venerdì 21 marzo 2008

Il Valore del Lavoro

Riprendo parte dell'articolo di Giampaolo Pansa pubblicato sull'Espresso, perchè condivido l'analisi.
"... Sono abbastanza anziano per aver vissuto, da giovane, i miracolosi anni Sessanta. E so che fra i tanti motori del boom il più importante, quello decisivo, è stato il lavoro. Nel senso di voglia di faticare, di darci dentro, di rimboccarsi le maniche, di agguantare un mestiere e poi di passare a un altro, sempre sperando di guadagnare di più e di migliorare la propria condizione. E insieme di non essere schizzinosi, di prendere quel che c'era, sperando di poter scovare il lavoro fatto giusto per te. Eravamo pronti a tutto, tranne che a fare le ligere, i malviventi. A questo ci spingeva anche l'etica famigliare. Molti dei nostri genitori, nati tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, erano cresciuti nella povertà e talvolta nella miseria. Mio padre aveva cominciato a lavorare a nove anni, dopo la terza elementare, come guardiano delle vacche. E mia madre, alla stessa età, faceva la piccinina da una sarta, imparando a cucire. M
i avevano aiutato a studiare, nella speranza che la mia vita fosse meno sacrificata. Il loro incitamento era riassunto in due parole: "Impara ad arrangiarti!". Ossia, datti da fare, non credere di poter campare sulle nostre spalle e appena puoi vattene da casa.Le paghe erano basse. Nel 1960, da super-laureato, centodieci e lode, più la dignità di stampa, lavoravo a Milano alla biblioteca dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli. Il contratto era quello dei dipendenti del commercio e lo stipendio quasi uguale al salario delle commesse della Rinascente. Alla fine dell'anno, quando venni assunto come giornalista praticante alla 'Stampa', mi sembrò d'essere diventato ricco. Ma anche lì non si doveva aver paura di darci dentro. I giovani facevano 'la lunghetta': undici ore filate, a volte dodici, dalle due del pomeriggio all'una o due di notte. Nel boom, la fatica non aveva protezioni. Nelle banche, se un'impiegata annunciava che si sarebbe sposata, veniva subito licenziata. All'inizio di una professione eravamo tutti precari e molto flessibili. I doveri venivano sempre prima dei diritti. E gli immigrati dal Mezzogiorno di diritti non ne avevano. A Torino erano accolti da cartelli che ho visto anch'io: 'Non si affitta ai meridionali'. In confronto a loro, mi sentivo un nababbo. Anche se non ero mai andato in vacanza, non possedevo una motoretta e meno che mai un'automobile. Per di più tremavo al cospetto del mio primo direttore, Giulio De Benedetti. Quando entrava nella sala della redazione, ci alzavamo tutti. E stavamo in piedi fino a quando lui ordinava: "Signori, seduti!".Nel frattempo, l'economia tirava. E il boom esplodeva. Malgrado l'opposizione astiosa degli antenati di Veltroni, i comunisti di Togliatti, e dei socialisti di Nenni. La mamma del miracolo economico è stata la Dc. E il primo governo di centro-sinistra, quello Moro-Nenni, nacque soltanto nel dicembre 1963, quando il boom si era già incagliato in una congiuntura sfavorevole.Ma gli italiani seguitavano a faticare, a comprare frigoriferi, lavatrici e televisori, a scoprire le ferie e i viaggi in auto, a cercare alloggi decenti, con il bagno dove fare la doccia. Ah, la doccia! Da ragazzo non avevo mai potuto farla perché avevamo soltanto il cesso sulla ringhiera."

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