lunedì 6 settembre 2010

La civiltà dell'empatia

di Jeremy Rifkin, Mondadori, Milano 2010



“Il processo di globalizzazione ha avuto effetti tanto vantaggiosi, quanto nefasti [...] Intanto il sistema nervoso della razza umana ha cominciato ad avviluppare la terra” 




Ci hanno detto che la vita è lotta. Votata alla competizione. Che vince il più forte, quello più capace di imporsi. “Homo homini lupus”, ci hanno detto che lo stato di natura era una guerra di tutti contro tutti, dove è fondamentale curare, tutelare e proteggere i propri confini. Dagli altri. Ci hanno detto che l’uomo è pura razionalità. Quanto c’è di vero? Gli altri sono davvero così pericolosi? Vale ancora il “cogito ergo sum”? O ci stiamo avvalendo di modelli ormai inattuali?
Studi scientifici biologici e neurocognitivi hanno dimostrato che l’uomo non nasce per natura cattivo. Anzi, nasce pronto a condividere, a sentire e ad immedesimarsi nello stato d’animo di altri uomini, a compartecipare con i propri simili. 
Proprio sulla scorta di queste recenti scoperte, l’economista e guru della green economy Jeremy Rifkin offre la sua ricostruzione storica e sociologica della società attraverso l’affermarsi dell’empatia nell’uomo, in movimenti non sempre fluidi, antitetici a quelli dell’entropia: “Pur colmo di ironia, lo sviluppo della coscienza empatica è stato reso possibile solo da un consumo sempre maggiore di energia e risorse naturali, che ha condotto a un drastico deterioramento della salute del pianeta”.
Nella civiltà dell’empatia ci sono inediti strumenti di condivisione e di interconnessione, che Rifkin ravvisa come la vera forza e il vero motore della Terza Rivoluzione Industriale, che porterà al superamento delle crisi.
La convergenza tra le nuove tecnologie e le energie rinnovabili ridiede proprio nella diffusione e della condivisione. Twitter, Facebook, Wikipedia e le diverse applicazioni di Internet in genere sono nate dal basso, con sistemi basati sulla diffusione, sulla condivisione, sulla partecipazione, sull’annullamento delle distanze. E allora perché non applicare questo modello anche alle fonti rinnovabili? Secondo l’autore ogni casa diventerà una piccola centrale produttrice di energia attraverso il sole, il vento, il calore, l’immondizia. Il surplus non consumato dalla singola abitazione verrà messo a disposizione e condiviso secondo il modello di sharing tanto caro a Internet. Anche in campo energetico avrà successo il modello della “politica della biosfera”, che al contrario della geopolitica “si fonda sull’idea che la terra è come un organismo vivente, fatto di relazioni interdipendenti, e che ciascuno di noi può sopravvivere solo mettendosi al servizio della più vasta comunità di cui fa parte”.
Un saggio lucido e interessante, che con stile divulgativo offre un’osservazione storico-psicologica e culturale della nostra società, con frequenti richiami alla vita sociale di tutti i giorni. Il vero pregio di questo libro (librone, sono 570 pagine) è di fare sentire protagonisti, chiamati in causa, volenti o nolenti nel salvare la terra: “a un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini, non sono diverse dalle nostre”. La domanda finale è questa: “possiamo raggiungere l’empatia globale in tempo utile per evitare il crollo della civiltà e salvare la terra?". Possiamo?


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