venerdì 21 marzo 2008

Etica e Lavoro



Geronzi deve dimettersi.
La regola sulla impresentabilità dei politici condannati va applicata anche ai banchieri.

Lo scorso gennaio, quando il governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro fu condannato in primo grado per favoreggiamento, un coro di voci si levò per chiederne le dimissioni. In prima fila fu il presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, giustamente impegnato a sostegno della coraggiosa battaglia contro il pizzo lanciata dalla sede siciliana della sua associazione. Anche se la nostra Costituzione garantisce la presunzione di innocenza fino a una condanna passata in giudicato, opportunità politiche suggeriscono le dimissioni di un amministratore condannato in primo grado di un reato così grave per l'incarico che ricopre. Le istituzioni devono sembrare, non solo essere, al di sopra di ogni sospetto. E, per salvaguardare questa rispettabilità, è giusto chiedere a chi è stato condannato in primo grado di farsi da parte. Soprattutto in un Paese dove, per avere una sentenza definitiva, ci vogliono almeno dieci anni. La reazione al caso Cuffaro ha avuto un'altra ricaduta positiva. Il Partito democratico ha deciso di non ripresentare alle elezioni i parlamentari che abbiano subito condanne in primo grado. È un segnale importante che il Paese vuole più trasparenza e pulizia nella gestione della cosa pubblica. Ma perché questa operazione si è fermata alla politica e non tocca il mondo della finanza? Perché le stesse voci che hanno chiesto le dimissioni di Cuffaro non si sono levate a chiedere le dimissioni di Cesare Geronzi, presidente del comitato di sorveglianza di Mediobanca, condannato in primo grado per bancarotta dal Tribunale di Brescia e sotto processo per lo stesso reato nei casi Cirio e Parmalat? Se il sospetto di complicità con la criminalità è tra i peggiori che possano colpire un governatore, quello di bancarotta è tra i peggiori che possano colpire un banchiere.
Perché allora Montezemolo non ha chiesto le dimissioni di Geronzi come ha chiesto quelle di Cuffaro? E perché un banchiere che tanto ha fatto per migliorare l'immagine della sua banca, come l'ad di Unicredit, Alessandro Profumo, ha appoggiato l'elezione di Geronzi a presidente di Mediobanca? Nel mondo le reazioni negative non sono mancate. Dopo la sua condanna, i fondi internazionali hanno votato contro la riconferma di Geronzi a presidente di Capitalia. E dandone l'annuncio, il 'Financial Times' riportava l'opinione di un famoso hedge fund manager: "Non possiamo essere azionisti di una società dove gli standard di corporate governance sono stati violati, riconfermando come presidente chi è stato condannato per un reato". Un altro money manager, sempre citato dal 'Financial Times', diceva: "Secondo gli standard internazionali ci aspettiamo che il presidente si dimetta". Dopo la sua nomina a presidente di Mediobanca, la rivista americana 'Forbes', citando un'analista, scriveva: "Tutti sanno che ha fatto affari dubbi, ma ci sarà la volontà politica di cambiarlo?". E questa è la domanda fondamentale: ci sarà la volontà politica di cambiarlo? Ma questa volontà politica non deve essere fraintesa come volontà partitica. Mediobanca è un'impresa privata e come tale non deve essere soggetta a pressioni dei partiti. Ma solo a pressioni del mercato. Negli altri Paesi queste cose non succedono perché il mercato penalizza chi si comporta male. Perché in Italia questo non succede? Un'ipotesi è che il mercato non è informato perché la stampa è imbavagliata. Oltre a controllare il 'Corriere della Sera' - sostengono alcuni - Geronzi, nella sua lunga carriera di banchiere, ha accumulato molti crediti nei confronti dei padroni di altri giornali. Ma io non ci credo. Nel XXI secolo le informazioni viaggiano su Internet e non c'è operatore finanziario che non conosca i fatti.Un'altra ipotesi è che gli italiani non considerino una condanna penale uno stigma sufficientemente grave. Ma questo non spiega il coro anti-Cuffaro e la decisione del Partito democratico di non ricandidare i condannati. La ragione è da trovarsi nella ristrettezza e provincialità

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