lunedì 12 gennaio 2015

I makers sono gli artigiani del Rinascimento digitale

(Piero Fissore, Flickr/CC)
(Piero Fissore, Flickr/CC)
Due anni fa avevo scritto sulle pagine cartacee di Wired degli artigiani del digitale, al secolo i makers. La previsione della loro importanza si è rivelata azzeccata e per questo vale la pena riprendere il tema.
Il modello produttivo italiano (pmi, strutture distrettuali a rete, forte presenza della cultura artigiana) non è un’anomalia, ma anzi possiamo dire che anticipa i modelli organizzativi ed imprenditoriali del XXI secolo. Questo modello è inoltre molto “coerente” con gli sviluppi organizzativi suggeriti dalla digital economy (economie di rete, social networking, 2.0). La vera anomalia è quindi il fatto che queste imprese e aggregazioni di imprese abbiano una bassa adozione delle tecnologie digitali.
Bisogna dunque ridare centralità alla cultura artigiana e coglierne la dimensione di grande contemporaneità. Claude Lèvy-Strauss sosteneva infatti che l’artigiano fosse “il principe degli innovatori”.
Oltretutto i concetti di artigianato e di digitale – a lungo considerati distanti, se non incompatibili – sono invece fortemente collegati e lo sono doppiamente. Innanzitutto come processo produttivo: sviluppare una soluzione software, un’app, un’interfaccia digitale, un modello 3D di un luogo non è certamente un processo industriale che può essere standardizzato e automatizzato. Ma ance il loro utilizzo richiede personalizzazione e adattamenti tipici degli artefatti artigiani. Non si tratta inserire nei contesti organizzativi soluzioni digitali che impongano metodi e comportamenti standard – che sarebbero deleteri nel mondo e delle imprese, togliendo diversità, dinamicità e  in ultima istanza competitività – quanto piuttosto di adattare una “cassetta di attrezzi” a uno specifico contesto, bilanciando correttamente buone pratiche consolidate con specificità individuali.
Nel se-durre (che non vuol dire semplicemente condurre verso una direzione prestabilita) sta il segreto dell’artigianato digitale. La materia digitale non è inerte, ma anzi è quasi magica e – come noto – può vivere di vita propria e andare spesso verso direzioni non previste (né volute) dai suoi progettisti. Pertanto l’artigianodigitale deve sedurre (e talvolta anche sedare) le infinte potenzialità della materia digitale e applicarle a un contesto sempre diverso e sempre cangiante, ma con molti elementi ricorrenti e persistenti. Il suo rapporto con la diversità è di com-prensione: la diversità è un elemento distintivo da valorizzare e non una imperfezione, un difetto da eliminare sfuggito dal controllo di qualità costruito a tavolino da qualche ingegnere della produzione che non è mai uscito dai suoi uffici per osservare la vita reale delle imprese.
Il movimento dell’open source, la parallela standardizzazione delle interfacce e l’esplosione delle tecnologie “digitali” di fabbricazioni (dai laser cutter a controllo digitale fino alle varie forme di stampanti 3D) ha creato un vero e proprio boom di “materia prima digitale” a elevate prestazioni e costi particolarmente contenuti su cui l’artigiano può esercitare le sue attività di adattamento e personalizzazione e quindi sedurne la forma, per citare un’altra espressione che Lévy-Strauss utilizza per descrivere l’attività dell’artigiano.  Possono essere routine software riutilizzabili, modelli 3D di oggetti stampabili o semplici immagini da includere in presentazioni.
Un’altra interessante analogia tra la cultura artigiana e la pratica informatica è l’attività di riparazione (o “manutenzione”). In effetti fabbricare e riparare sono un tutt’uno e solo chi gestisce entrambe queste attività vede al di là delle singole componenti dell’oggetto e può coglierne la finalità complessiva e le specificità delle tecnologie utilizzate. Solo aggiustando si capisce infatti come le cose funzionano intimamente, si svela l’anima degli oggetti. Bellissimo a questo proposito un dialogo del film Hugo Cabret di Martin Scorsese – un vero e proprio inno alla cultura artigiana che ha vinto 5 Oscar. Il film narra della storia di Hugo, figlio dell’orologiaio Cabret, e della storia del cinema ai suoi esordi, dove la componente artigiana era massima. Afferma Hugo: «Ogni cosa ha uno scopo, perfino le macchine: gli orologi ti dicono l’ora, i treni ti portano nei posti, fanno quello che devono fare. Forse per questo i meccanismi rotti mi rendono triste; non possono più fare quello che dovrebbero. Forse è lo stesso con le persone: se perdi il tuo scopo, è come se fossi rotto … E questo il tuo scopo ? Aggiustare le cose ?».
Anche la crescente sensibilità ambientalista, che guarda con preoccupazione gli sprechi ed è consapevole che le risorse del nostro mondo sono limitate, richiama con forza la cultura artigiana. Il suo considerare sempre più importante il riciclo, il riutilizzo e la minimizzazione dei costi energetici – non solo quelli relativi alla produzione ma anche quelli necessari per l’estrazione delle materie prime e per il loro trasporto nei luoghi di lavorazione industriale – ridà centralità all’uso dei materiali tipici del luogo (a Km zero …) e alla cultura vernacolare di cui l’artigianato è l’espressione più autentica.
Il fine dell’artigiano non si esaurisce nella funzione che svolge e da cui trae sussistenza e prestigio, ma si lega ad un’altra caratteristica fondativa della cultura artigiana, la maestria, che rimanda ad un impulso umano primordiale: il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso, la passione e la cura per quello che si fa, la cosiddetta craftsmanship. «Good enough is not enough» usava affermare il famoso pubblicitario americano Jay Chiat. Oltretutto – come osserva Lev Manovich quando parla diassemblaggio profondo – nell’artigianato digitale ciò che viene assemblato (o meglio remixato) non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed espressione. Il digitale diventa contenuto, contenitore  e collante capace di riunire in un’unica piattaforma “fruitiva” i linguaggi del cinema, dell’animazione tradizionale e di quella computerizzata (con i suoi strabilianti effetti speciali). In questo ambiente digitale convivono i prodotti dell’infografica più innovativa con le tecniche tipografiche tradizionali, la cultura aforistica di origine sapienziale con gli emoticon e con l’esplosione delle immagini – reali, manipolate, in movimento.
Un’ultima riflessione: il fondamentale (quanto trascurato) rapporto tra la cultura artigiana e la città, anzi la Smart City. Artigianato e commercio al dettaglio – spesso intimamente uniti dal concetto di bottega (dove lo spazio della produzione si fonde con quello della vendita) – sono il cuore dell’ecosistema produttivo urbano. Per loro la città è luogo di produzione e loro devono essere i principali destinatari di molte delle innovazioni promesse dalle Smart City: pensiamo ai FabLab, agli spazi di co-working, alla rivoluzione dell’Internet delle cose (che introdurrà intelligenza e connettività anche nei manufatti artigiani), agli open data sul consumo fino alla logistica merci elettrica e a forme innovative (ad es. con i droni) per la consegna a domicilio.
Confartigianato ha correttamente messo in luce in una recente analisi sulle Smart City fatta dal suo Ufficio Studi (La città intelligente artigiana. Il contributo di Confartigianato alle città intelligenti in Italia) che gli artigiani sono nei fatti l’ultimo miglio della Smart City: dovunque ci sono reti serve chi cabla e manutiene; l’innovazione energetica richiede istallatori; la rivoluzione ICT richiede artigiani digitali. Solo nei 124 principali comuni italiani, le imprese artigiane attive nei settori associati alle Smart City sono ben 335.390. Per questo motivo – cita il rapporto – «Le MPMI artigiane si candidano a rappresentare l’ultimo miglio delle città intelligenti, il reticolo di competenze e soluzioni, tanto innovative quanto concrete, in grado di implementare rapidamente e con efficacia ogni nuova visione di governance e di servizi alle comunità urbane, garantendo al contempo diffusione capillare e contatto con i cittadini».

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