sabato 12 gennaio 2013

Elogio morale della precisione

Oggi la sciatteria é un vizio che non ci possiamo permettere.

«Nei corsi di scrittura, il punto su cui tornavo più spesso era la precisione. La letteratura quale linguaggio definitivo per circoscrivere una materia mobile e multicolore come il “sentire” (…). Per contagio ho finito per amare la precisione non specificamente letteraria, come quella della manualistica dedicata alle costruzioni navali (con definizioni tecniche stranianti dell’acqua e delle imbarcazioni), all’arte militare, al gioco degli scacchi, alle ricette alcoliche (…). E ne raccomando la lettura come propedeutica alla prosa».

La libreria di casa è un giacimento di serendipity, si trovano le cose che non si stanno cercando. Negli ultimi giorni dell’anno è sbucato Prima persona, da cui è tratta la citazione iniziale. Un volume che ci permette di ricordare Giuseppe Pontiggia — uomo e scrittore delizioso — nel decennale della scomparsa; e consente all’autore di portarci un regalo, a distanza di tempo.

Un regalo vero, un viatico per questo anno strano che comincia: l’amore per la precisione. Precisione non è solo elenchi,ma è anche elenchi: dalle genealogie della Bibbia alle navi dell’Iliade ai cetacei di Melville, che hanno bloccatomolti (ma non Achab, né Ismaele) nella rotta verbale verso Moby Dick. La scrittura è il luogo dell’esattezza. Il marchio di fabbrica del cattivo scrittore è la confusione (che l’interessato, ovviamente, considera arte). Ma la questione non è solo letteraria o culturale. La precisione diventerà lo spartiacque tra chi prova e chi tenta; tra chi costruisce e chi accumula. In ultima analisi, tra chi riesce e chi fallisce.

Precisione non è pignoleria. La precisione ha uno scopo, la pignoleria nessuno. I pignoli sono manieristi; le donne e gli uomini precisi sono romantici. Sanno che il caso entra dappertutto, ma niente esce solo per caso. Perché Hugo Cabret resta un film speciale, e ci porta a dimenticare il fastidio del cinema che si cita addosso? Perché il ragazzino protagonista unisce tecnica e incoscienza, ama i meccanismi e i sogni, sistema i congegni e aggiusta la vita: sua e degli altri.

Italo Calvino dedica alla «Esattezza» la terza delle sue Lezioni americane (preparate per l’università di Harvard nel 1985, pubblicate nel 1988). Parte da Giacomo Leopardi, e ricorda che, quando definisce il concetto di «vago», il poeta dell’Infinito era preciso («Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite», Zibaldone, 25 settembre 1821). Calvino, nella stessa lezione, cita anche Roland Barthes e Robert Musil, due tra gli scrittori che più hanno coltivato la precisione. L’uomo senza qualità un talento ce l’aveva di sicuro: decrittare la vita intorno a lui. Voi direte: perché tutto questo dovrebbe importarci? In questo incerto e insolito 2013 — dopo ventisei anni tornano quattro cifre diverse tra loro — non dovremmo occuparci invece del lavoro che non c’è, soprattutto per i più giovani? Non dovremmo pensare alla politica, tentata da catastrofici ritorni al passato? La precisione — obietterà qualcuno — è un dolce di lusso, meglio pensare al pane quotidiano. Be’, si sbaglia: la precisione è la farina, senza la quale non si ottiene né pane né dolci.

In un mercato del lavoro che offre sempre meno e chiede sempre di più non c’è spazio per il «più o meno». E invece la tentazione del pressapochismo è fortissima: consente infatti di sperimentare frettolosamente molte cose, sperando che almeno una vada bene. Se dalle vite private passiamo alla vita pubblica, lo spettacolo è ancora più malinconico. Un breve elenco delle sciatterie italiane occuperebbe l’intero primo numero 2013 de «la Lettura», e rovinerebbe l’umore di tutti noi. Eppure non c’è dubbio. È la mancanza di esattezza — delle norme, delle procedure, dell’amministrazione, della giustizia, delle carriere — che ha spinto l’Italia a scivolare verso il basso. Senza rumore, perché il declino si può oliare, come una carrucola.

Alla precisione — e all’imprecisione — ci si abitua da giovani: non è mai troppo presto per imboccare il sentiero della faciloneria. L’inesattezza è una compagna gentile, che ci sussurra di non fare sforzi. Cercare, preparare, disporre, controllare, ricordare, mantenere le promesse costa fatica. Eppure l’umanità si divide tra quelli che fanno (bene) ciò che dicono; e gli altri, che annunciano inutilmente e promettono invano.

I propositi spesso sono generici; ma si possono precisare, prima di presentarli in società. Ai ragazzi che si avvicinano dopo un incontro pubblico e dicono: «Devo chiederle una cosa…», rispondo: «Scrivimi», e passo l’email personale. Si fanno vivi in due su dieci. È una selezione naturale e utile. Chi scrive, infatti, ha quasi sempre qualcosa da proporre o da chiedere. Anna ha inviato una brillante autocritica generazionale al blog Solferino28; Filippo scriverà il suo libro; Maria Elena lavora su Tacito e Twitter; Martina combinerà architettura e scrittura; Elettra ha organizzato un insolito incontro in Bocconi; Greta è diventata giornalista; Hermes e Diana ci proveranno. Ognuno di loro ha un’idea precisa, non una vaga aspirazione; presenta una proposta, non soltanto generica disponibilità. Quei ragazzi — e ho citato solo vicende degli ultimi due mesi — hanno capito «la forza dei legami deboli» (copyright Mark S. Granovetter). Più femmine che maschi: credo non sia un caso.

Usare i propri contatti non è una cosa cattiva: i ragazzi devono farlo. Non in modo cinico; in modo preciso. Devono capire che le prime impressioni — sì, anche un’email — contano. Devono imparare a rendersi rilevanti e interessanti; decidere cosa vogliono; poi chiederlo, in maniera sintetica. Tutto ciò non vuol dire diventar vecchi anzitempo; significa non buttare i dieci anni più importanti della propria vita. Molti, in America e in Europa, sostengono che «i trent’anni sono i nuovi vent’anni». È una colossale sciocchezza. Peggio: è un’istigazione alla rassegnazione. I vent’anni contano, eccome. E vanno trattati con delicatezza e precisione.

In The Defining Decade (2012), dedicato proprio ai ventenni, la terapeuta Meg Jay spiega che l’esattezza dei comportamenti non è solo un modo soddisfacente di vivere con gli altri; è anche la condizione di ogni avanzamento personale e professionale. L’autrice ricorda la tattica del giovane Benjamin Franklin (uno dei grandi strateghi americani della quotidianità): se aveva bisogno di conoscere qualcuno, il futuro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza chiedeva un piccolo, semplice favore. Era convinto, infatti, che a molti non dispiacesse sentirsi buoni. Meg Ray lo ricorda ai ragazzi di oggi: it’s good to be good. Non tutti voglio imbrogliarvi, là fuori.

Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto, padovano, 44 anni, professore di Robotica alla Ucla (University of California Los Angeles), e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di una intervista per «Pagine Ebraiche» a Judea Pearl, vincitore del Turing Award 2012 (considerato il Nobel dell’informatica), pioniere dell’analisi causale. Scrive di lui Soatto: «Un ingegnere elettronico della Rca diventato un pilastro della Computer Science, uno dei riformatori di Artificial Intelligence, uno dei caposaldi di Machine Learning, fino ad arrivare ai fondamenti della statistica». L’ho conosciuto, qualche anno fa, proprio grazie a Soatto: un personaggio di un’intelligenza folgorante e di un’umanità disarmante.

Nell’intervista — originale, documentata e scrupolosa — Rossella commette però un piccolo errore: descrive Stanford come «una università Ivy League». Soatto le ha scritto: «Ti mando un paio di commenti; scusa se mi permetto di farteli, ma visto che sei giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo Paese. Stanford non è una Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un’ottima università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche se apparentemente banali o prive di conseguenze. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. Ma molti giovani qui negli Usa lo stanno imparando sulla propria pelle, quando gli uffici di ammissione all’università oppure i potenziali datori di lavoro vanno a cercare le tracce che uno ha lasciato. Paradossalmente, oggi è più facile commettere errori, ed è più difficile cancellarli».

Pignoleria? No, esattezza motivata e finalizzata. Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l’ha fatta, fateci caso, ha saputo unire brillantezza e precisione. La prima è congenita; la seconda va coltivata. Pochi di noi dovranno preoccuparsi della propria intuizione, dell’intelligenza emotiva o della capacità di pensiero associativo; quasi tutti, invece, dobbiamo badare alla nostra costanza e affidabilità. Esiste un sospetto metodico di superficialità verso noi italiani: lamentarsi non serve, bisogna smentire con i fatti. Orari, appuntamenti, note-spese, interventi in riunione, consegne, scadenze: se un tedesco se ne scorda, è distratto; se ce ne dimentichiamo noi, pensano che siamo sciatti.

La precisione non è solo una sana consuetudine lavorativa; è anche un atteggiamento verso le persone e le cose. Prendiamo l’ironia: non può essere generica. Per funzionare, deve essere esatta: solo così ci aiuterà a sorridere delle imperfezioni del mondo, soprattutto di quelle che non possiamo correggere. L’ironia è chirurgia verbale. Non può essere imprecisa, altrimenti rischia di uccidere ciò che vuol salvare.

Lella Costa — autrice nel 2000 con Gabriele Vacis del monologo Precise Parole (tutto torna) — ha appena pubblicato Come una specie di sorriso. Scrive: «Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e superiorità sul destino richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta». È così. L’ironia è precisa: ecco perché funziona bene su Twitter che, come ho scritto più volte, considero una forma di igiene mentale quotidiana. Giulia @CraftyKitteh — 30 anni,milanese, «antropologa fotografa, sognatrice e appassionata di crochet/uncinetto» — ha letto la mia definizione e ne ha proposto una migliore: «Twitter? Un filo intermentale.

Twitter @beppesevergnini

Beppe Severgnini


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