lunedì 27 aprile 2009

La cucina di guerra - Seconda parte

Come raccontato nell’articolo precedente il regime fascista focalizzò subito l’attenzione delle "donne e madri esemplari" anche sul cibo e il nutrimento, consigliando come utilizzare i prodotti per una cucina risparmiosa e attenta sostituendo gli alimenti che scarseggiavano sempre o erano ai più impossibili dal comprarsi. Nel periodo bellico la situazione si aggravò ulteriormente e il regime si adoperò per diffondere il più possibile i dettami autarchici "alle donne fasciste, maestre nell’economia domestica, sagge e previdenti tutrici della casa e della mensa" come recitava un opuscolo dell’epoca. C'erano le tessere annonarie e non tutti ne avevano diritto, il che equivaleva a dover elemosinare o barattare lavoro per cibo. Si intimava attenzione agli sprechi e si suggeriva di evitare il cibo monotono "che viene a noia" -cito sempre l’opuscolo- operandosi perché, nonostante le ristrettezze, le vivande fossero variate. In un altro opuscolo destinato alle massaie si può leggere "Come si assimila meglio il cibo? Quando è gustoso, ben cotto e ha un aspetto invitante... abituati a consumare più del necessario oggi che le esigenze di guerra impongono un razionamento, troppe donne si trovano smarrite e incapaci, specie nei riguardi della preparazione della mensa...". Venivano quindi proposte delle liste di pasti per le famiglie tenendo scrupolosamente calcolo del razionamento e cercando di mantenere al minimo la spesa, variando i pasti e garantendo un’equa quantità di calorie giornaliere. Alcuni cibi suggeriti in tempo di guerra erano rappresentati da zuppe di cipolla, pasta in brodo, minestra di riso, verzate, frittate, finocchi gratinati, castagne lesse o polenta con fagioli, per citarne alcuni. Con il peggiorare del conflitto e gli avvenimenti successivi all’8 settembre l’approvvigionamento di generi alimentari divenne sempre più problematico e dilagò il triste fenomeno della "borsa nera". Tutto divenne "surrogato", dal caffè al pane - sempre più impastato con farina ottenuta non dal grano - a tante altre vivande. I pasti degli italiani divennero sempre più minimali e problematici. Dovranno passare alcuni anni dopo il 25 aprile 1945 perché oltre alla pace ritornasse la prosperità anche in tavola.
Pubblicato su L'informazione-Il Domani di domenica 26 aprile 2009

domenica 26 aprile 2009

Vivere, mai sopravvivere

Rifiutare la mediocrità, in qualunque campo. Non rassegnarsi mai, per vivere e non sopravvivere. Coltivare una volontà autonoma per avere il potere di fare qualcosa quando tutto ciò che ti sta intorno ti induce a desistere. Continuare sempre nella ricerca interiore di quelle sensazioni che ti portano ad assecondare il desiderio potente e naturale al cambiamento, che è garanzia di dinamismo e valore. Nella vita professionale come in quella privata. In ciò aiuta molto la riflessione e la meditazione che contribuisce a maturare una propria consapevolezza e ti rende capace di scegliere le cose che ti fanno felice, scartando quelle che non lo sono.
Per questo occorre compiere una sorta di cammino interiore simile al lavoro che una volta facevano gli uomini per accendere il fuoco. Batti e ribatti una pietra contro l'altra, senza stancarti, finché... scocca la scintilla. Per nascere il fuoco ha bisogno del legno, ma per divampare deve aspettare il vento. Ecco il fulcro di tutto. Cercare sempre il fuoco nella propria vita, attendere il vento per scatenare tutto il nostro potenziale, perché - diversamente - senza fuoco e senza vento i nostri giorni non sono molto diversi da una mediocre prigionia.

sabato 25 aprile 2009

Una mattina all'alba

Mi piace svegliarmi presto. In primavera e in estate poi la trovo un'esperienza quotidiana meravigliosa, energetica, salutare. Certamente abitare in campagna aiuta, ma facevo lo stesso anche in città molto tempo fa e mi sentivo - anche allora - felice in un modo che definivo fanciullesco. Non c'era una ragione, mi sentivo così dentro.
Trovo l'alba per sua natura un tempo del giorno tranquillo, un misterioso, molto contemplativo, un tempo in cui si indugia naturalmente, un tempo che aiuta a riflettere e mettere ordine sia interiore che alla giornata che incalza. E' sicuramente stupendo il tramonto, soprattutto quando quella rossa palla di fuoco cala lentamente sul giorno che va a morire al Nadir... ma proprio perchè dentro, penso a tutti noi, il tramonto richiama qualcosa che sta finendo ed in fondo il concetto della morte, io dicevo, preferisco l'alba.
Al mattino, come ora, guardo l'alba nascere - appunto - e rivolgo gli occhi al cielo verso oriente. Allo Zenith è un tempo di vita nuova, di nuovo inizio.

venerdì 24 aprile 2009

I libri

I libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante.
Fernando Pessoa

giovedì 23 aprile 2009

Il Piccolo Principe: una fonte di saggezza

Mentre fai progetti per le prossime settimane e quando pianifichi i tuoi obiettivi pensa anche a questo, individua le cose che sono davvero importanti e riserva loro del tempo "reale", non rubato qua e là alle mille altre attività della giornata. E se per caso ti avanzano cinquantatré minuti, prova a camminare adagio adagio verso la tua fontana...

martedì 21 aprile 2009

Io TIFOSO Interista contro la stupidità di un certo tifo


È il nuovo «bad boy» cattivo solo in campo
Insultato, criticato, la società lo sta aiutando a limitarsi un po’ nelle sue reazioni

MILANO —Il nuovo bad boy del pallone, che raccoglie un’incredibile unanimità di critiche presso avversari, tifosi e moralisti sempre in servizio, non è un santo (è troppo giovane e co­munque noi non ne conosciamo nean­che di anziani) ma sa essere diverso da come lo vediamo in campo. Fuori infat­ti Mario Balotelli è talmente cattivo che a Natale ha passato le vacanze in una favela di Salvador de Bahia; che l’estate scorsa è stato in un campo ecologico del Wwf in Sicilia; che un gior­no è passato dal canile, ha visto Lucky, una cagnetta abbandonata, e se l’è por­tata a casa; che la sera spesso va a trovare i vec­chi compagni della Pri­mavera al Centro sporti­vo dei giovani interisti, zona Affori, a pochi passi da casa sua, dove vive da solo da un anno e mezzo; che in spoglia­toio, fra una cazziata di Materazzi, uno sfottò di Chivu e un grugnito di Ibrahimovic (che a volte lo in­seguirebbe a calci), viene ancora trattato più come una mascotte che co­me l’apprendista fuoriclasse quale è.
Questo ovviamente non giustifica ciò che di negativo combina allo stadio (gestacci agli arbitri, insofferenze ver­so gli avversari ai quali dedica irrisioni ricavando falli e giudizi feroci, ultimo quello del solitamente pio Legrotta­glie), ma può aiutare a capire perché lo faccia. Mario, di base, è uno che pensa agli affari suoi, è sicuro di sé e dei pro­pri mezzi e non perde occasione per di­mostrarlo al mondo e poi riderne con gli amici al bar. Avendo 18 anni, lo fa come si fa all’oratorio, senza contener­si, non essendo la sottrazione un’opera­zione facile in gioventù. A ben vedere, nel calcio nulla è grave come sembra, neanche un neoricco giocatore diciot­tenne che esce dalla Pinetina in cabrio scoperta un giorno di pieno gennaio. Ma la cosiddetta «amplificazione me­diatica » appunto amplifica, preferisce parlare di linguacce anziché di rovescia­te, di simpatia/antipatia anziché di ca­pacità. Mario ci mette del suo, con la cabrio ma soprattutto con un carattere che lui stesso ha definito «stupido», e il gioco è fatto: «Passo per spaccone so­lo perché sono un istintivo».

Sono scenari da nuovo Materazzi. In­sultato a prescindere, toccato nei punti dolenti personali (la mamma scompar­sa per Marco, la pelle nera per Mario), adorato dai propri tifosi e odiato da tut­ti gli altri, anche Balotelli è vittima di una strana inversione dell’etica calcisti­ca. Colpevole non è Zidane che, per rea­zione, cerca l’autopsia di Materazzi da vivo con una testata nello sterno, ma Materazzi che dice qualcosa sulla sorel­la di Zidane. E colpevole non è Tiago che per reazione attenta la caviglia di Balotelli, ma Balotelli che ha ecceduto in dribbling e tunnel, peraltro non vie­tati dai regolamenti. Di solito insegna­no che nello sport la provocazione può far parte del gioco, la reazione violenta no. Con questi due signori, però, le re­gole cambiano, il mondo si capo­volge e la faccia da schiaffi finisce per pesare più della verità. Mate­razzi, dopo molti Tir presi sul naso, con la maturità ha imparato ad abbozzare. Sulla capacità di fare altrettanto si gio­cherà molto del futuro di Balotelli.
Mario, certo, ha un approccio libero alla vita che lo potrà aiutare. Però il ner­vo scoperto che trasforma la sua diver­tita partita in una battaglia contro il mondo è duro da curare. Gli ululati, il «negro di merda», il «mangia le bana­ne », inaccettabili per chiunque, con lui diventano benzina su un fuoco già fin troppo acceso. Forse non serve nean­che tirare in ballo l’abbandono subìto a 2 anni dalla famiglia originaria ghane­se, i Barwuah, la malattia, la salvezza at­traverso la nuova famiglia bresciana, i Balotelli, la difficile integrazione, in­somma la sofferenza. Il punto, mol­to più semplice, è che il razzismo fa giustamente incazzare chi lo subi­sce, senza bisogno di psicanalisi o sociologie. E fa infuriare ancora di più uno come Mario che ha scelto la cittadinanza italiana, che si sen­te italiano e che per l’Italia, in naziona­le Under 21, gioca e segna pure per chi lo tratta come un animale.
Negro. È cominciata quando stava in C con il Lumezzane, a 15 anni, prose­gue ora in serie A. Se l’Italia è fatta così, perché dovrebbe migliorare salendo di categoria? Casomai è il contrario, e le poche centinaia di ultrà del passato di­ventano i 20 mila juventini di domeni­ca a Torino o la curva romanista a San Siro a marzo. Con, anche qui, l’applica­zione del teorema Materazzi: colpevoli non sono stati considerati quelli che fa­cevano «buuh» a Balotelli, ma Balotelli che ha fatto segno loro di stare zitti. «Non è tutta colpa mia, io reagisco alle provocazioni», dice lui. I tifosi lo sanno e ci danno dentro. Mario si innervosi­sce e estrae il peggio da sé e dagli altri, a volte giocandoci pure compiaciuto, come quando domenica dopo l’inter­vallo è rientrato in campo per ultimo in clamoroso ritardo, scatenando l’ira dello stadio bianconero.
Siccome qualcuno dovrà pur ferma­re il circolo perverso, ed è assai difficile che possa farlo il popolo tifoso, all’In­ter stanno aiutando Mario a compiere la prima mossa, insegnandogli a limi­tarsi come può. «Non mi piace come si comporta con gli arbitri, anche se pos­so capire cosa prova», ha detto José Mourinho. Benché abbia spesso chia­mato personalità quello che gli altri de­finiscono arroganza, Mou non lo ho mai difeso a priori e lo ha saputo anche trattare duramente, escludendolo di squadra quando faceva l’anarchico e il presuntuoso senza testa e restituendo­gli il posto che merita quando il ragaz­zo ha capito i propri errori. Così si è tut­ti uguali come sogna Mario, con gli stessi diritti e doveri. A 18 anni, la sua partita per ottenere i primi e capire i se­condi è appena cominciata.
Alessandro Pasini 20 aprile 2009 - Corriere della Sera

lunedì 20 aprile 2009

La cucina del ventennio - Parte prima

Il regime fascista fu uno dei fautori del cambiamento delle abitudini degli italiani a tavola inventando le sagre e le rassegne dei prodotti per una cucina "autarchica" e promuovendo la tendenza al mangiar fuori in occasione di celebrazioni e viaggi come quelli dei treni popolari, dei dopolavoro, delle associazioni sportive e studentesche. Ne è un esempio perfetto la prima edizione nel 1931 della Guida Gastronomica Italiana a cura del Touring Club Italiano, dove si conduce il viaggiatore-turista alla scoperta dei prodotti locali regionali. Anche in Romagna - come in tutta l’Italia - fu combattuta la "guerra" alla carne per motivi di salute e... per la difficoltà che la gente comune aveva nel procurarsene dato il costo. "La carne ingrassa e può portare alla sterilità" oppure "si muore più facilmente di indigestione che di fame" sono motti e falsi miti del tempo della propaganda fascista alle prese con l’educazione alimentare. Il regime promosse i prodotti nazionali e i risultati furono l’utilizzo enorme di zuppe di verdura, frittate, minestroni, formaggio, riso e pane. Un risultato positivo fu certamente l’enorme slancio dato alla ricerca sulle tipologie di sementi e la selezione delle qualità di grano. La carne, quando c’era, si presentava solo la domenica a pranzo (o nelle feste canoniche) e la differenza tra i ceti era naturalmente enorme anche nell'alimentazione, un detto del tempo diceva "se un povero mangia una gallina, o è ammalato il povero o è ammalata la gallina". A questo proposito il brodo era in realtà quasi sempre di dado - invenzione del periodo - con verdure, riso o pasta e la carne lessata di tagli più o meno nobili con aggiunta di parti animali. I dolci comparivano veramente solo nelle case della borghesia, dei nobili o dei contadini che possedevano la terra. La popolazione in generale si cibava di polenta, uova, patate, fagioli, pancetta (rara), verdure impanate con un po’ di farina o cotte nel lardo. Le famiglie che vivevano nelle zone appenniniche erano quelle che mangiavano sicuramente peggio. Il caffè era spesso surrogato e il "caffè-caffè" molto ricercato. Il ventennio stimolò anche il riciclo e gli avanzi venivano riproposti, riscaldati, leggermente fritti, o lavorati, in tutti i casi guardando foto dell’epoca noterete la differenza tra lavoratori e "signori", non solo nell'abbigliamento, ma anche in un certo "benessere" delle forme.
Pubblicato su L'Informazione-Il Domani di domenica 19 aprile 2009

domenica 19 aprile 2009

Il passato non assicura più il futuro

Ogni anno occorre ricominciare da capo, come accade nel mondo dello sport, ogni anno c'è un nuovo campionato, quello precedente non conta più. E' importante comprendere che l'atteggiamento verso il cambiamento oggi deve sempre più assomigliare a quello del nomade nei confronti dello spostamento. Il passato non assicura più il futuro, individualmente, come azienda, non è più sedersi o vivere di rendita. Come diceva Bill Gates nel 1996, allora riferendosi al settore informatico, ma oggi attualissimo "Siamo in un business in cui non esiste livello di successo che garantisca successo per il futuro."

Un attimo

Aver raccolto viva una voce nel vento dei millenni, aver inteso in un bell'occhio antico l'inviolabile fiamma del suo sogno, aver bussato senza iattanza a porte che s'aprono soltanto ai cuori liberi, non era vanità.
Ezra Pound

venerdì 17 aprile 2009

Le parole che mangiamo

Vi siete mai soffermati a riflettere quante frasi, parole, detti popolari, condiscono - appunto - la nostra lingua quotidianamente ? A conferma dell'importanza, tutta italiana, che riveste il cibo e la cucina nelle nostre tradizioni "le parole che mangiamo" sono ormai un tutt'uno con il nostro lessico nell'uso comune e, probabilmente, non ci facciamo più molto caso. Le utilizziamo metaforicamente nel sottolineare azioni, esprimere giudizi, indicare oggetti. Così parliamo di grossa "nespola" quando vogliamo evidenziare una bella botta o un bel problema, parliamo di "cipollone" se vogliamo indicare un orologio magari un pò datato ed esprimiamo un giudizio negativo quando diciamo di una persona che non è "nè carne nè pesce". Siamo pieni di queste espressioni gastronomiche, dall'essere "da uova e da latte" fino a diventare "ormai bollito" o "essere della stessa pasta" o ancora "avere le mani in pasta", ma siamo anche in grado di "dividerci o spartirci la torta" e sapere "cosa bolle in pentola", siamo bravi - da italiani - a passare "la patata bollente" a qualcun altro", anche se poi finisce tutto a "tarallucci e vino". Ci lamentiamo che è "sempre la stessa minestra" o "una minestra riscaldata", ma siamo "di bocca buona" anche se "non possiamo digerire il tale", mettiamo poi "troppa carne al fuoco" con il rischio che ci "sia tanto fumo e poco arrosto" e poi c'è sempre chi "la vuole cotta e chi la vuole cruda", chi ha la fortuna di cadere "come il cacio sui maccheroni" oppure di essere ovunque "come il prezzemolo", il peggio però è essere "cattivi come l'aglio". Ci sono anche le persone tutto "latte e miele" o che riescono sempre a mettere "la ciliegina sulla torta" nei lavori, chi fa "cuocere nel suo brodo" gli altri, ma poi tutto "fa brodo", c'è pure il solito che sa "allungare il brodo" o peggio "rivolta sempre la frittata" una volta che... "ha fatto la frittata". E quelli che hanno sempre avuto "la pappa fatta" , "che pizza" seppur "non valga un fico secco" dice delle cose che "c'entrano come i cavoli a merenda", ma per fortuna qualche volta "rimane a bocca asciutta". Ci sono quelli "teneri come il burro" che vorrebbero "far le nozze coi fichi secchi" o mettono "tutto nello stesso calderone", qualcuno è in grado mettere "il piatto forte" e qualcun altro "è alla frutta". Da ricordare di non far sapere al contadino "quanto è buono il formaggio con le pere" - Massimo Montanari docet - quindi è sano avere "sete di conoscenza" e "divorare un libro" (magari proprio quello di Massimo).

lunedì 13 aprile 2009

Ristorante Le Favole

Lo chef e proprietario Gianpiero Benelli, è in attività con questo ristorante dal 2007 anche se solo recentemente si è spostato nella nuova location, nella zona industriale di Bagnacavallo. Il locale esternamente potrebbe essere curato con più attenzione, una volta all'interno infatti tutto è molto più curato e si nota la mano di un professionista: i colori, l'arredamento, il banco d'ingresso, i servizi. Unico neo i tavoli, preferisco quelli classici dove sia possibile tenere le gambe comode. Il menù è tutto basato sul pesce, cambia con cadenza quindicinale, anche se mantiene alcuni piatti fermi nella carta quali il misto di crudité, gli spaghetti al telaio al granchioporro, lo scorfano con olive taggiasche e l'ottimo fritto di paranza. Il Benelli dimostra ottime capacità nella scelta del pesce e nella preparazione dei piatti - che cura personalmente uno ad uno - rallentando però un poco il servizio. Molto sfiziosa un'insalatina di calamari freschi e scampo rosa su cous-cous agli ortaggi primaverili e delicatissima la vellutata di fave e patate con vongole e bottarga, molto gustosa anche il trancetto di dentice selvaggio agli asparagi maremmani. Interessanti, anche per qualità, i dolci. Buono il rapporto qualità prezzo. Giudizio: indirizzo da tenere nel proprio archivio e valutare periodicamente.


Ristorante Le Favole - Via Cà del Vento, 20 (traversa ss S.Vitale) - 48012 Bagnacavallo (Ra) - Tel. 0545.62470 - Chiuso martedì e mercoledì

La pagnotta pasquale - Da sempre l'icona di tutti i dolci romagnoli

Un tempo era tradizione iniziare il giorno di Pasqua con una lauta colazione da consumare tutti insieme in famiglia e in molte zone della Romagna si era soliti preparare uno speciale pane di Pasqua. La pagnotta pasquale - anche se ormai dimenticata - è sempre stata l’icona per eccellenza di tutti i dolci romagnoli. Un dolce molto semplice dove l’impasto è composto da farina di grano, zucchero, strutto, uova, buccia di limone grattugiata, vaniglia, lievito, sale e uva secca, oppure, in altre versioni, a base di bietole, asparagi della pineta oppure liscari delle saline. La pagnotta era impastata e lavorata a forma di cupola che veniva poi tagliata in superficie per “sfioccare”. La lievitazione esigeva un ambiente caldo e a temperatura costante, tanto che i vecchi mettevano le pagnotte nel letto col cosiddetto “prete” (per i giovani: uno strumento che, riempito di braci e posto sotto le coperte, consentiva di scaldare il letto prima di coricarsi). In abbinamento al pane pasquale e alle uova benedette veniva proposto nella prima colazione anche il meno “santo”, ma saporito, salame casereccio accompagnato naturalmente con Sangiovese. La festa pasquale, oltre alle radicate motivazioni religiose, era legata al primo risvegliarsi della natura. Oggi - come allora - ritroviamo sulle tavole gli stessi simboli: le spighe del grano tramutate in pane, le erbe, le uova, l’agnello, irrinunciabili e caratteristici alimenti in questa festa. La presenza del pane sulla tavola ha un particolare significato votivo nel ricordo del pane azzimo. La Pasqua di resurrezione è legato all'uovo, alimento simbolo della vita che si rinnova, della speranza nel futuro, un auspicio di fecondità, mentre l’agnello simboleggia il sacrificio di Gesù.

domenica 12 aprile 2009

Il capitalismo egoista

Da La Repubblica a cura di Federico Rampini: PROCESSO AL CAPITALE - Se i mercati cancellano l' etica (sezione CULTURA )
Ci sono idee che aspettano il loro momento per essere riscoperte. Di colpo vengono baciate dal successo perché degli eventi traumatici ci costringono a cambiare la nostra percezione del mondo. È il caso del lavoro di Oliver James, psicoterapeuta inglese che da anni elabora una diagnosi "clinica" sul capitalismo contemporaneo. Nel suo ultimo saggio, Il capitalista egoista James perfeziona la sua tesi.
In ogni nazione dove è stata introdotta la versione più avanzata del capitalismo, osserva, la maggioranza dei lavoratori ha visto diminuire la propria quota del reddito nazionale mentre una minoranza di privilegiati si è arricchita enormemente. La sicurezza del posto di lavoro è calata. Un progresso nel reddito dei ceti medio-bassi, quando c' è stato, è dovuto all' aumento delle donne che lavorano: ma non è priva di costi psicologici la pressione esercitata su entrambi i genitori affinché svolgano un lavoro retribuito quando i figli sono ancora piccoli. In parallelo con l' innalzamento dei consumi individuali c' è una crisi del risparmio, l' accesso alla proprietà della casa è difficile, la vita personale è stata colonizzata dal lavoro.
Questi danni non sono nuovi ma James ritiene che siano aumentati con l' avvento del "capitalismo egoista": una forma patogena, con effetti distruttivi sul nostro equilibrio mentale. Per "capitalismo egoista" James intende quel sistema d' ispirazione angloamericana che altri hanno chiamato supercapitalismo, turbo-capitalismo, iperliberismo, mercatismo.
James definisce così i suoi tratti distintivi: «Il primo è che il successo di un' azienda è giudicato dalla sua quotazione in Borsa, invece che dalla sua forza intrinseca o dal contributo che può offrire alla società. Il secondo è una forte spinta a privatizzare i beni e i servizi della collettività. Il terzo è una regolamentazione minima dei servizi finanziari e del mercato del lavoro, tesa a favorire i datori di lavoro rendendo più semplici i licenziamenti. Inoltre l' imposizione delle tasse non punta a redistribuire la ricchezza: per le grandi aziende e per i ricchi è più facile evitarle e rifugiarsi nei paradisi fiscali».
Il capitalismo egoista è ansiogeno non solo per la pressione sulla produttività del lavoro e lo stress da competizione, ma anche perché alimenta aspirazioni malsane. «Nella società del Grande Fratello molte persone pensano che anche loro un giorno potranno essere famose. Le tossine più velenose per il benessere sono racchiuse nell' idea che la ricchezza materiale è la chiave del successo, solo i ricchi sono vincenti e l' accesso alle sfere più alte della società è consentito a chiunque; se non ci riuscite c' è solo una persona cui potete dare la colpa: voi stessi». La pressione sull' individuo viene aumentata dal diffondersi di un darwinismo sociale che giustifica le politiche economiche neoliberiste. L' espressione "sopravvivenza del più forte" giustifica crescenti disparità di ricchezza. Chi sta in fondo ansima e soffre in silenzio, o si sfoga su chi gli sta vicino.
L' opera di James s' inserisce in una tradizione illustre. Alcune fra le pagine più durevoli di Karl Marx riguardano l' alienazione nella società capitalista. L' analisi dell' ingranaggio consumista ha sedotto l' economista John Kenneth Galbraith con La società opulenta e il sociologo Vance Packard con I persuasori occulti, due saggi che alla fine degli anni Cinquanta illuminarono i "bisogni indotti". James ha due autori di riferimento importanti. Il francese Emile Durkheim, uno dei fondatori della sociologia moderna, che con il suo studio sui suicidi nell' Europa del XIX secolo mise in evidenza i costi umani prodotti da industrializzazione e urbanizzazione. Il secondo autore è lo psicanalista Erich Fromm, tedesco emigrato negli Stati Uniti. La sua critica del materialismo formulata oltre mezzo secolo fa ( Psicoanalisi della società contemporanea, 1955), secondo James contiene tutti gli elementi di una diagnosi attuale.
«Abbiamo - scriveva Fromm - un' alfabetizzazione superiore al 90 per cento, abbiamo radio, tv, cinema, un quotidiano per tutti. Ma invece di concederci il meglio della letteratura e della musica passate e presenti, questi mezzi di comunicazione, coadiuvati dalla pubblicità, riempiono le menti con la peggior spazzatura, priva di qualunque senso di realtà».
Sempre Fromm sosteneva che fossimo divenuti caratteri mercantili: «Il valore dell' individuo dipende dalla sua vendibilità. L' abilità e le competenze non sono sufficienti: bisogna anche essere capaci di "comunicare la propria personalità" nella competizione con gli altri. Buona parte di ciò che viene chiamato amore è ricerca di approvazione. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica, non solo alle quattro del pomeriggio ma anche alle dieci e a mezzanotte: sei in gamba, vai bene».
Una società che promuove machiavellismo e camaleontismo, che accentua le diseguaglianze sociali ed esaspera l' inseguimento di ogni status-symbol, che esalta la selezione del più forte e umilia gli sconfitti, merita la severa denuncia che fu fatta da Fromm e che James attualizza. Il lavoro dello psicologo inglese convince meno quando individua negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna una patologia molto più grave che negli altri paesi; e ritiene che i livelli di "stress emotivo" nel capitalismo angloamericano sono di gran lunga superiori. James si limita alla sindrome dello stress emotivo definita dall' Organizzazione mondiale della sanità. Dalle ricerche dell' Oms trae il principale sostegno alla sua tesi: lo stress emotivo nei paesi anglosassoni risulterebbe molto superiore all' Europa continentale, al Giappone, ai paesi emergenti. James riconosce uno dei rischi di queste statistiche: le indagini sul terreno possono dare risposte viziate da culture diverse. Stupisce il fatto che lo stress emotivo risulti bassissimo in Cina, dove il "darwinismo sociale" è forte, la selezione nel sistema scolastico è spietata, la competizione sul mercato del lavoro raggiunge punte estreme. Resta il fatto che Il capitalista egoista ha il dono della tempestività. Coglie l' aria del tempo che viviamo. Interpreta la traumatica delusione verso le promesse di un modello economico, oggi imploso per le sue contraddizioni. E nella saggezza dello psicologo c' è anche spazio per uno squarcio di speranza:
«È possibile che un' alternativa migliore sia proprio dietro l' angolo e che, per quanto pazzi possiamo essere, alla fine riusciremo a far prevalere il buonsenso».

Riflessione pasquale

Ad un certo punto ti rendi conto che non ti interessa più relazionarti con chi persegue solo il proprio interesse, con chi è estremamente critico su ogni cosa o pensa di avere sempre la verità, di capire sempre - dopo - come andranno le cose. Tutti noi siamo circondati da qualcuno "che te l'aveva detto prima...", che in ogni situazione riesce prima di tutto a mettere in evidenza ciò che non funziona, che non è mai positivo nelle sua visione o che ti fa notare come poteva essere fatto meglio. Per tanto tempo magari lasci correre poi, piano piano, avverti un fastidio sempre maggiore che ti assale dentro fino a renderti sempre più insofferente. Cerchi di tollerare per un , ti racconti che la vita è fatta in questo modo, pensi che ci sia qualcosa che non funziona nel tuo modo di pensare, valuti tutte le possibilità. Alla fine, può essere per merito di un viaggio o di un periodo di concentrata riflessione, comprendi la realtà e tutto diviene estremamente chiaro. Quel momento lo avverti bene, perchè ti senti sollevato, respiri meglio, comprendi di essere più libero e felice. Quello "è il momento" per diventare completamente te stesso. Senza paure, inibizioni, forzature e condizionamenti.

lunedì 6 aprile 2009

Le Bistrot, sempre meglio

I cambiamenti sono sempre salutari. Solitamente danno nuove energie, portano creatività e voglia di fare. Il ristorante Le Bistrot non ha fatto eccezzione. Da quando si è spostato da Dozza per aprire all'inizio della via Sellustra ho notato un ulteriore salto di qualità. Innanzi tutto nonostante il locale si trovi collocato in un immobile industriale dove sono presenti attività di produzione, l'architettura interna e l'arredamento risultano molto piacevoli e caldi, sebbene ci siano soffitti molto alti. L'uso del legno, dei colori giusti e un piano rialzato che lascia però uno spazio di fuga verso l'alto di una parte di sala, risultano in perfetto equilibrio e ci si dimentica velocemente della collocazione esterna. Anche la cucina è migliorata nella nuova "location", in precedenza non mi dispiaceva ma la trovavo un pò troppo "barocca" nella sua composizione, con piatti pieni anche di sapori importanti. Oggi la trovo più equilibrata, più mirata, meglio focalizzata sul piatto proposto, con un tocco sfizioso che prima veniva a mancare perché troppo opulenta. I titolari sono Angelo Costa e Daniele Sangiorgi - quest'ultimo è il Maestro di Cucina - e normalmente rimangono in "sala di comando", le uniche volte che li ho visti in sala è stato in occasioni di cerimonie o cene importanti. La gestione del servizio è lasciato ad alcune ragazze che ho sempre trovato premurose e attente. La carta vede una generosa presenza di piatti di pesce anche se non vengono tralasciati quelli del territorio. A conferma dell'attenzione posta per i prodotti locali viene presentato anche un bel "menù del paniere", ottimo, anche se di un'abbondanza di ormai antica memoria, come ho potuto valutare di persona. In realtà tutti i piatti sono generosi e il consiglio è di non esagerare subito nel numero di portate, ne va a discapito della soddisfazione dei sensi. Tra i piatti mi piace evidenziare l'insalata di calamari croccanti con aceto balsamico, la zuppetta di moscardini e ceci e lo sformatino di baccalà negli antipasti, degli ottimi maccheroni artigianali, la vellutata di porri e patate e la lasagnetta gratinata nei primi, grande - in tutti sensi - la fantasia di formaggi con confetture come secondo, oltre ad esempio al cartoccio di mazzancolle con verdure fritte e vari tipi di carne. Finale da "grandeur" con i dolci, specialmente il tris.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani-L'Informazione di domenica 5 aprile 2009
Ristorante LE BISTROT - Via Valsellustra 18 - 40060 DOZZA (BO) - ITALY - chiuso il martedi - Tel 0542 672122

sabato 4 aprile 2009

I particolari che fanno le differenze


Eleganza, understatement, contro incuria e mediocrità, nel vestire. A volte basta poco, la sottile differenza tra l'apparire dignitoso nell'abbigliamento - non è necessario essere campioni di eleganza - e trasandato o poco curato. Normalmente questi ultimi si difendono affermando di non essere interessata alla cosa, in qualche caso è vero ma i più sono disattenti o, banalmente, poco curiosi di conoscere le poche regole basiche del buon vestire. Così mi piacerebbe che le persone che vedo con l'etichetta sulla manica della giacca o del cappotto, ancora puntata - non cucita, perché il produttore vuole mettere in evidenza il materiale di pregio utilizzato - le togliessero appena acquistato il capo e non le tenessero pensando che sia così il confezionamento... Oppure anche se compriamo in saldo, o al mercato una giacca (non c'è nulla di disonorevole, ognuno si gestisce come preferisce), utilizziamo una sarta o un "taglia & cuci" per far accorciare la manica, in modo che non copra metà del palmo. Stessa cosa per i pantaloni, non dovrebbero vedersi dieci centimetri "di abbondanza" sulla scarpa effetto sacco sgonfio, tanto l'età della crescita è superata e comunque vi stancherete prima. O ancora l'utilizzo di capi spalla che riuscivamo a chiudersi in tempi giovanili, camicie lise nei colletti o nei polsini (c'è una catena di franchising che per 99 € vi da 3 camicie...), cravatte stropicciate o allentate al collo (i ragazzi ribelli anni '70 sono finiti), piuttosto non utilizzatela, non si richiede più questo formalismo dal momento che anche Marchionne si presenta in - elegante - maglione blu. Orribile poi la mai tramontata, purtroppo, giacca blu/blazer con i jeans o un bell'abito a cui vengono abbinate scarpe che hanno visto l'ultima lucidatura dal produttore... Che dire poi dell'ostinatezza con cui persone sovrappeso continuano a indossare maglioni a righe orrizontali con il risultato di aumentare le proprie dimensioni alla vista (ricordarsi che il blu e il grigio snelliscono o un bel giallo "caldo" vi rende più armoniosi). Insomma dettagli - o forse no - che permettono di fare la differenza...

giovedì 2 aprile 2009

L'ultima beffa: aranciata senza arance

Sì del Senato alla legge Ue: bastano aromi e coloranti. Coldiretti: la vittoria dei cibi finti
di Lucia Granello
E venne l'ora delle aranciate senza arance. Con l'approvazione dell'articolo 21 della annuale Legge Comunitaria, ieri il Senato ha dato il via libera alla commercializzazione di bibite con colore e aroma d'arancia. Dell'agrume mediterraneo, nemmeno l'ombra, visto che la norma spazza via l'obbligo del già misero 12%, percentuale minima ammessa finora.Tutte sul piede di guerra, le associazioni di categoria, dai consumatori dell'Adoc («Una legge che mette a rischio la salute e la qualità dell'alimentazione dei cittadini, e crea un danno di centinaia di milioni di euro ai produttori di arancee al made in Italy»), ai commercianti della Fipe («Un inganno per i consumatori e un danno di immagine ai pubblici esercizi»).Si calcola che grazie alla normativa approvata ieri, in un anno verranno azzerati circa 7 milioni di litri di succo destinato ai consumatori, pari a 235 mila quintali di arance. Destinate, in mancanza di altri sbocchi, al macero. Il tutto, senza dimenticare che l'Italia è uno delle nazionali a più alto tasso di sovrappeso infantile. Se per un bambino su tre (uno sue due da Roma in giù) esiste un problema di disciplina alimentare, l'irrompere sul mercato di bibite sempre meno valide e sempre più "vuote" dal punto di vista nutrizionale può avere soltanto effetti deleteri. In realtà, la scomparsa delle arance dalle bibite che ne portano il nome è solo l'ultimo - e sicuramente non definitivo - anello di una catena viziosa destinata a spolpare gli alimenti migliori della loro stessa essenza, in nome dell'omologazione del gusto e delle produzioni. Un mix nefasto di interessi industriali, ignoranza e menefreghismo sta facendo terra bruciata di tradizioni e qualità.La Coldiretti ha stilato un elenco di cibi che formano da secoli il nostro miglior mangiare quotidiano - vini, cioccolato, formaggi - oggi tradotti in prodotti truffaldini, anche grazie alle etichette-fantasma, dove dettagli di irridente inutilità tolgono spazio a quelli basilari. Del resto, l'Unione Europea ha regolamentato la proporzione tra ingombro delle confezioni e dimensione delle etichette, evitando accuratamente di andare oltre il minimo indispensabile in materia di informazioni: marchio, peso e pochissimo altro.Così, sono passati i vini senza uva - da fermentazione di frutti rossi, per compiacere i Paesi nordici - i formaggi senza latte (economicissimi caseinati per filare le mozzarelle), il cioccolato impastato con l'olio di palma (il burro di cacao vale molto di più se venduto all'industria cosmetica). E fino a luglio - ammesso e non concesso che la legge voluta dal governo Prodi diventi finalmente esecutiva - è a tutti gli effetti italiano l'olio da olive albanesi o greche, purché italiana sia la fabbrica che lo imbottiglia. In attesa del prossimo scempio, chissà chi avrà voglia di brindare con una bella aranciata, rigorosamente finta.
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