martedì 3 marzo 2009

Il 2 per cento del Pil finisce nella pattumiera Ma c’è un modo per evitarlo

DI GIAMPAOLO FABRIS su Affari & Finanza del 2 marzo 2009
In periodi di congiuntura tanto difficile la lotta allo spreco diviene assolutamente prioritaria. Spreco significa infatti distruzione di risorse senza che sia nessuno a trarne vantaggio proprio quando, in momenti come l’attuale, dovrebbero essere invece valorizzate al massimo. Di tutte le forma di spreco quella alimentare è quella più imbarazzante. Anche per i significati culturali e simbolici del cibo. Si calcola è una valutazione abbastanza attendibile perché in molti Paesi il controllo delle immondizie è un codificato, anche se maleodorante, strumento di ricerca di mercato (dusbin check) – che circa un quinto della spesa alimentare finisca nelle immondizie. Una media di circa 600 euro annue per famiglia. Un dato davvero impressionate: pari al 2% del Pil. Uno spreco per via di confezioni scadute, acquisti in eccesso, deterioramento del fresco cui certamente contribuisce l’abitudine di fare la spesa una volta la settimana. La contrazione nella spesa alimentare registrata nell’ultimo anno è anche dovuta ad una forte riduzione degli sprechi domestici: in questi casi un effetto virtuoso della crisi in atto.Gli sprechi sono ancora più patologici e davvero incomprensibili nel settore della distribuzione. Laddove le eccedenze di cibo destinate ad essere gettate via sono ingentissime: perché si approssima la data di scadenza o perché stanno per deteriorarsi. Alimenti ancora commestibili: la data di scadenza è imposta dalla legge ma non è che il giorno dopo non siano più edibili, semplicemente non possono essere più venduti. Un esempio per tutti: nei giorni immediatamente successivi alla data di scadenza uno yogurt non diviene non commestibile, perde soltanto una parte del suo patrimonio di fermenti lattici. Capita così, per una miope lettura della normativa, che volumi davvero impressionanti di cibo vengano, cinicamente e colpevolmente, dirottati verso gli inceneritori. Sarebbe sufficiente l’indicazione di due diverse date di scadenza – una per chi vende, una per il consumatore – per arginare il fenomeno. Un impiego che va diffondendosi è la trasformazione di alimenti scaduti in mangimi per animali, soprattutto suini, o in biocarburanti. Certo meglio che niente, almeno lo spreco non è totale. Da poco si è aperto un canale di vendita per questi prodotti su Internet ma forse il rimedio è peggiore del male perché non si ha nessuna garanzia sulla non nocività dei prodotti, nessuna protezione per il consumatore. Eppure l’estensione di una pratica, ancora limitata ma di grande rilievo, consentirebbe una reale soluzione del problema. Nel senso di ovviare allo spreco e di aprire un canale privilegiato per gli strati meno abbienti della popolazione. Può darsi che esistano esperienze simili (fra queste certamente il Banco Alimentare) in Italia. Quella davvero esemplare, a cui faccio riferimento, è stata promossa da qualche anno da Andrea Segre preside della Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna. Segre è un intellettuale scomodo, certamente un professore universitario atipico: ricordo le sue analisi, e denunce, su dove andavano a finire i soldi degli aiuti pubblici allo sviluppo. Il suo punto di partenza è stato proprio la dissipazione di un capitale tanto importante. La consapevolezza della diffusa realtà della distruzione di cibi "rapidamente deperibili dal punto di vista microbiologico e che possono costituire un pericolo per la salute" (come recita la legge sull’etichettatura) prima però che ciò avvenga, anche se la data è scaduta. Segre ha iniziato dieci anni fa con la sua città a fare da trait d’union tra i supermercati e gli enti di volontariato e di assistenza. Consentendo a questi di essere tempestivamente informati sulla disponibilità di alimenti altrimenti destinati alla discarica, di ritirarli e di consegnarli ai propri assistiti. Per i prodotti freschi il processo si conclude in poche ore. Segre è così riuscito a realizzare oltre 500 mila pasti in un anno per i meno abbienti. Questa esperienza, iniziata in sordina, è oggi presente in 14 città italiane, estesa anche a canali diversi dalla grande distribuzione (ad esempio singoli negozi), ed a tipologie di beni diversi dall’alimentare. Sembra l’uovo di Colombo ma sono stati raggiunti due obiettivi di grande rilievo: uno stop a uno spreco davvero vergognoso e la redistribuzione del cibo a segmenti bisognosi.

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