venerdì 28 febbraio 2014
BUROCRAZIA. La consorteria dei mandarini più forte di qualsiasi governo
Che cosa vuol dire Startup (e perché l'Italia ha le carte in regola per investire sul suo futuro)
Il termine è avanti per definizione: start up. Fa molto americano, ma dietro c’è un mondo nuovo che può contribuire a rilanciare il lavoro, l’occupazione e fare innovazione. Start up è anche un approccio culturaleche va alimentato, insegnato, spiegato, diffuso, supportato e utilizzato per contribuire a rilanciare il sistema Paese in generale e i territori in particolare.
“Con il termine start up s’identifica l’operazione e il periodo durante il quale si avvia un’impresa. Nello start up possono avvenire operazioni di acquisizione delle risorse tecniche correnti, di definizione delle gerarchie e dei metodi di produzione, di ricerca di personale, ma anche studi di mercato con i quali si cerca di definire le attività e gli indirizzi aziendali”.
Questa la definizione che fornisce Wikipedia di start up e fa comprendere il significato di questo termine che sempre più spesso leggiamo e viene citato dai media.
Start up e Agenda Digitale
Quando si parla di start up si tende a pensare unicamente al settore high-tech, all’informatica, alle imprese che lavorano in Internet. Non è così anche se è vero che l’informatica è ormai pervasiva in ogni attività che intraprendiamo e la Rete ci permette di oltrepassare i confini fisici del territorio in cui nasce l’impresa, la start up. Quindi la tecnologia è una componente ormai irrinunciabile per fare impresa. Ma le start up possono originarsi dai settori più diversi e a volte mai considerati. Da qualche tempo, anche nel nostro Paese, si sta acquisendo consapevolezza su quest’aspetto. Tant’è vero che l’ex-ministro Corrado Passera ha dotato per la prima volta l’Italia di un’Agenda Digitale che poi è sfociata (non per nulla) nel Decreto di Crescita 2.0. Un vero e proprio programma d’indirizzo sulle start up, con una proposta di legislazione e di agevolazioni fiscali destinate a queste nuove imprese che, sul modello americano, devono essere snelle, rapide nel partire e se non funzionano, anche nel fallire. Oltre a introdurre regole chiare per ilcrowdfunding, il finanziamento collettivo veicolato sempre più spesso da piattaforme online. A questo proposito, per chi non lo conoscesse, consiglio di scaricare Il dossier Restart, Italia!, redatto da una task force di esperti. Uno strumento per fare dell’Italia un Paese per giovani e imprese giovani (ovvero, per le start up). Sì, perché il fallimento è contemplato nei paesi più avanzati e non viene vissuto come una vergogna, ma come un tentativo andato male che fornisce esperienza per migliorare nel successivo. Oltreoceano è pieno di imprese di successo i cui titolari provengono da insuccessi iniziali.
La cultura del give back
Sono un convinto sostenitore e nutro grande passione per il mondo delle start up. Per questo, oltre alla mia attività professionale, mi interesso e studio molto sul tema. Sono socio di Italia Startup e anche mentore per Innovami, un incubatore che si trova in provincia di Bologna. In questo modo ho sviluppato diverse idee sul modo in cui un territorio potrebbe diventare una culla per l’innovazione e un esempio in Italia e in Europa attraverso le start up, gli incubatori o degli acceleratori.
Proprio in virtù del tessuto imprenditoriale privato esistente in Italia ritengo che occorra sviluppare anche la cultura del give back. Questo termine sottende a un concetto che si basa su due punti. Il primo sta nella disponibilità di chi ha avuto successo nel mettersi a disposizione, gratuitamente, per valutare la business-idea delle giovani imprese e una volta scelte, riversare la propria esperienza sulle stesse. Il secondo punto è l’interesse a finanziare le neo imprese con modalità che possono variare da quella del business angel a quella del venture capital. Diffondere quest’approccio sarebbe un vantaggio per il territorio perché creerebbe un ciclo virtuoso del valore, offrirebbe posti di lavoro e svilupperebbe la capacità di pensare al lavoro in modo innovativo.
Una ricchezza per il territorio
Molti territori nel nostro Paese offrono possibilità uniche per la creazione di start up: dalla meccanica all’energia, dall’information technology alle charity company (imprese dedicate al sociale). Tutte in grado di sviluppare business e ricchezza per il territorio stesso. Un forte e riconosciuto incubatore in grado di far nascere, seguire e fare decollare le nuove imprese generano richieste di nuovi spazi abitativi e per ufficio, aumenta i consumi e la richiesta di servizi (si parla di tre posti di lavoro generati da ogni persona impiegata in una start up per lavanderia, pulizie, ristorazione, eccetera…), induce alla nascita di nuovi nuclei familiari che sono portati a rimanere sul territorio e richiama a sua volta altri capitali. Senza trascurare lo sviluppo di un più forte legame con le università in quei territori dove sono presenti.
Guardare al futuro, ora!
Il tema è lungo e articolato, porterò altri contributi prossimamente. Sottolineo che nulla si ottiene se non con un lavoro metodico, programmato e concreto. È una questione di approccio, di cultura, di cambio di mentalità. E di speranza nel futuro. Un solo esempio illuminante: Israele ha 8 milioni di abitanti, non ha materie prime (come noi), ma questo non le impedisce di essere la nazione con il numero maggiore di start up nel mondo (5000, in Italia sono circa 1300) di cui un buon 50% è quotato al Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici americana). Impiegano 237mila persone e generano il 60% dell’export. Hanno trasformato le difficoltà in risorse, senza ricchezze naturali hanno sviluppato la creatività. Che a noi non manca, come ci riconosce il mondo. Ma il momento è adesso. Se non ora, quando?
lunedì 24 febbraio 2014
domenica 23 febbraio 2014
@pier61: Il no profit in Italia genera 47 miliardi di euro, pari al 4% del PIL #sapevatelo #charity_startup
by Pierangelo Raffini
from Facebook
sabato 22 febbraio 2014
La ricchezza è un bene se aiuta gli altri
La prefazione del Papa al libro del cardinale Müller «Povera per i poveri. La missione della Chiesa»
Chi di noi non si sente a disagio nell’affrontare anche la sola parola «povertà»? Ci sono tante forme di povertà: fisiche, economiche, spirituali, sociali, morali. Il mondo occidentale identifica la povertà anzitutto con l’assenza di potere economico ed enfatizza negativamente questo status. Il suo governo, infatti, si fonda essenzialmente sull’enorme potere che il denaro ha acquisito oggi, un potere apparentemente superiore a ogni altro. Perciò un’assenza di potere economico significa irrilevanza a livello politico, sociale e persino umano. Chi non possiede denaro, viene considerato solo nella misura in cui può servire ad altri scopi. Ci sono tante povertà, ma la povertà economica è quella che viene guardata con maggior orrore. In questo c’è una grande verità. Il denaro è uno strumento che in qualche modo - come la proprietà - prolunga e accresce le capacità della libertà umana, consentendole di operare nel mondo, di agire, di portare frutto. Di per sé è uno strumento buono, come quasi tutte le cose di cui l’uomo dispone: è un mezzo che allarga le nostre possibilità. Tuttavia, questo mezzo può ritorcersi contro l’uomo. Il denaro e il potere economico, infatti, possono essere un mezzo che allontana l’uomo dall’uomo, confinandolo in un orizzonte egocentrico ed egoistico.
La stessa parola aramaica che Gesù utilizza nel Vangelo - mammona , cioè tesoro nascosto (cf. Mt 6, 24; Lc 16,13) - ce lo fa capire: quando il potere economico è uno strumento che produce tesori che si tengono solo per sé, nascondendoli agli altri, esso produce iniquità, perde la sua originaria valenza positiva. Anche il termine greco, usato da San Paolo, nella Lettera ai Filippesi (cf. Fil 2, 6) - arpagmos - rinvia a un bene trattenuto gelosamente per sé, o addirittura al frutto di ciò che si è rapinato agli altri. Questo accade quando dei beni vengono utilizzati da uomini che conoscono la solidarietà solo per la cerchia - piccola o grande che sia - dei propri conoscenti o quando si tratta di riceverla, ma non quando si tratta di offrirla. Questo accade quando l’uomo, avendo perso la speranza in un orizzonte trascendente, ha perso anche il gusto della gratuità, il gusto di fare il bene per la semplice bellezza di farlo (cf. Lc 6, 33 ss.).
Quando invece l’uomo è educato a riconoscere la fondamentale solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini - questo ci ricorda la Dottrina sociale della Chiesa - allora sa bene che non può tenere per sé i beni di cui dispone. Quando vive abitualmente nella solidarietà, l’uomo sa che ciò che nega ad altri e trattiene per sé, prima o poi, si ritorcerà contro di lui. In fondo, a questo allude nel Vangelo Gesù, quando accenna alla ruggine o alla tignola che rovinano le ricchezze possedute egoisticamente (cf. Mt 6, 19-20; Lc 12, 33).
Invece, quando i beni di cui si dispone sono utilizzati non solo per i propri bisogni, essi diffondendosi si moltiplicano e portano spesso un frutto inatteso. Infatti vi è un originale legame tra profitto e solidarietà, una circolarità feconda fra guadagno e dono, che il peccato tende a spezzare e offuscare. Compito dei cristiani è riscoprire, vivere e annunciare a tutti questa preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà. Quanto il mondo contemporaneo ha bisogno di riscoprire questa bella verità! Quanto più accetterà di fare i conti con questo, tanto più diminuiranno anche le povertà economiche che tanto ci affliggono.
Non possiamo però dimenticare che non esistono solo le povertà legate all’economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende solo «dai nostri beni» (cf. Lc 12, 15). Originariamente l’uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo, per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente dal bisogno e dall’aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell’impotenza davanti a qualcuno o qualcosa. Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere «creature»: non ci siamo fatti da noi stessi e da soli non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo stesso vivere.
In ogni caso, dipendiamo da qualcuno o da qualcosa. Possiamo vivere ciò come una debilitazione del vivere o come una possibilità, come una risorsa per fare i conti con un mondo in cui nessuno può far a meno dell’altro, in cui tutti siamo utili e preziosi per tutti, ciascuno a suo modo. Non c’è come scoprire questo che spinge a una prassi responsabile e responsabilizzante, in vista di un bene che è allora, davvero, inscindibilmente personale e comune. È evidente che questa prassi può nascere solo da una nuova mentalità, dalla conversione ad un nuovo modo di guardarci gli uni con gli altri! Solo quando l’uomo si concepisce non come un mondo a sé stante, ma come uno che per sua natura è legato a tutti gli altri, originariamente sentiti come «fratelli», è possibile una prassi sociale in cui il bene comune non rimane parola vuota e astratta!
Quando l’uomo si concepisce così e si educa a vivere così, l’originaria povertà creaturale non è più sentita come un handicap , bensì come una risorsa, nella quale ciò che arricchisce ciascuno, e liberamente viene donato, è un bene e un dono che ricade poi a vantaggio di tutti. Questa è la luce positiva con cui anche il Vangelo ci invita a guardare alla povertà. Proprio questa luce ci aiuta dunque a comprendere perché Gesù trasforma questa condizione in una autentica «beatitudine»: « Beati voi poveri! » (Lc 6, 20).
Allora, pur facendo tutto ciò che è in nostro potere e rifuggendo ogni forma di irresponsabile assuefazione alle proprie debolezze, non temiamo di riconoscerci bisognosi e incapaci di darci tutto ciò di cui avremmo bisogno, perché da soli e con le nostre sole forze non riusciamo a vincere ogni limite. Non temiamo questo riconoscimento, perché Dio stesso, in Gesù, si è curvato (cf. Fil 2, 8) e si curva su di noi e sulle nostre povertà per aiutarci e per donarci quei beni che da soli non potremmo mai avere.
Perciò Gesù elogia i «poveri in spirito» ( Mt 5, 3), vale a dire coloro che guardano così ai propri bisogni e, bisognosi come sono, si affidano a Dio, non temendo di dipendere da Lui (cf. Mt 6, 26). Da Dio possiamo infatti avere quel Bene che nessun limite può fermare, perché Lui è più potente di ogni limite e ce lo ha dimostrato quando ha vinto la morte! Dio da ricco che era si è fatto povero (cf. 2 Cor 8, 9) per arricchirci con i suoi doni! Egli ci ama, ogni fibra del nostro essere gli è cara, ai suoi occhi ciascuno di noi è unico ed ha un valore immenso: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati... voi valete più di molti passeri » ( Lc 12, 7) .
Papa Francesco - @Pontifex_it - Corriere della sera - 19 febbraio
mercoledì 19 febbraio 2014
CHE COS’È LA INTERNET OF EVERYTHING? TRA SCIENZA E FILOSOFIA, È IL NOSTRO FUTURO. IL MONDO CONNESSO SARÀ PIÙ INTELLIGENTE
“Oggi, poco meno dell’1% di ciò che può essere connesso alla Rete lo è effettivamente – ha spiegato David Bevilacqua, vicepresident South Europe Cisco -. Per arrivare a questo ci sono voluti almeno vent’anni, attraverso diverse fasi che si sono susseguite con rapidità crescente. Dalla prima era della connettività siamo passati alla Networked Economy (Economia della Rete), e oggi viviamo in un contesto in cui attraverso la rete si vivono esperienze relazionali e immersive: con i social network, con la collaboration, la possibilità di accedere ovunque in mobilità e con ogni mezzo al nostro mondo digitale”.
Sono dati ma, siccome sono tanti, si dicono Big Data
Internet, infatti, non è una rete: è la Rete. Un sistema neurale di connessioni che favorisce il passaggio delle informazioni più disparate, dal tasso di umidità dell’aria all’arrivo di un pulman, dal quantitativo di Like al numero di transazioni di pagamento.
Cisco sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione e di evangelizzazione sulla Internet of Everything, snocciolando dati che spiegano i fatti: nel mondo sono 2,2 miliardi gli utenti connessi a Internet (in pratica un terzo della popolazione mondiale). Nel 2012 gli oggetti connessi erano dodici miliardi, nel 2015 saranno 15 miliardi, nel 2020 quaranta miliardi. L’evoluzione della Internet of Everything? Raggiungere il 99% di quel mondo ancora non collegato per capirlo meglio, trasformando la tecnologia in nuove opportunità di servizio.
Internet of Everything in un Italian Forum
“È essenziale comprendere fin dall’inizio la portata della Internet of Everything per capire come sfruttare al meglio le opportunità aperte dall’evoluzione tecnologica che sta dando forma a questa nuova era, connettendo il nostro Paese con gli scenari globali – ha detto Agostino Santoni, Amministratore Delegato di Cisco Italia -. Se oggi le persone interagiscono con il web con strumenti quali il pc o lo smarthpone, attraverso i social network e altre reti, nel mondo dell’Internet of Everything le persone stesse potranno diventare nodi della rete, comunicando dati e informazioni, attraverso sensori e in altre forme. Il valore e la rilevanza delle nuove connessioni che nasceranno sarà determinato dall’attivazione di processi in grado di garantire che le informazioni corrette raggiungano il destinatario corretto, nel momento giusto e nel modo più appropriato: in sicurezza e proteggendo la privacy. I dati prodotti da ciò che sarà connesso alla rete non saranno più disponibili solo in forma grezza, perché la maggiore intelligenza e le maggiori funzionalità disponibili permetteranno di combinarli producendo informazioni cui macchine, computer, umani potranno attingere”.
Quanto vale il mercato della Internet of Everything
I risultati vengono da una combinazione del nuovo valore economico netto creato come conseguenza dell’Internet of Everything e del valore che migrerà dalle aziende, dalle amministrazioni e dai settori che resteranno indietro a quelle che sfrutteranno le innovazioni in arrivo, sottraendo a questo i costi di implementazione delle stesse. Basandosi su tale analisi, l’Internet of Everything ha la potenzialità di aumentare i profitti aziendali globali di un 21% aggregato, nei prossimi 10 anni.
Adottando un approccio bottom up, l’analisi prende in considerazione casi di utilizzo per i quali i dati sono disponibili, in opposizione a un approccio top down basato per buona parte su previsioni ad ampio raggio in termini di miglioramento della produttività e del Pil. Alcuni dei casi di utilizzo, come l’adozione di tecnologie di collaboration e il maggiore utilizzo del telelavoro, riguardano tutti i settori economici; altri, sono specifici di un settore.
IoT come …Italian of Things? Speriamo di no
MICROSITE DI: /
LAURA ZANOTTI - The BizLoftAcquisire la capacità di Vision
Avendo una "vision" riesci a trovare anche la tua missione e, di conseguenza, la tua serenità, il tuo benessere interiore.
La propria missione cambia nel tempo, perchè normalmente si evolve durante la propria esistenza. Non è un voltafaccia. Si può cambiare missione restando fedele a se stessi, ai propri principi, ai propri Valori.
Significa applicare quello che qualcuno definisce "coerenza dinamica" e non "statica", cambiando appunto come cambia il mondo e come mutano i propri Valori nel tempo. Se così non fosse si rimmarrebbe sempre uguali senza cogliere i mutamenti attorno a noi.
martedì 18 febbraio 2014
Cosa si dovrebbe sapere sul Personal Branding, di Sebastiano Zanolli
Il tema del trattare se stessi e il proprio nome come un marchio ed applicare le categorie del marketing alla propria vita è una attività che negli ultimi anni ha trovato grande diffusione e pratica.
Non è strano.
Quando i mercati sono alle strette e non hanno confini, se non quelli che metti tu, la competitività diventa parossistica.
Qualunque cosa è un’alternativa ai miei prodotti e servizi che sono in concorrenza con merce e prestazioni che fino a ieri avrei classificato come innocue e ininfluenti per la mia performance.
Come l’influenza aviaria si sposta dagli animali all’uomo, questa competitività si trasferisce dalle cose alle persone.
Siamo noi i prossimi a essere passibili di sostituibilità.
Noi che credevamo di essere gli unici giudici, ora ci ritroviamo a essere giudicati.
Poco male per i venditori coscienti.
Molto male per i venditori incoscienti, nel senso di chi non ha cognizione di sé e del significato dei propri atti.
La gara è così spietata che l’asset, il patrimonio, la caratteristica più idonea da sfruttare, la meno imitabile e la più monetizzabile è il proprio profilo personale.
Ecco allora la trasposizione di alcune mosse di marketing aziendale in campo personale.
Competenza. Sapere risolvere problemi reali.
• Visibilità. Che la gente sia in grado di sapere che gli puoi risolvere questi problemi.
• Network. Una rete che trasmetta la tua capacità e generi opportunità, connettendo domanda e offerta e magari stimoli nuovi livelli d’intervento.
• Essere punti di riferimento per un’audience definita e affogare tutto il movimento che fai nella vita reale e in quella digitale, con la glassa dei tuoi talenti e dei tuoi tratti caratteriali più interessanti e marcati.
• Occultare punti di debolezza e porre l’accento sui punti di forza.
• Sapere raccontare in modo avvincente, credibile e motivante la tua storia individuale.
Tutto questo, e altro, è curare il proprio marchio personale.
Funziona. Ne sono certo per averlo visto produrre i risultati economici e di immagine che promette.
Tra le tante invenzioni e panacee che il mercato consulenziale è costretto a mettere insieme con i più disparati acronimi e termini perlopiù inglesi, questo funziona davvero e ci tengo a sottolinearlo.
Ma la piccola riflessione che vorrei tentare di fare con queste righe è una altra.
Corre veloce verso l’alto.
Richiede un salto di grande portata.
Un salto di coscienza.
Vediamo se riesco a spiegarmi.
Il mercato è un gioco, crudele e spietato, ma pur sempre un gioco.
Frutto di regole, a volte comprensibili, a volte meno.
In questo gioco noi siamo immersi totalmente e, per potere giocare adeguatamente, accettiamo che il gioco non sia un gioco, ma che sia la realtà data.
Non c’è nulla di male in sé, ma confondere un’attività umana, creata per produrre risultati materiali ed economici, con il senso dell’esistenza ha in sé i semi di un possibile disagio.
Un po’ come se Robert De Niro fosse ancora convinto di essere Travis Bickle, il ventiseienne alienato, depresso, tassista notturno di taxi Driver.
Noi, come donne e uomini, esistiamo al di là del mercato e dei mercati.
Esistevamo prima ed esisteremo poi, come genere, come specie.
Questi mercati sono una soluzione temporanea a un problema eterno per l'umanità.
Come sopravvivere materialmente in un ambiente più o meno difficile.
La soluzione attuale, il capitalismo e il libero sono estremamente produttivi per il benessere materiale e l’evoluzione e diffusione del benessere fisico della specie.
Permette potenzialemente anche a chi abita in Alaska o nel Sahara di vivere con dignità.
Come fa’ un termosifone o un condizionatore, alterano le condizioni date.
Ma come sempre accade per qualcosa di artificiale, serve adattare chi deve giocare in modo che giochi bene, mano a mano che la specializzazione cresce.
Come i cani da combattimento o i tori da corrida.
I canarini da competizione, i gladiatori o i cavalli da corsa.
Non vanno bene tutti.
I mercati, oltre ad essere conversazioni, sono invenzioni umane.
Il profilo dei giocatori anche.
Qui è il nodo.
Noi siamo qualcosa in più.
Siamo un passo più in là della nostra idea di noi stessi.
Siamo un grumo di pensiero ed emozioni capaci di ragionamenti ma soprattutto di sensazioni e sentimenti.
Siamo individui nati con una coscienza che permette di osservare il nostro pensiero.
E il pensiero è la radice del mondo che abbiamo creato.
Siamo potenzialmente dei creatori di realtà.
Ma a volte, spesso a dire la verità, dimentichiamo e confondiamo causa ed effetto.
Rovesciandoli.
Una via verso l’insoddisfazione, che ricordiamolo è il meccanismo chiave del gioco di mercato, è dimenticare che possiamo essere ciò che desideriamo.
A prescindere da ciò che noi o altri crediamo di essere.
Capisco che sia un po’ complicato.
Mi rispiego.
Tutto parte dal pensiero, l’idea di noi, dei giochi che vogliamo mettere in piedi, delle regole, dei meccanismi.
A volte, dimentichiamo che i creatori di questa realtà siamo noi.
La costruiamo a partire dai nostri ricordi, sensazioni, giudizi, conoscenze.
Ma è pur sempre solo una tra le innumerevoli possibilità.
Se domani decidessimo di essere felici con altre regole potremmo farlo.
Purtroppo ci scordiamo spesso di questo particolare e crediamo che il gioco, la realtà , le circostanze siano più reali di noi.
Siamo enormemente più grandi e potenti del gioco che abbiamo messo in piedi.
Come De Niro è enormememente più potenziale di Travis Bickle che è solo una delle facce che può assumere o non assumere.
Il Personal Branding è uno strumento per giocare meglio al gioco.
Non per sostituirsi alla nostra esistenza più alta.
Infondere la propria personalità nella competizione economica funziona in termini di risultato.
Punto.
Non soddisfa la voglia di crescita personale, di essere persone che volano più alte per comprendere quale sia il destino che ci attende meno dopo questo passaggio sul pianeta.
Da risposta alla domanda “ chi devo essere io per funzionare bene nel gioco?”.
Non dà risposte alla domanda “Chi sono io in realtà, al di la del mercato?”.
Visto che spesso mi ritrovo in aula a parlare di Personal Branding, devo marcare questo importante fatto.
Qualcuno fa confusione e si espone a un pericolo grande.
Di essere qualcosa che è solo una tra le mille possibilità e rimanerci incastrato per tutta la vita, in un impeto di costretta coerenza.
Drammatico.
Per cercare la felicità si devono affrontare le domande alte e poi, strumentalmente e sapendo che tutto è una commedia che sembra quasi reale, affrontare le domande più materiali.
Le prime riguardano lo spirito, l’anima, o qualunque nome si voglia dare a quel qualcosa che è prima di noi e delle nostre invenzioni.
Le seconde sono le domande che ci servono a vivere, portare a casa il pane, a mantenere i figli a scuola o ad andare in vacanza.
E’ importante non confondere i livelli e cercare di fare il meglio su ambedue.
Non siamo solo quello che vogliamo dimostrare sul mercato.
Lì si pratica una parte, si ricopre un ruolo.
Recitiamo pure, e bene, godendoci i frutti dell’agonismo di mercato.
Ma non fermiamoci li.
Abbiamo un avvenire più grande se solo alzeremo lo sguardo per vedere le infinite strade che possiamo disegnare senza l’aiuto delle regole.
Lo sport come paradigma della vita
Quando pratichi uno sport, soprattutto a livello agonistico, ogni partita è una battaglia: se vinci vivi, se perdi muori sempre un poco. La grandezza dello sport sta però nel fatto che subito dopo rinasci. Ed ogni sconfitta non è mai definitiva, puoi trovare sempre la forza per un'altra battaglia, per un'altra occasione.
La capacità di competere, di vincere o perdere, di elaborare la sconfitta per poi tornare a confrontarsi è il fondamento anche della nostra vita. Ogni giorno.
Metodo, preparazione, studio, tenacia, ricerca dell'eccellenza, ripetizione, rivisitare continuamente il proprio modulo o stile di gioco al fine di rivederlo, ripensarlo, aggiornarlo, perfezionarlo. Così nello sport, ma anche nella vita vissuta, nel lavoro.
Con un unico obiettivo: arrivare a "giocare la finale", il maggior numero di finali possibili per avere più occasioni. Alcune si perdono e ci si sente morire, altre si vincono e ci si sente immortali.
Questo è il gioco, questa è la vita e bisogna accettarlo.
lunedì 17 febbraio 2014
Riflessioni sulla Leadership
by Pierangelo Raffini
February 17, 2014 at 07:21AM
from Facebook
domenica 16 febbraio 2014
@pier61: Insegnami la disciplina dandomi la pazienza.(Sant'Agostino) Quanti non leggono abbastanza di questo Santo ?
February 16, 2014 at 10:14AM
from Facebook
Mai stancarsi di apprendere
by Pierangelo Raffini
February 16, 2014 at 09:19AM
from Facebook
sabato 15 febbraio 2014
@pier61: Il mio tempo non è ancora giunto: alcuni nascono postumi (Nietzsche)
@pier61: "Chi volli essere già mi dimentica. Chi sono non mi conosce". (F.Pessoa)
Se vuoi la pace accetta i tuoi limiti
venerdì 14 febbraio 2014
Se eri un bambino negli anni '50, '60, '70, '80 devi leggere.
airbag…
2.- Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata
speciale e ancora ne serbiamo il ricordo.,,
3.- Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di
piombo.
4.- Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei
medicinali, nei bagni, alle porte.
5.- Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco.
6.- Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla
bottiglia dell’acqua minerale…
7.- Trascorrevamo ore ed ore costruendoci carretti a rotelle ed i fortunati che
avevano strade in discesa si lanciavano e, a metà corsa, ricordavano di non
avere freni. Dopo vari scontri contro i cespugli, imparammo a risolvere il
problema. Sì, noi ci scontravamo con cespugli, non con auto!
8.- Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima
del tramonto. Non avevamo cellulari… cosicché nessuno poteva
rintracciarci. Impensabile….
9.- La scuola durava fino alla mezza, poi andavamo a casa per il
pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà).
10.- Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente, e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di
nessuno, se non di noi stessi.
11.- Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro, bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare…
12.- Condividevamo una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia
e nessuno moriva per questo.
13.- Non avevamo Playstation, Nintendo 64, X box, Videogiochi ,
televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby
surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet
… Avevamo invece tanti AMICI.
14.- Uscivamo, montavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa
dell’amico, suonavamo il campanello o semplicemente entravamo senza
bussare e lui era lì e uscivamo a giocare.
15.- Si! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto?
Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano
delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti
per giocare e gli scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma.
16.- Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno.
17.- Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità … e imparavamo a gestirli.
Come abbiamo fatto a sopravvivere?
Tenerina con cioccolato fuso e gelato alla crema @lalocandadiBagnara
giovedì 13 febbraio 2014
Come creare un profilo LinkedIn impressionante
Melonie Dodaro, definita da alcuni blog di settore come l’esperta numero uno di LinkedIn in Canada, ha prodotto delle linee guida su come realizzare un profilo perfetto e funzionante attraverso 21 passi:
- Il vostro nome dovrebbe contenere solo il vostro nome
Evitate di mettere numeri di telefono o email, oppure scrivere cose non attinenti. - L’intestazione dovrebbe essere accattivante e contenere parole chiave e frasi che potrebbero posizionarsi nei risultati di ricerca di Google
Oltre che dal motore di ricerca interno, il vostro profilo sarà trovato anche attraverso i motori di ricerca, l’intestazione è uno degli elementi in cui le parole chiave sono maggiormente determinanti. Questo non significa che dovrete scrivere una serie di parole scollegate e senza senso ma tenere conto di quali possano essere più determinanti anche in chiave SEO. - La foto dovrebbe essere fatta da un professionista
Se non volete andare da un fotografo, almeno cercate di rendervi professionali, con uno sguardo allegro (senza esagerare). Avevo già scritto a riguardo - E’ importante apparire come ben inseriti in un network, quindi assicuratevi di avere almeno 500 connessioni. Questo porta credibilità e autorevolezza sul web.
Per fortuna arrivati a 500 collegamenti il contatore pubblico si ferma, è importante dimostrare di non essere appena sbarcati sulla piattaforma e che siete ben inseriti socialmente. - Aggiungere tutte le informazioni di contatto pertinenti
Se qualcuno vorrà contattarvi deve trovare il modo, inserite mail e numero di telefono per facilitarlo - Inserite i vostri siti e i maggiori profili sociali
Un buon modo per far capire che siete presenti online e dare modo a chi è interessato a voi di poter approfondire è farlo atterrare nei siti in cui curate i contenuti che vi riguardano - Personalizzate il vostro URL
Rendete semplice e facilmente memorizzabile l’indirizzo del vostro profilo in modo da scriverlo facilmente su biglietti da visita e sul web - Aggiornate il vostro stato quotidianamente in modo da trasmettere valore e competenze.
Va benissimo il vostro ultimo post sul blog, oppure contenuti di esperti del vostro settore che reputate interessanti per chi vi segue - Nel riepilogo usate parole chiave e frasi con cui vorreste essere trovati online
- Scrivere in prima persona
- Parlare direttamente al vostro target di mercato in modo che possano riconoscere in voi un professionista preparato
- Aggiungete un video o una presentazione. Molti preferiscono guardare piuttosto che leggere
- Consigliate a chi legge il profilo di fare clic per riprodurre video in quanto non è così ovvio come sembrerebbe
- Aggiungete le vostre esperienze e competenze in modo che gli utenti possano avvallarle
- Utilizzare la sezione “Progetti” per evidenziare download o per mostrare i prodotti e servizi che state promuovendo
- Aggiungete i vostri lavori attuali e passati tenendo, come sempre, in considerazione le parole chiave
- Usate parole chiave durante la compilazione della sezione “Esperienze”
- Assicurarsi di avere almeno 10 raccomandazioni
- Se l’avete aggiungete precedenti esperienze di volontariato e nel sociale
- Aggiungere i più significativi riconoscimenti e premi ricevuti
- Unitevi a 50 gruppi (se non sbaglio è pure il limite massimo a cui iscriversi)