sabato 22 agosto 2015

il capitale umano è un bene pubblico (ma non da noi)

Non passa convegno in Italia senza che qualche relatore non ripeta il mantra che la risorsa umana è il vero asset strategico per le imprese o che risuoni la retorica del capitale umano come fattore competitivo. Salvo poi rientrare nella quotidianità dei comportamenti aziendali e scoprire che gli investimenti formativi stagnano, attestandosi complessivamente su un modesto 0,5 per cento del fatturato o che alle assemblee nessuno discuta sui metodi con cui vengono ricompensati i manager (vedi la Relazione sulla remunerazione che nessuno si occupa di dibattere).Tutto ciò è sicuramente uno specchio dei tempi. 
Il recente trentennio di dittatura della finanza e del pensiero unico, secondo cui l?impresa avrebbe come unica missione il valore economico per gli azionisti, ha lasciato un forte strascico, spodestando dal podio delle priorità altre missioni che fossero altrettanto cruciali, proprio come la rilevanza della risorsa umana. E gli otto anni della crisi globale hanno fatto il resto, privilegiando ristrutturazioni e outplacement e spingendo le aziende ad asciugare il proprio organico, a strizzare il più possibile le competenze delle persone senza compensare con nuova educazione, a bloccare gli ingressi e l?affermazione di nuove generazioni e di nuova linfa vitale. Di fatto, rovesciando sulla società una serie di esternalità, in cambio di un nuovo assetto più agile e flessibile (nel breve termine). 
Che le Direzioni del personale non debbano essere necessariamente condannate al mero ridimensionamento di organico lo dimostra un esempio che viene dagli Stati Uniti. Nelle scorse settimane, Starbucks ha lanciato il College Achievement Plan, un progetto attraverso cui il gruppo guidato da Howard Schultz offre il pagamento o rimborso delle spese universitarie a tutti i propri partners (così Starbucks chiama i propri dipendenti ) a tempo pieno o parziale. Oltre 140 mila lavoratori possono scegliere liberamente tra oltre 50 corsi di laurea offerti da Arizona State University, una delle scuole leader al mondo nella online education. 
Tale investimento non ha vincoli, tant?è che Starbucks esplicitamente prevede che i propri dipendenti possano poi cambiare impiego e datore di lavoro senza alcuna penalizzazione. Starbucks sa che più del 70 per cento dei propri giovani dipendenti aspira a laurearsi e ha deciso di aiutarli.Decisioni come quelle di Starbucks non si spiegano in termini di ottimizzazione dei costi o di convenienza di bilancio, né in termini di interventi per innalzare la motivazione. 
Ciò che Schultz sembra voler trasmettere è che il capitale umano e il lavoro sono, alla fin fine, una sorta di bene pubblico, un «common» che non può essere gestito senza considerare e valutare le conseguenze successive alla conclusione di qualsiasi rapporto di lavoro. Per cui è responsabilità delle imprese e dei loro gruppi dirigenti far sì che le persone rimangano impiegabili lungo tutto l?arco della vita professionale.
Che le politiche di gestione delle risorse umane debbano essere ripensate in un?ottica più ampia da parte del management aziendale è dimostrato anche da uno choccante studio di Jeffrey Pfeffer, docente a Stanford, che stima quali siano i costi sociali associati a decisioni ricorrenti riguardanti i dipendenti. Secondo i risultati della ricerca, prassi aziendali che implicano il lavoro precario, l?esposizione a turni o a orari di lavoro particolarmente lunghi, lo svolgimento di mansioni senza autonomia o usuranti, l?incompatibilità tra lavoro e famiglia, il fatto di lavorare in un?organizzazione iniqua e che non dà supporto sociale, generano costi per la collettività superiori a 100 miliardi di dollari e un numero di decessi superiore a 100 mila unità. Lo studio si riferisce agli Usa, ma, fatte le debite proporzioni, le medesime conseguenze sarebbero probabilmente riscontrabili in tutto il mondo industrializzato, Italia inclusa.
La magnitudo di questi dati pone una sfida epocale: occorre rendere possibili logiche di gestione delle persone che non generino, per le altre imprese e la società, una vera e propria «tassa occulta». La prospettiva di concentrarsi solo sulla generazione di valore per gli azionisti è dunque miope, perché le ricadute negative di scelte aziendali apparentemente ottimizzanti riguardo alla redditività economica hanno invece impatti e costi sociali che non solo l'ambiente esterno è costretto a sopportare, ma che, in ultima analisi, rappresentano un onere indiretto anche per le stesse imprese.
Quando il mercato del lavoro ha regole «deboli» e le sue istituzioni sono «sottili», manager e imprenditori sono agenti sia degli azionisti che della società. Essi hanno la responsabilità di contribuire a mantenere le condizioni di sostenibilità ed eventualmente generarle o rigenerarle, in modo tale da garantire la legittimazione sociale dell?impresa capitalistica. E, come ben dimostrano il caso Starbucks e la ricerca del professor Pfeffer, devono farlo anche se ciò va a decurtare la potenziale performance economico-finanziaria e il ritorno del capitale dei proprietari delle azioni.

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