprendere quale sia il destino che ci attende  meno dopo questo passaggio sul pianeta.
Da risposta alla domanda “ chi devo essere io per funzionare bene nel gioco?”.
Non dà risposte alla domanda “Chi sono io in realtà, al di la del mercato?”.
Visto che spesso mi ritrovo in aula a parlare di Personal Branding, devo marcare questo importante fatto.
Qualcuno fa confusione e si espone a un pericolo grande.
Di essere qualcosa che è solo una tra le mille possibilità e rimanerci incastrato per tutta la vita, in un impeto di costretta coerenza.
Drammatico.
Per cercare la felicità si devono affrontare le domande alte e poi, strumentalmente  e sapendo che tutto è una commedia che sembra quasi reale, affrontare le domande più materiali.
Le prime riguardano lo spirito, l’anima, o qualunque nome si voglia dare a quel qualcosa che è prima di noi e delle nostre invenzioni.
Le seconde sono le domande che ci servono a vivere, portare a casa il pane, a mantenere i figli a scuola o ad andare in vacanza.
E’ importante non confondere i livelli e cercare di fare il meglio su ambedue.
Non siamo solo quello che vogliamo dimostrare sul mercato.
Lì si pratica una parte, si ricopre un ruolo.
Recitiamo pure, e bene, godendoci i frutti dell’agonismo di mercato.
Ma non fermiamoci li.
Abbiamo un avvenire più grande se solo alzeremo lo sguardo per vedere le infinite strade che possiamo disegnare senza l’aiuto delle regole.
www.sebastianozanolli.com - www.venderedipiu.it 

Lo sport come paradigma della vita

Ho sempre visto e vissuto lo sport come una realtà simbolica della vita: che è guerra, è lotta, è sofferenza, disperazione, rabbia, gioia, a volte ingiustizia, soddisfazione e felicità.
Quando pratichi uno sport, soprattutto a livello agonistico, ogni partita è una battaglia: se vinci vivi, se perdi muori sempre un poco. La grandezza dello sport sta però nel fatto che subito dopo rinasci. Ed ogni sconfitta non è mai definitiva, puoi trovare sempre la forza per un'altra battaglia, per un'altra occasione.
La capacità di competere, di vincere o perdere, di elaborare la sconfitta per poi tornare a confrontarsi è il fondamento anche della nostra vita. Ogni giorno.

Metodo, preparazione, studio, tenacia, ricerca dell'eccellenza, ripetizione, rivisitare continuamente il proprio modulo o stile di gioco al fine di rivederlo, ripensarlo, aggiornarlo, perfezionarlo. Così nello sport, ma anche nella vita vissuta, nel lavoro. 
Con un unico obiettivo: arrivare a "giocare la finale", il maggior numero di finali possibili per avere più occasioni. Alcune si perdono e ci si sente morire, altre si vincono e ci si sente immortali.
Questo è il gioco, questa è la vita e bisogna accettarlo.

By Pierangelo Raffini

lunedì 17 febbraio 2014

Riflessioni sulla Leadership

La leadership è un atteggiamento, un modo di vivere. Diventare leader è un'impresa che non arriva mai a compimento, ma è in continuo divenire e richiede assiduo perfezionamento, è un lavoro continuo e comporta un costante processo di maturazione e di autoconoscenza. Si costruisce attraverso la qualità della nostra vita e delle risposte che riusciamo a dare alle difficoltà che incontriamo.

Lo strumento primario per esercitarla è costituita dal sapere bene cosa si vuole e cosa ha veramente valore nella propria esistenza, essere ancorati a saldi principi e valori, avere una visione coerente del mondo. La forza più grande di un leader sta nella capacità di trasmettere agli altri la propria visione personale, anche attraverso l'esempio della propria vita. 

Sviluppare una propria "vision" è qualcosa di profondamente privato, un prodotto generato attraverso un importante processo di autoanalisi. Cosa ci sta veramente a cuore ? Che cosa si desidera davvero ? In che modo apporto qualcosa al mondo e dove trovo la mia collocazione ? Dove voglio giungere ? La grande capacità di un leader consiste nell'apprezzare fino in fondo la possibilità di continuare ad apprendere cose nuove: su di sé, sugli altri, sul mondo, senza smettere mai di guardare avanti alla ricerca di nuove scoperte e nuovi interessi. 

Un leader ha l'esatta conoscenza dei propri punti di forza, di debolezza, dei propri valori e della visione del mondo. Possiede una coraggiosa accettazione dell'innovazione e la capacità di adattarsi a un mondo in continuo cambiamento. E' in grado di coinvolgere gli altri attraverso un atteggiamento positivo ed empatico. Ha la capacità di trovare sempre nuove energie per sé e per gli altri, coltivando ambizioni eroiche che gli permettono di non mollare mai.

by Pierangelo Raffini
February 17, 2014 at 07:21AM
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domenica 16 febbraio 2014

@pier61: Insegnami la disciplina dandomi la pazienza.(Sant'Agostino) Quanti non leggono abbastanza di questo Santo ?

by Pierangelo Raffini
February 16, 2014 at 10:14AM
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Mai stancarsi di apprendere

Ho sempre ritenuto importante non stancarsi mai di apprendere. Imparare da tutti: dai clienti, dai fornitori, dalla concorrenza, dai personaggi importanti, dalle testimonianze che puoi leggere, dall'esperienza che ti forma giorno dopo giorno. Ho capito che si impara leggendo e facendo, si impara da ciò che funziona, ma molto anche da ciò che non funziona. Lessi tempo fa una frase attribuita a Pascal: "E' molto più bello sapere qualcosa di tutto, che tutto di una cosa". Questo aforisma mi rappresenta e ho scoperto che è utile. Soprattutto in momenti difficili.

by Pierangelo Raffini
February 16, 2014 at 09:19AM
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sabato 15 febbraio 2014

@pier61: Il mio tempo non è ancora giunto: alcuni nascono postumi (Nietzsche)

@pier61: Il mio tempo non è ancora giunto: alcuni nascono postumi (Nietzsche)

@pier61: "Chi volli essere già mi dimentica. Chi sono non mi conosce". (F.Pessoa)

@pier61: "Chi volli essere già mi dimentica. Chi sono non mi conosce". (F.Pessoa)

Se vuoi la pace accetta i tuoi limiti

Si è appena conclusa la preghiera di mezzogiorno all’abbazia benedettina di Münsterschwarzach, ventidue chilometri da Würzburg, Baviera settentrionale, Franconia per la gente del posto. Capelli fluenti ormai scappati dalla fronte, la lunga barba incanutita, Anselm Grün, 69 anni, ha scritto trecento libri sulla psiche e sullo spirito, vendendo in tutto il mondo 20 milioni di copie. Sta preparando un nuovo volume sulle ferite psicologiche dell’infanzia insieme con Walter Kohl, figlio del cancelliere dell’Unificazione tedesca, uno che dovrebbe intendersene.  

Padre Grün, ho l’iPhone, una bella automobile, una bella ragazza. Se non li avessi, il mio comandamento sarebbe di procurarmeli. Perché dovrei interessarmi alla religione?  
«La religione dà un senso alla vita. L’uomo desidera il successo, il denaro, ma queste cose, se pur si realizzano, non ci danno la soddisfazione sperata, restiamo senza pace. La religione risponde al richiamo dell’anima: è il desiderio di una vita buona». 

Molti «maestri spirituali» ci spingono a guardare dentro di noi, svalutando la realtà esteriore. Ma quando Gesù dice: «Date a Cesare quello che è di Cesare», non riconosce forse che l’uomo è un essere sociale?  
«La spiritualità si occupa della trasformazione personale, ma san Benedetto insegna: ora et labora. La responsabilità di fronte al mondo è una cosa molto importante per i fedeli. I cristiani non vivono solo per se stessi, vivono con gli altri e hanno il compito di trasformare la società. Max Horkheimer, il filosofo della scuola di Francoforte, ha detto che la religione ha il compito di rendere la società umana, di coltivare il desiderio per il totalmente altro. La società abbandonata a se stessa vuole controllare tutto, definire ogni comportamento umano La religione custodisce uno spazio di libertà». 

Perché dovrei avere dei valori morali quando l’obiettivo supremo della nostra società, la ricchezza, si raggiunge più facilmente senza?  
«Al monastero mi capita spesso di fare conferenze a manager e banchieri. Ci sono due atteggiamenti: uno che non rispetta e non crede ai valori, l’altro che invece ha capito come sia importante salvaguardarli, perché alla fine un mondo senza valori danneggia anche l’economia». 

L’economia rincorre la crescita illimitata, la morale del mercato è il desiderio infinito. Lei invece parla di senso del limite, perché?  
«Come dice il Papa, il capitalismo puro diventa disumano. Per fortuna in Germania abbiamo l’economia di mercato sociale dove il capitalismo è sottoposto a una critica, a certe limitazioni. Limite ha due significati diversi: il primo è il limite personale, i miei limiti umani. Il secondo è la finitezza della natura, per cui ogni crescita è limitata e destinata a finire, a morire. Questo tipo di crescita naturale dovrebbe essere il modello dell’economia. La concezione di una crescita senza limiti è una idea malata». 

Usando un termine dello psicoterapeuta Carl Gustav Jung, lei invita ad accettare la propria ombra: che cosa significa?  
«Jung dice che ciascuno ha dentro di sé diverse coppie di polarità. Una di queste è ragione-sentimento, quando uno vive soltanto nella ragione, i sentimenti vanno nell’ombra e diventano sentimentalismo. Lì acquistano un grande potere, perché non è più l’uomo che ha dei sentimenti ma i sentimenti che hanno l’uomo. Ovviamente bisogna trovare un equilibrio. Per farlo occorre sapersi accettare. Devo ad esempio saper riconoscere i miei impulsi sadici e masochistici, la mia cattiveria, la mia aggressività. Sono pulsioni che non vanno vissute, è chiaro, ma neppure negate. È importante saperle osservare con umiltà. Dalla paura dell’ombra nasce il moralismo, e più c’è paura più la severità del moralista cresce». 

La società corre sempre più in fretta e noi fatichiamo a tenere il ritmo. La velocità moderna non è l’opposto della pace interiore?  
«Molte persone percepiscono questa velocità come una minaccia al loro equilibrio, alla loro salute, una fonte costante di angoscia. Allora si cerca la quiete, ma a questo punto ecco un paradosso: la calma fa paura. Emergono alla superficie i nostri incubi, i sensi di colpa, di inadeguatezza, il timore della verità, delle malattie, della morte. La verità della calma terrorizza, la gente non vuole ricordare i propri limiti. È una porta che va attraversata». 

Il cristianesimo insiste sulla libertà umana ma la scienza moderna sembra considerare l’uomo soltanto come una sofisticata macchina bio-chimico. Basta una pillola a essere felici?  
«La libertà dell’uomo non è assoluta. La psicologia ci insegna che siamo dipendenti dall’inizio della nostra storia, dalle ferite dell’infanzia. C’è una storia che non possiamo cambiare anche se la responsabilità di rispondere spetta a noi. Nella risposta sta la nostra libertà. La depressione può avere un senso. Ci sono diversi tipi di depressione e alcuni, certo, vanno trattati con i farmaci. Ma talvolta la depressione è una ribellione contro un’immagine interiore troppo alta, troppo elevata, l’ossessione per il successo, per la perfezione. In questi casi è un modo per riportami alla mia misura vera. A volte la depressione è dovuta alla mancanza di radici nella storia personale, nella fede, nella forza che dovrebbe venirci dalle figure del padre e della madre». 

Che cos’è la fede?  
«La fede è un’esperienza. Quando un non-credente mi dice: io non posso credere, gli dico: non devi credere, prova! Gesù dice: Dio è il pastore, non manco di nulla. Non bisogna credere ma provare se questa parola è vera. Poi c’è un altro aspetto: che cosa vedo quando vedo la bellezza della natura, che cosa ascolto quando ascolto Mozart. Non è solo chimica. Nella bellezza della natura e nella bellezza della cultura riluce la bellezza assoluta. Questo è Dio. Quando uno dice non credo a Dio, in genere si riferisce a un’immagine particolare di Dio. Ma Dio è totalmente altro, mistero, come dice il teologo Karl Rahner. Quando uno ha il senso del mistero ha anche il senso di Dio». 

Lei talvolta parla degli angeli, che cos’è un angelo?  
«Bisogna stare attenti a non ridurre l’angelo a qualcosa di troppo familiare, come fa la New age o un certo esoterismo: all’angelo non si può telefonare. La teologia dice che gli angeli non sono persone ma forze personali, forze che proteggono la persona. L’angelo ci accetta come siamo e ci aiuta a stare con noi stessi anche quando gli altri ci disprezzano o ci respingono. Non è solo uno stato psicologico però, diciamo che l’angelo è un’immagine perché non abbiamo altri modi di esprimerci, ma è una realtà. Una realtà che viene da Dio». 

Che cos’è la preghiera?  
«La preghiera è un incontro con Dio. Mostro la mia verità a Dio. Alcuni credono che la preghiera serva a chiedere qualcosa, ma ciò che conta è l’incontro: offro la mia verità e le mie ombre a Dio perché lui le accetti». 

Che cos’è la meditazione?  
«La meditazione è un metodo. Una cinquantina di anni fa abbiamo riscoperto la meditazione dall’Oriente, grazie al buddhismo, ma la tecnica esisteva già nella nostra tradizione, nei padri del deserto o nell’esicasmo degli ortodossi. A volte bisogna andare lontano per trovare le cose vicine».  

Claudio Gallo - La Stampa - Cultura - 14 febbraio

venerdì 14 febbraio 2014

Se eri un bambino negli anni '50, '60, '70, '80 devi leggere.

1.- Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né
airbag…
2.- Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata
speciale e ancora ne serbiamo il ricordo.,,
3.- Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di
piombo.
4.- Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei
medicinali, nei bagni, alle porte.
5.- Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.
6.- Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla
bottiglia dell’acqua minerale…
7.- Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che
avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non
avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, imparammo a risolvere il
problema. Sì, noi ci scontravamo con cespugli, non con auto!
8.- Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima
del tramonto. Non avevamo cellulari… cosicché nessuno poteva
rintracciarci. Impensabile….
aversd
9.- La scuola durava fino alla mezza, poi andavamo a casa per il
pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà).
10.- Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente, e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di
nessuno, se non di noi stessi.
11.- Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro, bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare…
12.- Condividevamo una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia
e nessuno moriva per questo.
13.- Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi ,
televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby
surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet
… Avevamo invece tanti AMICI.
14.- Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa
dell’amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza
bussare e lui era lì e uscivamo a giocare.
15.- Si! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto?
Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano
delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti
per giocare e gli scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma.
16.- Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno.
17.- Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità … e imparavamo a gestirli.
La grande domanda allora è questa:
Come abbiamo fatto a sopravvivere?
E a crescere e diventare grandi?
Se appartieni a questa generazione, condividi questo link con i tuoi conoscenti della tua stessa generazione…. e anche con gente più giovane perché sappiano come eravamo noi prima!
(Paulo Coelho)

Tenerina con cioccolato fuso e gelato alla crema @lalocandadiBagnara



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giovedì 13 febbraio 2014

Come creare un profilo LinkedIn impressionante

LinkedIn è uno strumento di lavoro estremamente potente, nel nostro paese non ha ancora avuto il successo che sta avendo nei paesi anglosassoni ma vedo sempre più attività e sono molti che cominciano ad utilizzarlo dandogli il peso che merita anche dalle nostre parti.
Melonie Dodaro, definita da alcuni blog di settore come l’esperta numero uno di LinkedIn in Canada, ha prodotto delle linee guida su come realizzare un profilo perfetto e funzionante attraverso 21 passi:
  1. Il vostro nome dovrebbe contenere solo il vostro nome
    Evitate di mettere numeri di telefono o email, oppure scrivere cose non attinenti.
  2. L’intestazione dovrebbe essere accattivante e contenere parole chiave e frasi che potrebbero posizionarsi nei risultati di ricerca di Google
    Oltre che dal motore di ricerca interno, il vostro profilo sarà trovato anche attraverso i motori di ricerca, l’intestazione è uno degli elementi in cui le parole chiave sono maggiormente determinanti. Questo non significa che dovrete scrivere una serie di parole scollegate e senza senso ma tenere conto di quali possano essere più determinanti anche in chiave SEO.
  3. La foto dovrebbe essere fatta da un professionista
    Se non volete andare da un fotografo, almeno cercate di rendervi professionali, con uno sguardo allegro (senza esagerare). Avevo già scritto a riguardo
  4. E’ importante apparire come ben inseriti in un network, quindi assicuratevi di avere almeno 500 connessioni. Questo porta credibilità e autorevolezza sul web.
    Per fortuna arrivati a 500 collegamenti il contatore pubblico si ferma, è importante dimostrare di non essere appena sbarcati sulla piattaforma e che siete ben inseriti socialmente.
  5. Aggiungere tutte le informazioni di contatto pertinenti
    Se qualcuno vorrà contattarvi deve trovare il modo, inserite mail e numero di telefono per facilitarlo
  6. Inserite i vostri siti e i maggiori profili sociali
    Un buon modo per far capire che siete presenti online e dare modo a chi è interessato a voi di poter approfondire è farlo atterrare nei siti in cui curate i contenuti che vi riguardano
  7. Personalizzate il vostro URL
    Rendete semplice e facilmente memorizzabile l’indirizzo del vostro profilo in modo da scriverlo facilmente su biglietti da visita e sul web
  8. Aggiornate il vostro stato quotidianamente in modo da trasmettere valore e competenze.
    Va benissimo il vostro ultimo post sul blog, oppure contenuti di esperti del vostro settore che reputate interessanti per chi vi segue
  9. Nel riepilogo usate parole chiave e frasi con cui vorreste essere trovati online
  10. Scrivere in prima persona
  11. Parlare direttamente al vostro target di mercato in modo che possano riconoscere in voi un professionista preparato
  12. Aggiungete un video o una presentazione. Molti preferiscono guardare piuttosto che leggere
  13. Consigliate a chi legge il profilo di fare clic per riprodurre video in quanto non è così ovvio come sembrerebbe
  14. Aggiungete le vostre esperienze e competenze in modo che gli utenti possano avvallarle
  15. Utilizzare la sezione “Progetti” per evidenziare download o per mostrare i prodotti e servizi che state promuovendo
  16. Aggiungete i vostri lavori attuali e passati tenendo, come sempre, in considerazione le parole chiave
  17. Usate parole chiave durante la compilazione della sezione “Esperienze”
  18. Assicurarsi di avere almeno 10 raccomandazioni
  19. Se l’avete aggiungete precedenti esperienze di volontariato e nel sociale
  20. Aggiungere i più significativi riconoscimenti e premi ricevuti
  21. Unitevi a 50 gruppi (se non sbaglio è pure il limite massimo a cui iscriversi)
Questo è l’esempio del profilo di Melonie, imparando dai migliori si dovrebbero ottenere buoni risultati. (Ovviamente chi volesse collegarsi con me è il benvenuto: http://www.linkedin.com/in/skande )