“Se i cittadini continuano a rinchiudersi sempre più in piccoli circoli di interessi futili intrattenendosi di continuo in questi, c’è il pericolo che finiscano per rimanere esclusi da quelle grandi e potenti emozioni pubbliche che turbano sì le persone, ma che le fanno anche crescere e le rinfrescano. Non posso che temere che gli uomini raggiungano un punto in cui considerano ogni nuova teoria un pericolo, ogni innovazione un guaio, ogni miglioramento sociale come un passo verso la rivoluzione, e che possano del tutto rifiutare di muoversi per la paura di non riuscire a rimanere in piedi”.
Alexis de Tocqueville
“Democrazia in America”, volume due
“Democrazia in America”, volume due
L’attrazione gravitazionale del sole permette ai pianeti di restare nella loro orbita: la gravità dal centro garantisce la coerenza di tutto il sistema solare. E’ così che funziona pure il nostro sistema politico e sociale, scrive sul New York Times l’editorialista conservatore David Brooks. Anzi, è così che funzionava: ora non più. “Molti dei grandi soli del nostro mondo mancano di convinzione – spiega Brooks – mentre le fazioni ai margini della società sono piene di intensità e passione. Così l’attrazione gravitazionale proviene dai margini, si sviluppa sfera dopo sfera. Ogni establishment centrale, indebolito dalla propria vuotezza di significato, viene fatto a pezzi dall’attrazione gravitazionale delle periferie”. E’ il disordine mondiale o, secondo la definizione dello studioso Ian Bremmer, il mondo “G-zero”: c’è un vuoto di potere nella politica internazionale creata dal declino dell’influenza occidentale e dal ripiegamento sugli interessi nazionali da parte di molti stati sviluppati. Ci siamo riempiti di G-qualcosa, ancora utilizziamo il club del G8 come un sistema di misurazione delle interazioni internazionali e non ci accorgiamo che abbiamo isolato la Russia dai consessi dell’ormai G7, salvo poi doverci accordare con Mosca su tutto, compreso lo spazio aereo siriano, per evitare quegli “spiacevoli incidenti” che farebbero crollare ogni collaborazione con l’occidente. Senza centro, emergono le periferie, o “gli outsider”, come li chiama Brooks.
Il vuoto è il grande protagonista del nostro tempo. C’è un vuoto di leadership, ben testimoniato da quel che accade in medio oriente e soprattutto nella crisi siriana – laddove il vuoto occidentale è stato riempito da un lato dallo Stato islamico jihadista e dalla sua conquista territoriale e dall’altro dall’alleanza anti occidentale formata dai russi, dagli iraniani e dal regime di Damasco – e c’è un vuoto di significato che ha creato quel che Joshua Mitchell ha definito, in un saggio su National Interest, la “Age of Exhaustion”, l’età dello sfinimento.
Siamo vuoti e sfiniti: sembra il racconto di un matrimonio andato male, in cui hanno vinto gli egoismi, il disinteresse, il silenzio, l’incomprensione, la partita di calcetto piuttosto che una serata in famiglia sul divano a guardare un film per ragazzi con i pop corn spiaccicati tra i cuscini. Nelle relazioni internazionali, come nei matrimoni, il vuoto non dura troppo a lungo, soprattutto quando non resta a livello superficiale, ma diventa intimo, emozionale, quasi spirituale: “L’occidente – come scrive Brooks – non ha risposto alle sfide rischiando tutto per difendere la propria visione, combattendo il fanatismo con gusto. Al contrario, ha perso fiducia nelle proprie capacità di comprensione e di azione. Percependo questa perdita di fiducia al centro, molte persone ben determinate ai margini hanno fatto un passo avanti per prendere il controllo della situazione”. Non c’è soltanto il sostanziale disimpegno – disinteresse – del presidente Barack Obama nei confronti del mondo: la maggior parte dell’establishment americano ha perso la convinzione di poter restaurare un ordine globale, e non pensa di poter giocare un ruolo da attore globale con la stessa efficacia del passato (non vale per tutti gli americani allo stesso modo: basta ascoltare il candidato repubblicano Marco Rubio, per esempio, e il piagnisteo declinista risulta un rumore di sottofondo appena fastidioso).
Brooks ricostruisce l’indebolimento spirituale dell’occidente: “Dal 2000, la visione del mondo post Guerra fredda ha subìto un colpo via l’altro. Alcuni di questi colpi ce li siamo inflitti da soli. La democrazia, soprattutto negli Stati Uniti, è diventata disfunzionale. La stupidità di massa ha portato a un collasso finanziario e ha privato il capitalismo del suo slancio morale”. Così molti hanno iniziato a rifiutare la visione democratica del capitalismo, costruita attorno “alla felicità individuale e al materialismo”, e hanno cercato nuove forme di significato nelle logiche tribali, nazionalistiche, o in altre ideologie più forti e più brutali. “Un gruppo di uomini ben istruiti ha tirato giù il World Trade Center – scrive Brooks – I fanatici sono fioccati in medio oriente per decapitare stranieri e apostati. La crescita dell’influenza cinese non ha generato un ammorbidimento, ma anzi in alcune aree ha portato a una rinnovata belligeranza nazionalistica. L’Iran è sempre devoto alla sua escatologia radicale. La Russia è guidata da un gangster dallo sguardo di ghiaccio, con una visione semi teologica del destino nazionale, che approfitta di ogni occasione per indebolire l’ordine mondiale”.
E noi? Sfiniti. Nel momento in cui dovrebbe essere ancora più forte, e convinta, la capacità occidentale di dare una forma al mondo, siamo presi dalla spossatezza. “Exhaustion” è il termine che usa Joshua Mitchell, professore di Gorgetown gran studioso di Tocqueville, per indicare la nostra epoca, il risultato della “mutazione trionfalistica” del liberalismo e della risposta antiliberale incarnata dalle politiche identitarie e nazionaliste. Dopo tanto combattere, il centro gravitazionale è esausto, e come spiega Brooks non si tratta di una stanchezza contingente, ma di una stanchezza morale.
Secondo Mitchell, anche Tocqueville aveva compreso che se la transizione a modelli sociali democratici è sempre tumultuosa, una volta che si è assestata emergono nuovi problemi: i cittadini perdono la fiducia nella libertà e non combattono più per difenderla. Se vale la metafora del matrimonio: è il momento in cui dai tutto per scontato. “Il grande sfinimento” si presenta sotto molte forme. Nelle nostre scuole, si tende a dare sempre voti alti perché così i ragazzini si sentono motivati e non subiscono il trauma del fallimento – se “ci sentiamo bene con noi stessi, non è forse sufficiente? “Cercare noi stessi” – scrive Mitchell – diventa più importante che “costruire un mondo”: ci hanno già pensato le generazioni precedenti a farlo, noi ora possiamo occuparci d’altro. Non si tratta del solito conflitto generazionale per cui oggi non ci sono più “builder” visionari come nel passato perché siamo tutti troppo occupati a cercare l’inquadratura migliore per il selfie da postare su Instagram. Non si tratta nemmeno o non soltanto del ventre molle occidentale che preferisce adattarsi ai valori altrui piuttosto che difendere i propri. E’ che spesso manca la convinzione. Un altro esempio: nei giochi dei bambini, tutti prendono un premio. “La grande e irrisolvibile tensione interna alla democrazia – tra l’uguaglianza permanente cui ambisce la democrazia e le ineguaglianze transitorie del successo o del fallimento che permettono al mercato di migliorare – è stata risolta a favore dell’uguaglianza”: tutti prendono un premio perché così nessuno si sente ferito, o inferiore, o fallito.
Mitchell scrive che “abbiamo risolto il problema della scarsezza delle risorse soltanto redistribuendo la ricchezza che abbiamo già prodotto. Marx diceva che la rivoluzione era necessaria per mettere fine all’alienazione e alla scarsezza. Ma questo è troppo difficile: siamo tutti borghesi socialisti, adesso. Nietzsche pure è troppo difficile da sostenere: diceva che la sofferenza è parte sostanziale dell’esistenza, ma nell’èra del grande sfinimento la sofferenza invece è contro la vita e bisogna sradicarla”. Quando si è esausti, si deve edulcorare la realtà, sfruttarla a proprio vantaggio, certo non rivoluzionarla, ma nemmeno troppo cambiarla.
Anche le parole che utilizziamo nel tempo della stanchezza sono diverse dal passato: i cittadini sono diventati “the folks” (termine usatissimo da Obama), e gli alleati non sono più alleati, nella politica internazionale: sono “partner”. Le alleanze presuppongono un mondo pericoloso nel quale la guerra inevitabilmente accadrà, anche se non sappiamo quando: si formano alleanze per difendersi o per difendere altri paesi. “Le alleanze – scrive Mitchell – indicano che il sangue e il patrimonio di un paese saranno sacrificati in nome di interessi altrui, richiedono una dimostrazione costante di buona volontà, di trattamenti preferenziali, e di continue prove del fatto che se un problema ci sarà, l’alleanza sarà pronta a farsi valere”. Ma oggi le guerre si evitano a ogni costo, cosa in sé non deprecabile, naturalmente, ma si sa che quando si toglie dal tavolo l’opzione dello scontro non si può che abituarsi ai compromessi. Siamo arrivati al punto di non rispettare linee rosse autoimposte (sono linee rosse che hanno cucito insieme il nostro mondo, dovrebbero valere e basta, anche se qualcuno non le ricorda), e quindi le alleanze diventano partnership. Il legame è più lasco: ci sono per te, ma non sempre e ad alcune condizioni.
In medio oriente la metamorfosi è evidente. Archiviato l’asse del male, considerato dall’opinione pubblica come il più grande errore commesso dalla leadership americana negli anni Duemila, le partnership sono diventate più fluide: sempre per restare in ambito matrimoniale, è il concetto di “coppia aperta”. Così gli americani collaborano di fatto con gli iraniani a terra in Iraq ma chiedono al principale alleato dell’Iran nella regione, il rais siriano Bashar el Assad, di lasciare il palazzo di Damasco. E allo stesso tempo gli americani collaborano in Yemen con i sauditi che combattono contro un’alleanza di ispirazione iraniana.
Nell’epoca dello sfinimento, non ci sono né grandi amori né grandi odi, così non soltanto le alleanze sono obsolete: lo sono anche i nemici. “Quando non ci sono nemici – scrive Mitchell – non c’è bisogno di incoraggiare i dissidenti nei regimi che hanno esplicitamente dichiarato noi come nostri nemici”. Noi non abbiamo nemici, ma siamo i nemici – dichiarati, esplicitati, chiarissimi: ce lo dicono appena possono che vorrebbero ucciderci tutti – per quegli “outsider” che stanno usurpando il nostro centro gravitazionale. Ma senza nemici, non esiste nemmeno la politica internazionale – è per questo che Obama non ha avuto bisogno di elaborare una dottrina per il mondo e si è accontentato di fare del buon senso il suo faro. “Don’t do stupid shit”, disse nel 2014 durante un viaggio in Asia dopo aver parlato a lungo con i giornalisti e rispondendo alla sua stessa domanda: “Allora, che cos’è la mia politica estera?”. Come ha scritto su Foreign Policy David Rothkopf, siamo passati dall’audacia della speranza, dal cambiamento ottimista di “yes we can”, ai reset e ai pivot – il reset con la Russia non è andato benissimo, il pivot con l’Asia forse peggio – e infine al manuale del “non infilare le dita nelle prese elettriche”.
Non c’è nulla di più sfinente del pragmatismo cinico di cui ha dato prova l’America di Obama. Gli esperti producono tabelle e dati di ogni genere per dimostrare quando e come arriverà il gran sorpasso della leadership americana, prevedibilmente da parte della Cina, ma se l’influenza culturale americana nel mondo è e sarà difficile da soppiantare (qui non si è declinisti per nulla), di certo l’assenza di un centro gravitazionale univoco e riconoscibile ha generato grande confusione. Quando si è stanchi, perché si devono portare fardelli così opprimenti come l’ordine mondiale? “Nell’èra dello sfinimento – scrive Mitchell – il compito di plasmare le priorità globali che era stato dei britannici prima e degli americani poi non deve più ricadere su nessuno: il presupposto è che la storia in sé cada dalla parte della pace; che gli alleati e i nemici sono categorie antiquate; che il peso della leadership può essere condiviso o preferibilmente schivato; e che una mano tesa e una dichiarazione di scuse da parte dell’America possano dare quella spintarella che la storia ha bisogno per arrivare alla pace mondiale”.
Il paradosso finale, secondo Mitchell, è questo: nel mondo liberale, la libertà “che ci ha portato nella direzione sbagliata e che costituisce un peso troppo grande da sopportare” finisce per essere ripudiata. Negli affari internazionali, il fine politico è di agire in nome della “necessità planetaria” che è evitare il cambiamento climatico catastrofico; negli affari interni, è quello di muoversi restando ancorati alle categorie identitarie. Così i siriani in fuga dal regime e dalla furia jihadista arrivano nella nostra Europa gridando libertà, ringraziandoci perché esistiamo, perché siamo fatti come siamo fatti, ci ricordano che il centro gravitazionale del sistema mondo siamo sempre noi. Ma noi siamo esausti, e non li guardiamo neppure.
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