mercoledì 20 marzo 2013

Francesco entra nella piazza

In quei giorni si trovava a Troade, una città portuale dell'Anatolia che s'affacciava sull'Egeo. A notte fonda una voce era risuonata nella sua mente durante un sogno: era un europeo che supplicava in greco: Diabàs eis Makedonían boétheson hemín, «Vieni in Macedonia e aiutaci!» (Atti 16,9). Protagonista di questa vicenda intima che, però, segnerà la storia dell'Occidente, è l'apostolo Paolo che, spinto da quell'appello, dal l'Asia approderà in Europa. Anni dopo la scena si ripeterà in una forma diversa, all'interno di una camera di sicurezza ove l'Apostolo era relegato: egli era in custodia cautelare nella Fortezza Antonia (ove era di stanza il presidio imperiale romano di Gerusalemme) in seguito al suo coinvolgimento in un tumulto avvenuto nel Sinedrio, la suprema assemblea giudaica. Paolo era stato sottratto a fatica da un tribuno alle contestazioni dei Sinedriti.

Ebbene, nel sonno agitato del recluso ecco apparire un volto luminoso. Era il Signore Gesù che gli diceva: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme su di me, così è necessario che tu mi dia testimonianza anche a Roma» (Atti 23,11). In queste due scene emblematiche si può idealmente rappresentare l'impegno che attende Papa Francesco e l'intera Chiesa: uscire dal grembo protetto, ove pure è necessario sostare, per entrare nelle metropoli; varcare le soglie del tempio, ove è certamente indispensabile vivere la diretta comunione con Dio, ed entrare nella piazza, anzi nella rete sociale, virtuale, economica, culturale che avvolge il nostro globo. I suoi primi atti sono stati limpidi ed essenziali proprio in questa direzione.
L'orizzonte che viene incontro non è, certo, facile da traversare. Forse non è più tenebroso e ostile come accadeva in certe epoche del passato, segnate da guerre mondiali o da negazioni teoriche assolute e radicali di ogni trascendenza. Ora spesso a dominare è una sorta di nebbia ove i contorni si confondono e si neutralizzano. È il fenomeno dell'indifferenza morale e religiosa per cui Dio è ignorato, la fede considerata irrilevante, l'etica è mobile secondo le convenienze e le circostanze e la verità è simile al disegno di una ragnatela che ciascuno produce estraendone il filo da se stessi e non ricevendolo dall'alto.

Eppure è un orizzonte che apre tanti squarci di luce. L'invocazione del macedone risuona anche ai nostri giorni in modo forse implicito ma autentico e riguarda le domande basilari di senso sulle realtà ultime della vita, della morte e dell'oltrevita, della persona e della libertà, del male e della sofferenza, del l'amore e della felicità, della giustizia e dell'ingiustizia, della verità e della menzogna, della pace e della violenza, dell'armonia con la terra. È per questo che molti provano un'attrazione quando sentono risuonare la Parola evangelica che inquieta le coscienze intorpidite, che consola, che libera, che spinge alla speranza e all'impegno fraterno, che fa conoscere la compassione e la tenerezza, che non è indifferente al male giudicandolo eppure punta soprattutto alla salvezza di ogni creatura umana, perché – come ancora ammoniva san Paolo – «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Timoteo 2,4).

La figura di Cristo riesce ancora ad attraversare le vie della modernità. Egli continua a bussare – mediante i suoi apostoli e discepoli – alle porte delle solitudini contemporanee, come suggeriva l'Apocalisse: «Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Sono molti, poi, i crocevia dove il messaggio cristiano può essere intercettato dai passanti a prima vista distratti. C'è innanzitutto proprio l'ambito della secolarizzazione che ha appiattito le culture, ma non ha potuto cancellare la verità del monito di Pascal secondo cui «l'uomo supera infinitamente l'uomo», impedendogli di eliminare la domanda religiosa e quella sul senso dell'esistenza, né tanto meno ha potuto far tacere totalmente una radicale coscienza etica. È qui che si insedia quel «Cortile dei Gentili», pensato da Benedetto XVI, spazio di dialogo e di incontro sui temi "ultimi" tra credenti e non credenti.

C'è, inoltre, il grande respiro delle culture giovanili con le loro nuove grammatiche espressive e operative che possono sconcertare e che non di rado corrono sul crinale del rischio e della degenerazione, ma che custodiscono terreni fecondi di amicizia, di volontariato, di libertà, di creatività, di musica. C'è il mondo della scienza e della tecnica che pone sul tappeto pesanti questioni di bioetica, ma che al tempo stesso trasfigura la comprensione della realtà e trasforma la qualità della vita. Il nostro sguardo, infatti, può fissarsi con stupore sulla trama dell'evoluzione globale, dal fondo cosmico primordiale fino all'elica del Dna, dal bosone di Higgs fino al multiverso, ma può anche scoprire gli straordinari esiti che la ricerca medica offre all'umanità come sostegno alla sua fragilità e finitudine.

Capitale ai nostri giorni è anche l'opera che la Chiesa deve offrire al superamento dello scontro delle civiltà, ma pure di un multiculturalismo statico che lasci lo spazio a un'interculturalità multiforme che si basa sul dialogo e sul confronto. In questa opera, le identità specifiche non devono stingersi o estinguersi in un sincretismo relativistico – come purtroppo sta accadendo a un'Europa "smemorata" e superficiale – ma quelle identità non devono neppure indurirsi in un fondamentalismo aggressivo, esclusivo e repulsivo.

Non si possono nemmeno ignorare i grandi intrecci economici che, purtroppo, spesso generano squilibri sociali, miseria, disoccupazione, persino disperazione, accumuli finanziari capaci solo di alimentare ingiustizie o illusioni. E tuttavia si tratta di uno strumento necessario per lo sviluppo sociale, per l'esercizio di una politica che sia attenta alla vita della gente e alla promozione del bene comune. Similmente è importante per la Chiesa essere sempre accanto alla famiglia, cuore della società, un cuore non di rado dissanguato o ferito, ma anche pronto a battere con la sua carica d'amore, così da tornare a essere ancora una sorta di ecclesia domestica, come accadeva alle origini del cristianesimo.

La Chiesa deve, allora, vivere con intensità l'unità nella pluralità, ancorandosi certo alla coordinata verticale del primato petrino, ma anche a quella della collegialità episcopale, dell'impegno del clero e dei religiosi e del coinvolgimento attivo ed esplicito dell'intera comunità ecclesiale, a partire dalla presenza femminile il cui contributo è spesso decisivo. E, se si vuole allargare il respiro, la comunità cristiana all'interno della sua preghiera, della sua liturgia, dei suoi ambiti di presenza deve coltivare l'amore per la bellezza in un mondo spesso segnato dalle ferite della bruttezza, inquinato e devastato: è la forza dell'arte che, dopo la parentesi del divorzio consumatosi nel secolo scorso, deve riprendere il filo d'oro del suo incontro con la fede, sua sorella nella ricerca dell'Invisibile che si cela nel visibile, anche lungo percorsi inediti, come avviene nelle espressioni estetiche contemporanee.

Ma, come ha testimoniato papa Francesco fin dai suoi inizi, per entrare in questi e in altri incroci è necessario tenere alta la purezza della Parola e della testimonianza, abbattendo nella Chiesa ogni scandalo, ogni arroganza, ogni ipocrisia, sulla scia di quanto attestano le labbra e le mani di Cristo. Infatti, le sue sono parole semplici ma incisive, non passano sopra le teste delle persone in un vago ed etereo spiritualismo, ma partono dai loro piedi che camminano nella storia, impolverandosi nei problemi quotidiani, partecipando a vicende festive e feriali, condividendo riso e lacrime degli uomini e delle donne. Le sue mani, poi, sanano i malati, accarezzano gli emarginati, non temono di sporcarsi con le lebbre di ogni genere. La semplicità del suo linguaggio e della sua azione attinge all'essenzialità della verità e dell'amore e questa semplicità è sinonimo di grandezza. È la grandezza dell'essenzialità che la Chiesa deve saper ritrovare nel suo comunicare, senza temere di inoltrarsi sulle strade informatiche, telematiche e digitali per annunciare il suo messaggio. È quella grandezza semplice che deve pervadere la compassione amorosa, l'operare ecclesiale nella storia, sapendo – col realismo della ragione e l'ottimismo della fede – che l'approdo ultimo non è il baratro del nulla, ma è la risurrezione.

Gianfranco Ravasi - Domenica Il Sole 24ore


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