Uscire dagli schemi e innovare spiazzando gli altri Dalla tecnologia alla politica, chi la esalta e chi la teme.
Gli approcci Il dibattito in Europa e negli Stati Uniti, dove alimenta l'orgoglio nazionale.
Una delle battute più divertenti contenute nella sceneggiatura del film-biografia Steve Jobs (uscirà dopo l'estate, protagonista Michael Fassbender) è una profezia: nel 1998 il fondatore della Apple vede la figlia incollata a un Walkman e le consiglia di godersi il mangianastri portatile perché sta per essere spazzato via. Lisa Jobs non sa ? noi spettatori sì ? che papà Steve ha già in mente l'iPod, che uscirà tre anni dopo con dentro duemila canzoni in formato digitale contro le dieci o dodici del Walkman.
Jobs e la sua azienda sono l?esempio di quello che gli americani chiamano l'essere «disruptive», la capacità di innovare attraverso la distruzione creativa dell'esistente per creare nuovo valore. «Rottamare», diremmo in Italia (vedi la forza innovativa del primo Renzi e il disagio che creò al sistema politico). E nella nostra lingua c'è a partire dal vocabolo un?accezione spiacevole che nella versione inglese manca.La tecnologia continua a essere profondamente «disruptive»: suscitando grande orgoglio nazionale per gli americani (non è questione di soft power ma di fatturato: nella top ten delle aziende più capitalizzate ci sono Apple, fondata nel 1976, Microsoft, nata nel 1975, e Google, 1998). Quando internet era ancora acerbo e i cellulari telefonavano e basta, nel 1997, un economista americano somigliantissimo a Clark Kent prima di trasformarsi in Superman nella cabina telefonica (classico esempio di tecnologia rottamata da una novità «disruptive»), il professor Clayton M. Christensen della Harvard Business School, ha cominciato a analizzare il fenomeno dell'innovazione tecnologica.
Con una serie di libri diventati subito di riferimento ha formulato una teoria generale di quella che ha battezzato «disruptive innovation»: un prodotto o un servizio che inizialmente parte dal basso per crescere velocemente spiazzando la concorrenza che fino a poco prima aveva dominato (vedi box). L'esempio più banale è quello del personal computer: le potentissime aziende tecnologiche del primo dopoguerra avevano computer enormi, costosissimi, per pochissimi utenti istituzionali che garantivano margini molto alti e mercato chiuso. Si resero così vulnerabili all'innovazione di computer pensati per un pubblico più vasto e più «basso», personali, non più aziendali. Inventati in garage e prodotti da aziende più agili. Altro ovvio esempio: i piccoli cellulari che sconfiggono la telefonia fissa dei monopoli. E allora diventa un po' sterile chiedersi, come faceva ieri sul sito del New York Times il giornalista finanziario James B. Stewart nel suo blog, come mai l'innovazione dirompente che rottama lo status quo entusiasma gli americani e spaventa noi europei.
Perché Stewart ha chiesto lumi a Petra Moser, economista tedesca di Stanford, che ha parlato dei timori europei (fondati) d'essere rimasti indietro. «Stanno cercando di ricreare la Silicon Valley in posti come Monaco, finora con poco successo», per motivi culturali e istituzionali. Eppure, seguendo la «curva» di Christensen ? la rottamazione che parte dal basso e allarga la base di utenti di un prodotto esclusivo ? non si può non pensare ai punti deboli dei giganti che dominano in un dato momento storico. Non si può non pensare ai ragazzi «disruptive» di Wikileaks: hanno preso un «prodotto» esclusivo e con margini altissimi ? le informazioni riservate del Pentagono e della Cia ? e le hanno fornite con rapidità e convenienza a una base vastissima di utenti. Loro stanno a Berlino, Julian Assange in territorio ecuadoregno a Londra, Edward Snowden in Russia: dall'altra parte del mondo rispetto alla Silicon Valley e al suo business dominante (fino a quando ?) della rottamazione.
Persivale Matteo
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