martedì 29 luglio 2008

Il rito dell'aperitivo ha le sue regole che bisogna rispettare

Havana, Bodeguita del Medio, dietro di me alcuni cubani stanno cantando, aiutati da una chitarra, la famosa “Hasta Siempre Comandante Che Guevara” e personalmente ho “il pelo dritto” come si usa dire per quanto mi piace questa canzone. In mano ho il secondo Mojito che mi sto gustando appieno, ben fatto con le giuste dosi, è un piacere tutto particolare. Cambio scenario.
In un tramonto caldo ma alleggerito da un piacevolissimo e delicato vento secco sto fotografando mentalmente il momento, qui al “Cafè del Mar” sui bastioni della stupenda Cartagena, la più importante città che gli spagnoli avevano nel sud-america. Bevo un ottimo daiquiri e guardo sullo sfondo il mare illuminato dalla grande arancia rossa che vi si sta immergendo. Un gradevole sottofondo di musica “chill out” declinata sui motivi latino-americani si mescola al rumore secco delle bandiere che garriscono al vento su queste spesse mura di difesa che vedono ancora la presenza dei vecchi cannoni. Sono su una comoda poltrona imbottita da cuscini e la mia mente vola nuovamente ad Imola per un attimo e penso al rito dell’aperitivo nella nostra città. Rifletto sui luoghi, sugli ambienti in cui ci si ritrova, sulla loro offerta e qualità, sui loro prezzi.
Quando decidiamo di prendere un aperitivo difficilmente lo facciamo da soli, normalmente è un momento della giornata che ci vogliamo assaporare in compagnia, allegramente, allentando le tensioni accumulate. Generalmente il luogo prescelto nasce pescando dalla memoria tra quelli che “tirano” di più in quel momento, difficilmente si valuta se c’è anche qualità nel prodotto e nel servizio. E sempre di più noto che i prezzi aumentano, ma di contro la proposizione troppo spesso non è all’altezza. La sensazione è che si voglia fare cassa il più velocemente possibile senza preoccuparsi molto nella cura dell’offerta. Leggo che sta calando in modo significativo - dati nazionali - il numero delle persone che mantiene il “rito” dell’aperitivo, complice certo la crisi economica che stiamo vivendo e i gestori si dicono preoccupati perché comunque i clienti vogliono qualità. Non mi pare però che tutta questa preoccupazione traspaia in una moderazione dei prezzi o comunque in un aumento di attenzioni verso il Cliente.
Ho introdotto il tema all’inizio dell’articolo in modo un po’ provocatorio, ricordando due luoghi in cui sono stato e dove ho trovato, accanto ad una “giusta” ambientazione, una qualità anche nei prodotti proposti con le dosi corrette anche il piacere di servirti.
Nella nostra città mi capita di frequentare i luoghi generalmente deputati nell’orario dell’aperitivo e quello che noto, francamente, non mi soddisfa molto. Naturalmente con le dovute eccezioni. Ma penso di non raccontare cose lunari, altri le avranno notate, indicando ad esempio che spesso viene messo troppo ghiaccio nei bicchieri oppure vi è un uso molto “misurato” nella miscela delle parti alcoliche (d’accordo che l’alcol è il problema più grave in Italia, ma dal momento che ho deciso di bere dammi soddisfazione...) o vengono utilizzati ingredienti “compatibili” nella creazione di certi drink accompagnate da un servizio distratto o piccole tirchierie nella proposizione della stuzzicheria, a volte totalmente assente. Quando si iniziano a chiedere sopra ai 4/5 euro per bicchiere, sia esso vino o aperitivo, si deve offrire veramente “quel qualcosa” in più. Se spendete 10.000 lire dovete esigere di più. Le mie considerazioni non sono legate tanto a ciò che viene proposto per accompagnare l’aperitivo. Sento molte volte commentare che “non danno neanche nulla da mangiare”, ma questa usanza è nata anni fa per incentivare l’happy hours che cominciava a dare segni di stanchezza. Il fatto è che oggi molti si aspettano anche di cenare con l’aperitivo proprio in funzione dei prezzi. E’ sulla qualità del prodotto servito invece che occorre focalizzarsi, su come ti viene proposto, sulla cura nella preparazione. Se ordino un americano, un daiquiri, un certo vino, esigo che si esprima il massimo della professionalità nella proposizione e preparazione da parte dell’esercente. Chiedo anche un ambiente per poterlo sorseggiare in serenità con qualcuno, con calma, magari circondato da buona musica che mi permetta di conversare. Non dovremmo essere esclusivamente interessati se è trendy essere in quel luogo.
Non è mia intenzione fare delle segnalazioni particolari, ma se qualcuno volesse provare la qualità in un locale ad Imola, non ha posto all’aperto però, propongo “Il Portenio” – nome in omaggio al barrio (quartiere) storico di Buenos Aires - che tra l’altro ho avuto il piacere di visitare. In questo locale il titolare è certamente pittoresco, ma potrete notare la passione e la ricerca che mette anche negli strumenti necessari alla preparazione. I drink sono ottimi e se vi capita di chiedergli informazioni su ciò che state bevendo ha la capacità nel racconto di farvi sognare il luogo di provenienza.

domenica 27 luglio 2008

La Cultura è un valore "made in Italy"


Una seria politica culturale è quella che sa guardare, capire e riflettere oltre le ideologie di parte che non hanno più senso nel XXI secolo. Il nostro compito è custodire quanto ci è stato tramandato dal passato, lasciando al futuro i segni del nostro passaggio. Il nostro Paese così ricco di storia, di cultura e di arte non si può limitare a vivere basando tutto sugli antichi splendori, beandosi del proprio passato traendo solo, nell'immediato, un lucro economico perché finisce per tarpare le ali alle nuove creatività, immiserendo altresì il passato senza costruire il futuro.
La Cultura serve anche a difendere la nostra identità. In particolare oggi abbiamo di fronte una sfida più grande di sempre perché ci stiamo ponendo il problema di come dobbiamo definire una identità, una cittadinanza, nel secolo della globalizzazione dei diritti dell'economia e della comunicazione. In una società che diventa sempre più multietnica sarebbe un errore storico dimenticare, o peggio, ripudiare le nostre radici, come è altrettanto miope considerarci una fortezza inespugnabile e impenetrabile.
L'Italia può ancora giocare un ruolo importante in questa nuova Europa che stiamo creando a patto che sia disposta a scommettere sulla Cultura in tutti i suoi vari aspetti.
Occorre rivolgersi al nostro "particulare", a quel "quid" che ci differenzia da tutte le altre nazioni e ci pone in qualche modo ai vertici di una immaginaria classifica del patrimonio artistico. Dovremmo sentirci tutti orgogliosi di questo primato che vanta l'Italia, un Paese che per un paio di millenni è stato considerato la culla della civiltà. Dall'invenzione del diritto da parte dei romani, alla rinascita della civiltà moderna dopo il periodo barbarico, ad opera dei monaci, in primis i benedettini. Se esiste oggi un'idea di Europa dobbiamo in un certo senso ringraziare San Benedetto e la su Regola.
L'Umanesimo e il Rinascimento sono una questione soprattutto italiana che ha propagato i suoi effetti nel mondo per centinaia di anni. Abbiamo avuto i più grandi artisti, pittori, poeti, architetti, musicisti, miniatori e scultorii, senza dimenticare la cucina anch'essa riconosciuta nel mondo e fondamentale nel trasmettere Cultura, Tradizioni e Civiltà.
Anche se siamo stati percorsi dalla dominazione straniera, la nostra Cultura è stata vincente e la nostra lingua la più usata nelle arti e nei mestieri. Non dimentichiamo inoltre come in epoca comunale le nostre città hanno primeggiato nel mondo per bellezza e ricchezza, insegnando la scienza, l'economia e il commercio al mondo. Le nostre repubbliche marinare furono portatrici di benessere, nuovi prodotti, modelli di governo, commercio e difesa dei valori cristiani.
Dobbiamo ripartire sa qui. L'orgoglio del nostro passato, memoria delle nostre tradizioni, patriottismo e tanto sano ottimismo.
L'Italia non può competere nello scenario globale con Cina e India, come fanno ad esempio gli Stati Uniti e la Germania, noi non abbiamo le stesse opportunità. Occorre convincerci che per rilanciare il Paese occorre garantire la conservazione del nostro paesaggio, del nostro territorio e quella supremazia di beni culturali che il mondo ci riconosce. E' necessario fare sistema sui territori in modo da coinvolgere tutta la filiera legata alla Cultura geo-gastronomica e del patrimonio dei nostri beni.
Creatività e bellezza sono parole che devono diventare il "sistema" di riferimento per fare, per agire, per dare nuovo impulso alla nostra economia. Abbiamo il dovere morale di conservare il nostro "genius loci", lo spirito della tradizione che si incarna nel nostro popolo, nel nostro Paese.
L'Italia può diventare un museo a cielo aperto, fruibile, curato, tutelato, difeso e visitabile dal maggior numero di persone possibili. Il turismo deve essere considerato un "asset" strategico e fondamentale per la nostra economia. Contemporaneamente bisogna lavorare per elevare anche la qualità stessa dell'offerta turistica, trasformandola e rivolgendosi ai target di clientela che cerca il bello ed è disposto a pagarlo. Il tradizionale secolare e tanto famoso "bien vivre" italiano dovrebbe diventare un "brand" nelle sue massime forme di espressione: l'enogastronomia, la cultura, l'arte e il territorio. Tutte cose in grado di generare emozioni intense e durature. Rivedere quindi l'offerta significa anche indirizzarla e orientarla all'unicità del luogo, del prodotto, dell'esperienza, insegnando contemporaneamente agli stranieri (ma non solo) ad assaporarlo lentamente, con consapevolezza. In antitesi assoluta alla tentazione del turismo "fast", straccione, fatto di persone che nulla lasciano alla nostra economia nei nostri territori.
La nostra offerta deve essere in grado di proporre non solo il luogo, ma anche il modo, la civiltà che lo ha costruito e che ce lo ha lasciato, il modello di vita da cui si è generato. C'è un mercato enorme là fuori: milioni di nuovi ricchi da educare al "vivere bene con il bello".

giovedì 24 luglio 2008

L'importanza di leggere

Chi vive, vive la propria vita; chi legge vive anche le vite degli altri. Ma poichè una vita esiste in relazione con le altre vite, chi non legge non entra in questa relazione e dunque non vive nemmeno la propria vita. La perde.
Ferdinando Camon

mercoledì 23 luglio 2008

Dai cartoni animati al tessile hi-tech la soft-economy che sfida il declino

Un cartone animato made in Italy che sfida la Disney. Un' azienda del tessile hi tech che veste i campioni in gara alle Olimpiadi di Pechino. Un parco che produce denaro come un' impresa di successo. La nautica che si converte all' ambientalismo fatturando 3,5 miliardi di euro e dando lavoro a 85 mila persone. La meccanica d' eccellenza che investe dal 6 al 13 per cento del fatturato in ricerca. Il "Consorzio 100 per cento italiano", un gioiello del distretto conciario toscano da 200 milioni di euro, che per primo nel suo settore ha ottenuto la certificazione etica. Sono queste le prove di un futuro possibile che Symbola, la Fondazione per le qualità italiane, ha messo in campo contro i teorici del declino. Una partita che la coalizione degli ottimisti ha scelto di giocare in casa. Nel teatro ottocentesco di Bevagna e nella cornice medievale di Montefalco, paesi simbolo della bellezza nascosta, è andata in scena, in due tempi, la sfida della soft economy al partito della rassegnazione. Le 4 A contro le 4 D. La forza impetuosa dei settori che trainano l' economia italiana (abbigliamento-moda, arredo-casa, alimentari-vini, automazione meccanica) contro i 4 pesi che rallentano lo slancio: debito pubblico (il terzo dopo quelli di Giappone e Stati Uniti), deficit energetico (tra il 2001 e il 2006 la bolletta energetica italiana è salita da 18,8 a 50 miliardi di euro), divario Nord-Sud (il Mezzogiorno ha il 35 per cento della popolazione e l' 8 per cento di export), differenziale fiscale (l' incidenza delle tasse sul Pil è tra le più alte). Un confronto dall' esito incerto anche perché, come ha ricordato il presidente della Cir Carlo De Benedetti, «ci troviamo di fronte a una crisi molto diversa da quella del 1929, ma ugualmente minacciosa. Ci sono due miliardi di abitanti del pianeta, tra Cina e India, di cui ci eravamo dimenticati: per molti anni hanno lavorato nell' ombra, ora cominciano a consumare. Per competere in questo nuovo scenario ci vorrebbe un progetto complessivo, un' idea di Paese che oggi non c' è. Potremo vincere la sfida se sapremo utilizzare le grandi risorse che abbiamo a disposizione: il nostro straordinario patrimonio di bellezza, i cervelli, la voglia di lavorare, la flessibilità». «C' è un pezzo d' Italia che già oggi ce la fa ed è un pezzo non trascurabile: il reddito pro capite delle regioni del Centro-Nord è superiore a quello della Scandinavia e negli ultimi quattro anni le nostre esportazioni sono salite del 30 per cento, solo la Germania ha fatto meglio di noi: se la politica cambia marcia possiamo vincere la partita», ha aggiunto il presidente di Symbola, Ermete Realacci. A rafforzare il concetto, il decalogo antideclino, proposto dall' economista Livio Bernabò, che punta sull' organizzazione di filiera, sulle supernicchie nel mercato globale, sull' iniezione di hi-tech nel made in Italy e sulle reti commerciali dedicate. Indicazioni in sintonia con i comportamenti della pattuglia di imprese scelte da Symbola per rappresentare la capacità di vincere la sfida della competitività. La Slam, che produce la maglietta studiata per le squadre italiana e irlandese di vela alle Olimpiadi di Pechino fatta con filati anti ultravioletti per diminuire la sensazione di caldo. Rainbow, che con il fenomeno Winx, pensato in un edificio bioclimatico, si è piazzata tra i colossi dell' animazione. Il lanificio Leo, un' azienda-museo che mantiene il monumentale parco macchine di fine Ottocento con cui ancora oggi realizza la sua produzione ed è stata tra i finalisti del premio Guggenheim Impresa&cultura. Il parco-azienda delle Cinque Terre che accoglie 2,5 milioni di turisti l' anno e usa gli incassi (1,5 milioni di euro) per ricostruire il paesaggio tradizionale e produrre lo sciacchetrà, mitico vino da meditazione.
di Antonio Cianciullo - Pubblicato su La Repubblica

martedì 22 luglio 2008

Della dipendenza dall'alcolismo non se ne parla

Leggo sempre più rapporti dove si evince che l'alcol è un vero killer di Stato che sta distruggendo, di fatto, una generazione. Alcuni dati per capire: in Italia, secondo studi attendibili, ci sono 36 milioni di italiani forti consumatori di alcol di cui 9 milioni con gravi problemi di alcolismo; nel 2007 i morti per droga in Italia sono stati 972 contro i 34.000 morti di alcol. Avete letto bene il numero, non mi sono sbagliato, sono 34.000, a questo aggiungiamo che il 50% degli incidenti stradali sono dovuti in Italia all'alcol. Questo è un dato che, se fate attenzione quando leggete le cronache degli incidenti sui giornali, viene citato purtroppo troppo frequentemente.
Se qualsiasi altra sostanza provocasse le stesse stragi cosa accadrebbe nel nostro paese ?
Il fenomeno è sempre esistito, e taciuto, ma in questa Italia sempre più povera, delusa, priva di speranza e di Valori, la gente prende sempre più spesso il bicchiere in mano... e non per bere acqua. Esiste da noi una sorta di tabù nello scrivere nei referti medici che la persona è affetta da problemi di alcolismo, ma la realtà è che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza nazionale. I giovani alcolisti in Italia sono calcolati in 1 milione e 300 mila e tra le cause ci sono anche leggi ormai inadeguate e ipocrite, che impediscono di somministrare bevande alcoliche ai minori di 16 anni, ma non di poterle acquistare. Ma il fenomeno colpisce trasversalmente ogni età e classe sociale, non sono solo emarginati quelli colpiti dall'abuso di alcol, sono anche professionisti, manager, operai, politici, mamme, casalinghe. Alcuni riescono ad essere irreprensibili durante la settimana, ma nascondono un problema che si manifesta in tutta la sua gravità nei fine settimana.
Mi stupisco sempre del fatto che siamo uno dei pochi paesi europei dove sulle bottiglie, contrariamente ai pacchetti di sigarette, non ci sono scritte sui pericoli alla salute rappresentati dall'alcol e dove non esiste una vera e propria campagna di educazione e prevenzione al fenomeno. Quello che si fa sono briciole.
Nonostante tutto questo si continua a parlarne poco o niente...

lunedì 21 luglio 2008

La cucina imolese è decisamente una cucina romagnola

Spesso mi capita di discutere, tra il serio e il faceto, sull’identità “etnica” imolese e, visto il mio interesse, della sua cucina. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci e precisiamo che la nostra cucina è una cucina decisamente romagnola. Per ragioni politiche e amministrative siamo legati alla provincia di Bologna, ma per aspetti, carattere, storia, tradizioni, Imola e il suo territorio riflettono personalità, temperamento sanguigno e deciso, tipicamente romagnoli, anche a tavola. Tutto ne è testimonianza: il paesaggio, le geometrie della sua terra, la lingua, le tradizioni che sembrano condurre pensiero e sensi alle gioie del mangiare. Parlare della nostra arte culinaria tradizionale significa parlare soprattutto di cucina contadina essendo, quella della Romagna, una popolazione prevalentemente rurale, eredità degli Etruschi prosperata ulteriormente a questa vocazione quando il territorio divenne provincia romana.
Ripercorrendo velocemente il nostro passato possiamo annotare come un tempo, per ovvi motivi legati a momenti e lavori differenti, non era abitudine far colazione appena alzati, il latte di rado finiva al mattino nelle tazze di vecchi e bambini, perché si utilizzava per fare il formaggio. Per i più piccoli rimaneva “lo scot”, lo scarto del siero. Gli adulti, diversamente, avevano bisogno di energie per affrontare il duro lavoro dei campi e solitamente, dopo alcune ore di lavoro già svolte, ci si fermava per la “colazione” mangiando legumi o erbe di stagione (fagioli, cavoli, patate, cardi, finocchi, ...) con piadina o polenta; varianti erano date dalla presenza di cotiche di maiale, uova o frittate tagliate a cubetti o polpette di verdura. Se i pasti erano solo due la colazione era anche pranzo e quindi si spostava dalle otto, circa, alle dieci per poter cenare verso le cinque del pomeriggio (ricordo ancora da bambino molte famiglie che cenavano alle 17.30-18.00 al massimo). Altri cibi caratteristici erano il contorno di zampetti, orecchie e coda di maiale, che col battuto si trasformavano in ragù; la farina di granturco - sola o miscelata a quella di frumento - serviva per preparare un po' di tutto, oltre naturalmente alla polenta, e ad esempio veniva cotta con sale e acqua, condita col profumo dell'aringa e appesa alla trave sopra il tavolo in modo che, a turno, gli adulti vi strisciasse la propria fetta per non consumarla troppo in fretta.
Le minestre fatte in casa erano, e sono ancora, il piatto forte del desco, spesso "matte" cioè di sfoglia senza uova, insaporite più dalle verdure che dal condimento (per necessità, non per necessità dietetiche). Altro uso era abbrustolire formaggio e pancetta schiacciandoli tra due fette di pane per non perdere neanche una goccia di grasso. Nei giorni di festa poi la cucina si faceva più ricca: a pranzo e a cena non mancavano (quasi) mai minestre con brodo di gallina o pastasciutte ben condite, arrosti, stufati e magari una fetta di ciambella da inzuppare in un bicchiere di vino.
Nei confronti del pane poi c’era un profondo senso di rispetto, io stesso ho questo atteggiamento frutto dell’educazione dei nonni e dei genitori di origini contadine, per cui non andava tenuto a pancia in giù sulla tavola, non doveva essere violato col coltello ma spezzato con le mani e non si dovevano lasciare briciole. Era un elemento base per la sopravvivenza. Anche secco e raffermo era consumato in diversi modi, si ammorbidiva con acqua e si condiva con olio e sale, si cospargeva di grasso e si abbrustoliva alla fiamma. Come il pane grande importanza naturalmente aveva anche la piadina che, nella sua versione più umile, era fatta di sola farina e acqua salata intiepidita (l’uso del bicarbonato per alleggerire l'impasto senza giungere alla completa lievitazione risale ai primi del Novecento). Se la pasta è la regina, il vero re della cucina romagnola era, e rimane, il maiale. Ingrassato senza spese con le brodaglie di scarto e le ghiande, il maiale portava, con la sua morte, la ricchezza della dispensa. Si utilizzava tutto. Subito veniva fatto "e migliaz",un dolce ricco, e le altre “cose” fresche venivano subito fritte in padella con abbondante cipolla e pancetta a lardelli, poi fegato, stomaco e le interiora per la preparazione degli insaccati, il grasso per lo strutto e infine i ciccioli (appena fatti caldi e croccanti, una vera delizia vi assicuro). Le carni bovine erano meno frequenti sulla tavola (le “bestie” si usavano per il lavoro o per venderle al mercato) e ancora oggi è visibile questa scarsità di offerta nei nostri piatti sia in casa che al ristorante. Dei formaggi, ne parlerò in un prossimo articolo in modo più approfondito, vale la pena ricordare quelli freschi, squacquerone e raveggiolo, il primo come accompagnamento alla piada, il secondo per dare più fragranza ai cappelletti e alla pasta ripiena. Esiste comunque una bella tradizione anche in quelli più stagionati.Già da questa breve esposizione chiunque può notare come tutta una serie di alimenti e di piatti che ancora oggi ritroviamo in casa o nella ristorazione del territorio, seppur a volte modificati e “alleggeriti” per questioni di mutate necessità anche caloriche, abbiano un forte legame alla cucina di antica memoria nata dietro l'incalzare delle necessità quotidiane e, soprattutto, sulla base di quanto si aveva a disposizione. Una gastronomia che si declina decisamente su quella delle tradizioni di una terra chiamata Romagna.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 20 luglio 2008

venerdì 18 luglio 2008

Siamo ancora questi ?

Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E' la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno.
Luigi Einaudi - 1960

lunedì 14 luglio 2008

Consigli per la ricerca dell'agriturismo "perfetto"

Questo periodo si presta particolarmente per organizzare, un sabato o una domenica e magari con gli amici, un uscita “mangereccia” in un agriturismo. Per noi imolesi vivere un’esperienza in un agriturismo del nostro circondario significa normalmente poter gustare piatti della nostra tradizione in un ambiente informale, ma accogliente, affrontando una spesa moderata. L’estate si presta in particolar modo a ciò, sia a pranzo che a cena perché si può godere della natura che ci circonda, di una certa tregua dal caldo soffocante e se si hanno bambini, si possono far scorazzare liberamente nelle aree esterne dell’agriturismo.
L’ agriturismo inteso come “turismo in campagna” nasce in Francia nella forma di “alloggi rurali” e nella vicina Germania con formule più simili a quelle odierne (alloggio, prima colazione, mezza pensione o pensione completa). In Italia si cominciò a parlarne dall’inizio degli anni ’70 e attualmente il fenomeno è in continua ed evidente espansione. Ma oggi rispondono tutti pienamente alla missione originale ?
Gli agriturismi nel nostro territorio sono tra i quindici e i venti, secondo un mio censimento, in base anche alle caratteristiche di effettiva adesione ai parametri che ogni legge regionale impone agli esercizi di questo tipo. Con il rischio di apparire un po’ prosaico un agriturismo dovrebbe restituirci il cuore antico delle tradizioni, l'amore e la cura della natura fatti vivere in forme rispettose e moderne attraverso una organizzazione vivace ed intelligente che offra oltre ad una cucina semplice, ma curata, anche servizi di alloggio affiancando anche strutture per diverse pratiche sportive e di escursione. In questi luoghi in particolare, il denominatore comune deve essere il senso dell'accoglienza e dell'ospitalità, naturale frutto di secoli di storia entrata a far parte del codice genetico della nostra terra. Chi va in un agriturismo “vero” dovrebbe sentire di non essere solo un cliente: questa dovrebbe essere la prima e la più importante personalizzazione dell'accoglienza.
Quando vado in un agriturismo mi aspetto dal luogo, dalla cucina, dai titolari, percezioni che muovano i miei sentimenti, ricerca di sensazioni: l’arricchimento della mia esperienza di conoscenze sempre nuove, riappropriarmi contemporaneamente di una dimensione del tempo che la vita quotidiana allontana, il desiderio di incontrare passione in ciò che si fa e voglia di condividere e illustrare ciò che si è creato e che si propone. Chi decide di aprire un agriturismo, lo fa senz’altro perché spera di fare “business”, ma dovrebbe essere motivato altresì per una ricerca e un’attenzione per la natura, per la memoria, cosciente di fornire un servizio turistico a “valore aggiunto” consapevole e con una certa valenza sociale, permettendo un approccio anche dal basso. Il trinomio di un agriturismo per me dovrebbe essere: terra, tradizione e territorio.
Pur attenendoci al dato di fatto sopra enunciato e cioè che gli agriturismi per noi imolesi sono vissuti nella maggioranza dei casi come occasioni per recarsi in ristoranti dalla cucina tradizionale a costi più “abbordabili”, la mia impressione purtroppo è che proprio già da questo punto – assolutamente non trascurabile - molte di queste strutture abbiano perduto, o rischino di perdere, il loro carattere originale di semplicità unita all’economicità, grazie a legislazioni fiscali regionali particolarmente vantaggiose. Infatti dal momento in cui si pagano cifre dai 26-28 euro a crescere per la cucina, l’agriturismo cessa di essere un luogo “interessante” ed una valida alternativa ad un altro ristorante; personalmente sostengo la mia piccola battaglia su un atteggiamento della ristorazione oramai dilagante sull’aumento dei prezzi e pagare più di 50 mila lire in un agriturismo mi sembra francamente eccessivo.
Naturalmente non voglio generalizzare e nemmeno colpevolizzare la “categoria”, il mio vuole essere un richiamo a loro perché mantengano sempre alta l’attenzione sulla loro “mission” e un invito a tutti i frequentatori a riflettere e soppesare quando si è in questi luoghi, l’effettivo rapporto prezzo-servizio, valutare tutti i particolari che compongono l’offerta ed esigere qualità. Nel mio girovagare tra gli agriturismi ho raccolto esperienze negative e positive e ne cito alcune che possono servire come canovaccio-guida per esprimere una vostra valutazione. Mi è capitato ad esempio di trovare luoghi che non contemplavano la piadina, che qui in Romagna è come dire non avere l’aria, e vedermi offrire del pane molto comune, dozzinale, segnale di una colpevole disattenzione, oppure mi hanno servito “minestre” che gridavano vendetta, ricche solo di quantità senza passione nel condimento o ancora, fiamminghe di carne “suolata” o molto scadenti nella cottura, come potrei citare anche del servizio in alcuni casi quasi irritato, svogliato . Agriturismo non significa cucina umile nei contenuti e nel trattamento, ma anzi attenzione per le cose semplici che sono le cose, alla fine, migliori, quelle che apprezzi sempre. In questi casi ho trovato cura nel tovagliato con tessuti semplici, ma lindi come nei pranzi della domenica quando la famiglia si ritrovava anche in 15-20 persone, attenzione all’apparecchiatura con proposizione delle pietanze accompagnate dall’orgoglio di dimostrare il frutto del proprio lavoro, spiegazione di come vengono prodotti i cibi i condimenti, della ricerca continua, nella proposizione di confetture e altri alimenti prodotti in loco e presentati con cura. E’ in questi casi che, come ho già detto e ripeto continuamente, il nostro viaggio gastronomico, anche in un agriturismo, ci appaga in tutti i sensi e ci lascia qualcosa dentro anche a distanza di tempo.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 13 luglio 2008

venerdì 11 luglio 2008

La battaglia del tedesco negli asili di Bolzano

Querelle sulle materne "non italiane", per le quali la Svp chiede il test d'ammissione"E' l'unico luogo dove possiamo salvaguardare uno dei pilastri della nostra identità"
Si potrebbe mettere un cartello. "Per ottenere il posto è richiesta la conoscenza della lingua tedesca". Poche domande e non certo difficili. "Come ti chiami? Dove abiti? Ti piace il gelato?". Il candidato deve rispondere nella lingua di Goethe, altrimenti non supera l'esame di ammissione: non per entrare in una facoltà universitaria a numero chiuso, ma per avere un posto in classe e un lettino per il sonnellino del dopo pranzo alla scuola materna. Succede in Alto Adige e l'"esame di ammissione" per il piccolo italiano che vuole frequentare l'asilo tedesco sta spaccando Bolzano e dintorni. Da una parte la Sudtiroler Volkspartei che vuole "garantire la sopravvivenza culturale ed etnica della minoranza tedesca" e chiede (assieme ad Alleanza nazionale) gli elenchi dei bambini iscritti per capire quanti siano gli "italiani". Dall'altra il Pd ed i Verdi che per questo esame di lingue e per il rifiuto di aprire "scuole miste" minacciano di rompere giunte e alleanze. "Non accettiamo - dice Christian Tommasini, segretario del partito democratico - i diktat dell'Svp. Noi vogliamo sezioni con una maestra italiana e una tedesca, altrimenti salterà l'accordo di coalizione per le prossime elezioni d'autunno". Il verde Riccardo Dello Sbarba, presidente del potente Consiglio provinciale, dice che i test linguistici sono illegali. "Si vogliono schedare i bambini per costruire un catasto etnico già alla scuola materna". Si chiama Oswald Ellecosta, capogruppo dell'Svp in Consiglio comunale, l'uomo che vuol fare l'esame di ammissione all'asilo. Mette subito le mani avanti. "Guardi, si tratta di un esamino. "Come stai? Ti piace giocare con la palla?" Tutto qui. Il problema è serio. La scuola, per noi che nel 1919 e nel 1946 siamo stati strappati all'Austria, è l'unico luogo in cui possiamo salvaguardare uno dei pilastri della nostra etnia: la lingua. E questa si impara all'asilo infantile, non nella casa di riposo. Se a scuola arrivano bambini che non sanno una parola di tedesco, cosa succede? Il bambino italiano si isola, la maestra deve seguirlo più degli altri e non riesce a seguire bene i bambini tedeschi che sono nella loro scuola e hanno il diritto di imparare bene la lingua che già parlano nella loro famiglia. Da tre o quattro anni le richieste di genitori italiani per le nostre scuole sono aumentate e allora è nato un problema: per la prima volta i tedeschi non hanno trovato posto nelle loro scuole. C'è stata tanta polemica perché abbiamo chiesto gli elenchi dei cognomi. Lo sappiamo bene anche noi che i signori Rossi o Hollzmann possono essere italiani o tedeschi e che dai cognomi non si capisce molto. Ma noi tedeschi ci conosciamo bene, le nostre famiglie sono qui da secoli. E parlando fra noi, senza dovere leggere gli elenchi ufficiali, abbiamo capito che in tante sezioni tedesche i nostri bambini sono appena la metà degli iscritti. Nessun problema per i bambini di famiglia mista che parlano le due lingue. Ma non si può iscrivere alla scuola tedesca un bimbo che non sa una parola di tedesco: danneggia se stesso e gli altri". Da qui l'idea dell'"esamino". "Guardi, è previsto dal Dpr 301 del 1988 in attuazione dello statuto dell'autonomia. Si dice che se il bambino, dopo 20 giorni di scuola, non è in grado di capire e di farsi capire, deve tornare alla scuola della propria etnia. Contro la decisione della scuola si può ricorrere al Tar. Io sarei per cambiare la norma. Non si può allontanare il bambino dopo 20 giorni, quando magari si è fatto qualche amico, sarebbe crudele. Si faccia l'esame subito e si parli con i genitori. Si dica: guardi che questa non è la scuola adatta per il vostro bambino. Se capiscono, bene. Se non capiscono, facciano pure ricorso al Tar. Così non si può andare avanti. Nella scuola ci sono le radici della nostra identità e della nostra cultura". Il verde Riccardo Dello Sbarba è furioso. "Il decreto del 1988 dice che solo la maestra può proporre ai genitori il ritiro del figlio e questi possono accettare o no. Non si parla certo di test linguistici obbligatori per tutti e tanto meno di schedature etniche. Gli italiani e anche i tedeschi iscrivono i bambini nelle scuole non di madrelingua soprattutto perché possano socializzare, trovare nuovi amici e imparare a non dividere il mondo fra italiani e tedeschi. Contro la richiesta degli elenchi dei nomi ho fatto ricorso al garante della protezione dei dati personali. Come si può imporre l'"appartenenza" già all'asilo? Il censimento etnico si fa a 18 anni, non prima. E' allora che scegli di essere italiano, tedesco o ladino e questo fa parte del gran gioco che serve a dividere le risorse fra i diversi gruppi etnici. Se cominci a fare censimenti già alla scuola materna, compi un'azione illegale e anche immorale: i bambini si sentono in un asilo "straniero", si sentono osservati speciali". Le scuole tedesche fino a tre o quattro anni fa erano praticamente chiuse per i figli degli immigrati extracomunitari. "Poi il presidente della Provincia Luis Durnwalder - ricorda Dello Sbarba - ha cominciato ad aprire le porte perché ha capito che il cinese o il peruviano, a 18 anni, dovranno scegliere l'appartenenza e se esclusi dalla scuola tedesca si dichiareranno italiano o ladino, alzando le quote di questi gruppi". Le quote sono importanti, a Bolzano, soprattutto nell'assegnazioni dei posti di lavoro pubblici, che qui sono ricercatissimi. Un laureato appena assunto in Provincia guadagna 2200 euro, a fine carriera può arrivare a 5000 o 6000. Un insegnante guadagna il doppio di un altro collega italiano. Sono diverse, la scuola primaria italiana e quella tedesca. Nella prima ci sono 6 ore di lezione di tedesco alla settimana, in quella tedesca solo dal 2003 si fa un'ora di italiano. "Eva Klotz, dell'Union fur Sudtirol - dice Luisa Gnecchi, assessore Pd in Provincia - ha presentato ricorso anche contro questa ora solitaria ma la Corte costituzionale le ha dato torto. Il Comune dice che ci sono pochi posti per i bambini tedeschi? Costruisca altre scuole, i mezzi non mancano. Noi, come Provincia, siamo per una forte presenza di insegnanti tedeschi anche nella scuola italiana. Ma ci sono parole proibite come scuola bilingue, sezioni miste, mescolanza.... Si fanno ma non bisogna dirlo. Il presidente Durnwalder ogni giorno annuncia la sua ferma opposizione. Il motivo? Quando ci sono le elezioni in vista, la Svp da una parte e An dall'altra chiamano a raccolta il loro elettorato. Radici etniche e lingua sono i temi caldi in grado di richiamare i voti alla casa madre". Anche chiedendo "Wie heisst du? (come ti chiami?)" a un candidato alla scuola materna...
di JENNER MERLETTI pubblicato su Repubblica
il 3 giugno 2008

martedì 8 luglio 2008

In luglio riapproriamoci della lentezza

Evviva! C’è qualcosa di nuovo nell’aria… si torna all’antico.
No, non è una contraddizione, da qualche tempo si legge di un desiderio generale di riappropriarsi di una certa lentezza nel vivere quotidiano. Trovo interessante questo aspetto e ne sono un convinto discepolo, da anni, per quanto riguarda in particolare la convivialità, lo stare a tavola; tempo fa Petrini, “padre fondatore” dello Slow Food, evidenziava come oggi la loro comunicazione metta in evidenza la necessità di assaporare con i giusti tempi il cibo per coglierne non solo la qualità, ma la “quintessenza” che avvolge il luogo del Convivio in cui si consuma il cibo: tatto, olfatto, vista ed emozioni che possono rendere indimenticabile un’esperienza gastronomica. Negli ultimi due - tre anni è stata creata anche la “giornata mondiale della lentezza” (25 febbraio) e si è assistito ad un fiorire di libri che sviluppano quello che definisco “l’elogio della lentezza” (l’ultimo è di qualche giorno fa “Vivere con lentezza”). Per questo motivo si può dire che si torna all’antico perché chiunque abbia un’età che gli permetta di tornare indietro non tanto, diciamo 25-30 anni, può ricordare come molte cose venivano vissute con un altro ritmo. Il tempo non sembrava così tiranno.
Non vorrei cadere nel luogo comune “... che una volta era diverso…”, io stesso sono una persona molto impegnata che riconosco di vivere troppo velocemente molte delle cose che faccio, ma per la cucina al fine di assaporare tutto ciò mi circonda e che assaporo, mi sono dato degli “spazi temporali”, delle “regole di civiltà della tavola”, affidandomi anche alle sensazioni, che mi ricambiano offrendomi emozioni e soddisfazioni vissute consapevolmente e con gusto.Con la mente riavvolgo spesso il nastro della memoria e ricordo ad esempio le cene da uno zio di mio padre, contadino - che ancora a metà degli anni ’70 viveva con lampade a kerosene, tirava l’acqua dal pozzo e metteva il “prete” nel letto d’inverno perché non aveva riscaldamento - che erano precedute e vissute con una ritualità antica e scandite da periodi senza tempo. Le tavole che mi parevano enormi, piene di parenti, le porzioni abbondanti, sostanziose, ricche di condimento perché gli ospiti non rimanessero con la fame, maiale, coniglio, pecora, una certa trivialità che arrivava parimenti alla crescita del tasso alcolico nei convenuti, grazie soprattutto alle grandi mescite di vino “nero”, il seguito della cena poi con i dolci, la ciambella nell’albana. Il tutto senza che qualcuno dovesse “andar via subito”. Partendo da questo frammento di reminescenza conviviale ritengo che ognuno di noi dovrebbe vivere un’esperienza delle emozioni e della gustosità sia quando organizza un convivio in famiglia o tra amici, sia quando decide di andare al ristorante, in una trattoria o agriturismo.

A questo proposito io suddivido solitamente, ed è applicabile anche al nostro territorio se fate mente locale, le ristorazioni in quattro categorie: la prima è fatta di luoghi in cui ci si ciba e basta, è l’attimo che è già passato; la seconda è costituita da quei locali in cui la cucina è un gradino sopra, sembra più curata, ma di cui non rimane memoria una volta usciti, aggiungo io “senz’anima”, posti dove non ti vengono mai in mente in modo automatico quando pensi a dove puoi andare; la terza è quella più interessante dove il luogo è stato pensato, arredato e curato, dove la cucina è passione e si sente, si avverte, si assapora, dove la disposizione dell’arredo, i colori, l’armonia del locale ti invitano a prolungare l’esperienza, dove ti senti come a casa e dove vuoi tornare perché ti fanno sentire bene e dimentichi la frenesia del “fuori”; in ultimo c’è la categoria di quelli “oltre” che non fanno più cucina, ma bio-ingegneria, ricerca continua della materia o che fanno cose talmente ricercate che le capiscono solo loro e un certo numero di persone (anche troppo numeroso purtroppo) che per noia, snobismo, moda, ricchezza o altro sono anche disponibili a pagare cifre assurde per poter dire che ci sono state.
E’ quindi la terza categoria quella più interessante, quella a cui bisogna tendere per ritrovare il gusto e la soddisfazione della lentezza del Convivio, fatta di ristorazione non per forza di primissimo livello, ce ne sono molti in seconda linea (emergenti), fatta anche da Maestri di Cucina o Titolari giovani, ma che hanno la passione che li accomuna, la memoria della Tradizione unito al piacere di rinnovare senza stravolgere. Sono i luoghi deputati a rimanere nel cuore dei “Gastronauti” che si vogliono riappropriare del proprio tempo per il Convivio.
Questa estate provateci anche voi, vivete la “lentezza conviviale”, degustate appieno l’esperienza e, se vi garba, coinvolgetemi in un confronto (pierangelo.raffini@gmail.it).
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 6 luglio 2008

lunedì 7 luglio 2008

Cercare l'approvazione di altri

Ognuno di noi vale indipendentemente dalla riuscita di ciò che intraprende ed è importante metabolizzare questo concetto, diversamente si corre il rischio di confondere il valore personale con ciò che si riesce a fare nella vita professionale.
Spesso questo induce al bisogno di ricevere approvazione continuamente dagli altri quasi a evidenziare che ha più valore l'opinione che ha qualcuno su di te rispetto a quella che hai di te stesso. Questo modo di ragionare porta facilmente ad una infelicità continua.
Invece sarebbe, il condizionale è d'obbligo visto che io stesso a volte non ci riesco, importante pensare sempre con la propria testa perché ogni volta che cerchi l'approvazione di qualcuno, sei automaticamente manipolabile. Questa è una certezza. Il nostro comportamento dovrebbe sempre essere determinato dalla nostra coscienza e dai nostri Valori.
Non possiamo accontentare tutti, non bisognerebbe avvilirsi o cambiare opinione quando qualcuno disapprova per ottenere la sua considerazione. Non tutti la pensano come noi e non possiamo soddisfare il 100 % delle persone. Non bisognerebbe mai dimenticare che per ogni nostra opinione certamente c'è un'altra che risulta esattamente all'opposto.
Mi rendo conto che sembrano ovvietà, ma qualche volta mi soffermo a rifletterci su queste cose perché quando mi capita di comportarmi così, cercando approvazione, subito dopo mi sento infelice capendo che ho "violato" i miei Valori, il mio essere.

La Forza degli Ideali


"Non esiste alcuna forza così democratica come la forza esercitata da un ideale."
Calvin Coolidge

giovedì 3 luglio 2008

Finalmente liberata Ingrid Betancourt sequestrata da oltre 6 anni

Le sue prime parole: "Ringrazio Dio e l'esercito". Liberato con operazione militareNessuno scambio. La gioia dei figli Melanie e Lorenzo. Il messaggio del Papa.

BOGOTA' - Con un blitz militare inaspettato e scaltro le forze armate colombiane hanno liberato Ingrid Betancourt. La notizia rimbalza nel mondo alle 21 e 10 ora italiana, circa le quattordici a Bogotà ed è giusto dire che emoziona il mondo intero. "Prima di tutto voglio ringraziare Dio e i soldati della Colombia" sono le sue prime parole raccolte da Radio Caracol poche ore dopo la liberazione.
Le prime immagini. Arrivano mentre scende da un aereo della Fuerza aerea colombiana sulla pista della base militare di Toleimada. Ingrid scende da sola le scale dell'aereo, indossa una maglietta grigia sotto un gilet mimetico come il cappellino che copre i capelli raccolti in una treccia fermata da un fiocco bianco. Betancourt sorride e si stringe in un lungo abbraccio con la mamma Jolanda Pulecio. Ha un polso fasciato di nero e un paio di stivali di gomma ai piedi. E' magra, molto magra ma ora è solo il tempo dei sorrisi e degli abbracci. Subito dopo di lei scendono gli altri 14 ostaggi, anche loro indossano tute mimetiche. Si abbracciano, si stringono, anni di prigionia insieme nella giungla colombiana. E l'emozione, a questo punto, è più forte di tutto il resto. Sembrano veramente tutti in buone condizioni fisiche. "Non ci siamo resi conto di quello che succedeva, perchè non c'è stato un solo sparo, non è stato ucciso nessuno, ci hanno portato fuori alla grande" ha detto Betancourt appena scesa dall'aereo.
La candidata alla presidenza della Repubblica colombiana era stata rapita il 23 febbraio 2002 dai guerriglieri delle Farc ed è rimasta sei anni e mezzo nella giungla nelle mani dei suoi rapitori. A dicembre aveva fatto recapitare una lettera che aveva straziato per la forza e al tempo stesso la disperazione di questa donna. Con lei sono stati rilasciati una quindicina di ostaggi tra cui 3 soldati americani e undici colombiani. (leggi il seguito...)

martedì 1 luglio 2008

Le sagre sono le feste della tradizione

Come il resto dell’Italia, anche il territorio imolese e il suo circondario presentano ogni anno un importante calendario di sagre e manifestazioni gastronomiche spalmate sul nostro territorio, a grandi linee, da febbraio a novembre.
Le sagre sono delle feste dei sapori e del gusto, feste della tradizione e della convivialità, sono in qualche modo eventi “custodi” della nostra memoria che permettono altresì di tramandare e riscoprire le radici, anche alle nuove generazioni, in modo divertente e coinvolgente.
Negli ultimi anni c’è stato un moltiplicarsi di iniziative legate alla gastronomia, e ciò è lodevole, ma sarebbe importante che le varie sagre e feste popolari fossero sempre e in ogni caso legate al territorio, all’ambiente ed alle autentiche tradizioni locali. Non si dovrebbe mai dimenticare che le sagre dovrebbero svolgere un ruolo di difesa e valorizzazione della cucina regionale legata al territorio, alle sue tradizioni, ai suoi prodotti tipici. L’Italia è una terra di tante e ottime cucine regionali, territoriali, di paese e anche di quartiere; questo è il suo pregio e carattere distintivo per esempio da quello francese che, al contrario, possiede una “grande” cucina nazionale derivante dal suo passato di paese con re ed imperatori con corti vaste, così come le enormi brigate di cucina al loro servizio.
Ma tornando al tema, è vero che oggi queste manifestazioni raccolgono sempre un grande successo di visitatori e quindi, come si dice, “business is business” (gli affari sono affari), ma il passaggio, nel tempo, dal concetto di sagra sostanzialmente religiosa a quello di festa popolare non dovrebbe far perdere a queste iniziative le proprie radici ambientali. Non dimentichiamo, difatti, che le sagre nascono come feste legate normalmente ad un momento religioso: pagano prima, cristiano poi. La maggior parte di queste venivano identificate in precisi momenti dell’anno legati al lavoro della terra e/o a particolari momenti della vita religiosa. Ancora oggi alcune di queste sagre mantengono questa “ricordo” nei nomi – festa dell’Assunzione, di San Giovanni, di Sant’Antonio oppure “Lom a Merz”, la “Sfujareia”, ecc. – che legano contemporaneamente ai periodi in cui si svolgono, anche i prodotti gastronomici legati alla stagione.
Le sagre erano momenti unici nella vita di un paese, momenti di grande socializzazione, di unione e identificazione per la sua gente che non aveva molti momenti di svago come ora e a cui partecipavano anche le persone provenienti dalle campagne e dai paesi limitrofi. Si conducevano affari – spesso c’era anche un mercato di bestiame – si mangiava e si beveva (molto) e ci si divertiva; ed essendo la Romagna una società fortemente “maschile” i passatempi erano rintracciabili in base all’età dell’uomo...
Si può quindi affermare che queste sagre sono qualcosa di nuovo e qualcosa di antico, in quanto alle feste a cui si faceva riferimento poc’anzi sono state aggiunte, nel tempo, sagre dedicate ai prodotti enogastronomici, quasi sempre, del territorio. Così nell’imolese e nel suo circondario troviamo dalla sagra della tagliatella a quella dell’uva, da quella del raviolo a quella della castagna e del cocomero. Un discorso a parte riguardano, nel nostro territorio, tre sagre in particolare di cui una è scomparsa da anni, ma particolarmente rappresentative dei prodotti locali. La prima è quella dell’albicocca che consacra(va) la famosa, a livello non solo nazionale, “Reale d’Imola”, una varietà molto produttiva, saporita e di grande pezzatura che presenta una buccia arancione e una polpa profumata e compatta che, di fatto, sta scomparendo; la seconda è quella della polenta che si svolge oggi a Borgo Tossignano – una volta il paese era Tossignano e Borgo era ciò che esprime la parola – con radici nel XVII secolo e dove la distribuzione era totalmente gratuita al popolo addirittura per decreto. L’ultima è la (una volta) famosa sagra dei fragoloni che io ricordo da bambino si svolgeva nel viale del parco delle acque minerali, vicino al luogo dell’incidente a Senna per intenderci, nata all’inizio degli anni ’50 e terminata all’incirca negli anni ‘70.
E’ importante sottolineare che la realizzazione delle sagre ha una rilevante ricaduta sia sull’associazionismo del territorio, ne sono conferma le migliaia di cittadini che vi partecipano accanto a centinaia di volontari impegnati, sia per l’economia e il turismo, sia per il legame che si crea tra Amministrazioni locali, imprese e cittadini. Terre e luoghi vocati alla produzione di vini tipici, prodotti e sapori genuini della terra, creazioni gastronomiche retaggio di abilità manuale e cultura delle tradizioni, tutto concorre a costruire così la possibilità, per il turista motivato e curioso, nonché appassionato di temi enologi e gastronomici, di conoscere ed assaggiare prodotti della terra viaggiando e scoprendo nuovi territori.
A questo proposito il “Baccanale” è uno splendido esempio di come un duro lavoro di, studio, concerto e organizzazione, compiuto dall’Assessorato alla Cultura con organizzazioni, enti ed associazioni, possa originare un evento di eccellenza ormai noto a livello nazionale e che suscita grande interesse.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 29 giugno 2008