domenica 17 marzo 2013

Elogio del compromesso

Il termine compromesso non gode di buona fama. Fa pensare ad accordi sotto banco, alla rinuncia ai propri ideali per miseri tornaconti personali. Al contrario, l’intransigenza viene elevata a valore. Salvo poi scoprire che per alcuni, anzi per molti, fingersi intransigenti è un modo sottile per avere facile successo e realizzare i propri interessi. Ciò vale, in Italia, soprattutto in politica. E non c’è da meravigliarsene. Caduta la cosiddetta «prima Repubblica», per quasi un ventennio la politica ha riprodotto un gioco a somma zero, che esigeva una scelta di campo netta a prescindere dai temi sul tappeto. O con me o contro me. La divisione antropologica o quasi fra berlusconiani e antiberlusconiani ha significato impossibilità di trovare punti di condivisione che avrebbero potuto portare a soluzione questioni che, rimaste inevase, sono poi esplose, portandoci sul ciglio del precipizio.

Anche oggi che, con il governo Monti, siamo in una nuova fase, le forze dell’antipolitica e del populismo, a destra come a sinistra, continuano a far sentire forte la loro voce e rifiutano ogni confronto, proponendo ricette non solo semplicistiche e velleitarie, ma anche pericolose. Lo stesso governo tecnico è nato dalla constatazione che i partiti non erano in grado di raggiungere un dignitoso compromesso sulle cose da fare, assumendosi direttamente le proprie responsabilità.

Guai però a pensare che l’antipolitica sia un fenomeno solo italiano. Purtroppo negli ultimi anni ha conquistato sempre più spazi in Occidente. E persino negli Stati Uniti, con l’emergere di una destra fondamentalista e ultraliberista, il dibattito pubblico si è radicalizzato, assumendo i toni di una «guerra di religione», come raccontano Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis nel volume Tea Party, edito da Marsilio nella collana «i libri di Reset». È da questa situazione che prendono le mosse due affermati scienziati della politica americani, Amy Guttmann e Dennis Thompson, nel loro recente The Spirit of Compromise. Il libro, edito da Princeton University Press, è un elogio dell’arte della politica, che per definizione è basata sul compromesso. «La politica — scrivono i due autori — è l’arte del possibile, quindi il compromesso è l’abilità richiesta alla democrazia».

L’obiezione che di solito viene posta a tesi di questo genere è che sui principi nessun compromesso è ammissibile. È chiaro per esempio che una democrazia non può venire a patti con forze illiberali: come diceva Karl Popper, chi vuole servirsi delle regole della «società aperta» per conquistare il potere e poi abolirle va messo fuori gioco. Ma non si può giudicare indegne di partecipare al gioco politico le forze che semplicemente non la pensano come noi. La china che porta dallo Stato di diritto allo «Stato etico» è sempre scivolosa. Più interessante è l’obiezione liberale al compromesso: esso annullerebbe il conflitto nell’illusione di creare una società armoniosa. Ora, è vero che il conflitto è il sale della democrazia, ma esso, per i padri del liberalismo, deve aver corso e vita nella società civile, per poi trovare una composizione nella politica. Non parlavano di conflitto semplicemente, ma sempre di conflitto regolato.

D’altronde, discutere e raggiungere un onesto compromesso significa corrispondere all’idea che nessuno è portatore della verità. E quindi adempiere a un dettato fondamentale del liberalismo. Chiunque, anche il nostro avversario, può aver visto aspetti della verità che ci erano sfuggiti e possono essere integrati nella nostra visione. O anche farcela cambiare. Il ripensamento e l’autocritica, quando sono il frutto di un travaglio interiore, ci fanno maturare e devono essere benvenuti. D’altronde, se viene meno la forza della contraddizione, l’«immane potenza del negativo» di cui parlava Hegel, la società non progredisce, la conoscenza stessa diventa statica e alla fine inservibile.

Qui il discorso dalla politica passa alla filosofia. Non è un caso, ad esempio, che in un volumetto pubblicato da Castelvecchi con il titolo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone Weil contesti la logica della contrapposizione astratta. «Siamo arrivati al punto — scrive — da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione “pro” o “contro” un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino». Persino nella scuola, osserva, quando si presenta un testo agli scolari non si sollecita semplicemente una loro riflessione, ma li si invita a prendere posizione. E conclude: «Quasi dappertutto — e anche, di frequente, per problemi puramente tecnici — l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero». È una «lebbra che ci sta uccidendo».

Più in generale può dirsi che l’intero campo del pensiero si divida fra autori che sono consapevoli del carattere chiaroscurale della realtà e altri che invece si ritengono portatori della verità. Questo è il limite di ogni illuminismo, l’inconsapevolezza che una luce troppo accesa impedisce di vedere. Proprio come il buio. Quando Isaiah Berlin passa a studiare, e anche ad apprezzare, i tardo illuministi o protoromantici tedeschi (Hamann, Herder, Jacobi, Humboldt), non abbandona il campo del liberalismo. Si mette piuttosto alla ricerca di una razionalità più concreta e di un liberalismo più compiuto, per fare i conti con la varietà e complessità del mondo umano.

Il tardo illuminismo culminò nel pensiero di Hegel, che ripropose e portò a compimento la lunga storia della logica dialettica. È una logica che non si fonda, come quella formale, sul principio di non contraddizione, ma concepisce ogni concetto in relazione dinamica col suo opposto, in quanto parte di un insieme che entrambi li regge e giustifica. Un’anima pia come Kierkegaard capì subito che era su questo punto che andava sferrato l’attacco contro Hegel. E infatti oppose la sua logica dell’aut aut a quella dell’et et propria del maestro di Stoccarda.

Ora, mi chiedo: è solo un caso che nella nostra epoca di contrapposizioni forzate e di antipolitica diffusa la dialettica sia il grande rimosso della filosofia? E non è da qui che occorre ripartire per riabilitare la nobile arte del compromesso?

Corrado Ocone
- La Lettura Corriere della Sera

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