lunedì 19 gennaio 2009

Friggione, vino e piadina nella storia delle osterie

Si può dire che non ci sono più, sono scomparse per lasciare posto alla loro mutazione: i bar, i caffè, i pub, ristoranti. Le osterie erano l’espressione della civiltà mediterranea, di una civiltà contadina che aveva tempi scanditi dalle stagioni e scorreva lenta con esse, sempre e comunque legato alla terra di cui quasi tutti vivevano. Da cui il vino che non era l’unicum delle osterie, sebbene ne fosse il maggior richiamo, perché servito in maggioranza e in diverse qualità in base alla capacità di spesa degli avventori. Erano luoghi consoni al modo di vivere della maggioranza della popolazione – maschile e adulta - di un tempo, in verità gli unici luoghi di ritrovo e di svago, l’altro era rappresentato dalle chiese. Nei giorni di mercato divenivano posti in cui le persone, i mercanti, i sensali, che venivano “da fuori” potevano mangiare piatti sostanziosi tipici della nostra tradizione (piada fritta, stufati, friggioni, pancetta, carne di maiale e altro), oppure sedersi consumando il pasto portato da casa sfruttando l’osteria solo per la mescita. Mangiare in osteria comunque non era “di moda” o un vezzo, ma lo si faceva per necessità, normalmente perché ci si trovava troppo lontano da casa per farvi ritorno o perché si doveva essere sempre disponibili (come succedeva per i facchini). Le osterie offrivano anche alloggio, naturalmente ci si accontentava, nelle stanze capitava di dormire anche con degli sconosciuti, a volte lo stanzone ove si mangiava e beveva, sgombrato degli ultimi clienti, si trasformava in dormitorio collettivo. Oggi paiono situazioni impossibili, ma allora la vita non concedeva a tanti cose che a noi paiono scontate. Naturalmente non erano luoghi per educande, il linguaggio non era certo castigato, la bestemmia pronta, ma con basso numero di risse, prontamente sedate, perché ci si conosceva tutti. In questi ritrovi nascevano anche le “compagnie” o “ditte” che finivano poi per ritrovarsi anche fuori a organizzare gite e feste, ma non solo. Si diventava così riconosciuti e di un tale si diceva che “batteva” una data osteria, significando che la frequentava abitualmente. In generale ci si trovava per giocare a carte, per concludere qualche affare e per discutere, spesso di politica. E’ innegabile che come ritrovi e centri di raccolta della popolazione meno abbiente e istruita, in esse si raccoglievano e diffondevano le notizie di cronaca politica locale, in gran parte, ma anche nazionali. Non per niente, soprattutto in Romagna, il partito repubblicano, nato come partito di azione rivoluzionaria, aveva posto nelle osterie di città le proprie sezioni e i propri circoli. E si portavano a comiziare anche illustri esponenti di quel partito. E non è certo un caso che la fine delle osterie, di fatto, coincida con la presa del potere da parte del fascismo. Dal 1800 al 1930, sono state sempre considerate covi di rivoluzionari e di sovversivi, pertanto controllati e perseguiti nel tempo dai poteri costituitisi nel nostro Paese. Del resto è indiscutibile la loro funzione politica, soprattutto nei nostri territori, come fucine in cui si seminavano i grani dell’anarchia e della democrazia. A Imola, come penso sia noto a molti, l’unica vera osteria che rimane di quelle “storiche” è quella chiamata e’Parlamintè (il parlamentino), perché Andrea Costa, padre del Socialismo italiano – nato prima come anarchico - e ispiratore delle società di mutuo soccorso, allorché divenuto deputato, aveva la consuetudine di ritrovarsi in questo luogo per presentare gli avvenimenti salienti discussi, appunto, in Parlamento e commentarli creando così una sorte di piccolo parlamentino. Quest’osteria mantenne la tradizione anche negli anni successivi tant’è che forse pochi sanno che il cortiletto interno in cui si può mangiare in estate, era “la via di fuga” utilizzata per scappare durante le retate fasciste. Confesso che entro sempre con piacere in quest’osteria in cui fa bella mostra il ritratto di Andrea Costa e dove mi ritrovo a immaginare il luogo allora e, a momenti, mi pare di coglierne dei frammenti quasi che i muri potessero ancora trasmettere sensazioni. Il merito va anche ai gestori attuali, la Marta in particolare, che hanno mantenuto presenza di alcuni simboli e testimoniano, loro stessi, una continuità “spirituale” del luogo. Aiuta la frequentazione dell’osteria anche l’ottima cucina che la famiglia è in grado di esprimere, con una presenza importante di piatti della nostra tradizione molto curati a cui si aggiungono alcune pietanze “storiche” di origine bretone-normanna, lascito di una presenza, anni addietro, in cucina di una cuoca originaria di quei luoghi.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 18 gennaio 2009

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