lunedì 26 gennaio 2015

L'invenzione della memoria

«Spara nelle tenebre, e anni dopo sono le tenebre a sparare di rimando». Con questa inedita metafora bellica, che evoca le trincee o i cecchini appostati tra le rovine delle città distrutte, Katja Petrowskaja, l’autrice di Forse Esther, ha offerto una perfetta rappresentazione del suo metodo di indagine storica. Nata a Kiev nel 1970, Katja Petrowskaja vive a Berlino, e ha scritto in tedesco un’appassionante cronaca familiare, che è anche un romanzo di formazione e un superbo esercizio di stile. La sua è stata una famiglia di ebrei con una particolare vocazione: l’insegnamento ai sordomuti.

Quello della scrittrice è un metodo di ricerca totale, che si avvale degli strumenti più classici (letture, interviste, sopralluoghi) come delle sorprese elargite da internet («il muro del pianto dei non credenti»). Ma il tono fondamentalmente concitato del suo libro esprime una forma di urgenza che possiamo ben comprendere. Katja Petrowskaja scrive prima che sia troppo tardi, prima che da quel buio che interroga non giunga più nemmeno un colpo di rimando.

Il fatto è che il cosiddetto «secolo breve», con tutti i suoi inauditi orrori e i suoi luminosi esempi di grandezza umana, sta perdendo uno a uno i testimoni diretti, coloro che «hanno visto con i propri occhi». In teoria, non c’è nulla di nuovo sotto il sole: ogni epoca della storia umana ha attraversato questa mutazione della memoria collettiva. Sarà venuto il giorno in cui l’ultimo soldato delle guerre puniche, un vecchio centurione carico di ricordi e di ferite, avrà chiuso per sempre gli occhi stanchi del mondo. In questi casi, è come se nella continuità del tempo si aprisse un crepaccio. Si potrebbe dire che l’evento, proprio per non perdere la sua realtà, stabilisce un diverso genere di relazione con la memoria.

Appena prima che il crepaccio diventi una voragine, la testimonianza cede la staffetta all’immaginazione. È abbastanza intuitivo che un processo così delicato non possa mai filare del tutto liscio. Ma nella storia umana non era mai accaduto che la ricerca di una verità condivisa fosse concepita e praticata in modo così drammatico. Dal genocidio degli armeni alla guerra civile spagnola, dall’assassinio di Kennedy al crollo dell’impero sovietico, non c’è documento così solido e incontrovertibile da non poter essere investito dall’ombra del dubbio. Una volta si diceva che la storia la scrivono i vincitori: era una triste massima, ma almeno corrispondeva a un principio razionale. Oggi si potrebbe dire che i più accaniti nel conquistare il privilegio di scrivere la storia siano i negatori.

Proprio mentre la tecnologia consentiva un’inaudita moltiplicazione delle prove, esse hanno finito per diventare il maggiore alimento del dubbio. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo il caso di quella ricca letteratura demenziale impegnata a svelare che l’11 settembre 2001 le Torri gemelle crollarono a causa di un complotto della Cia, o di qualche associazione segreta ebraica…

È questo il senso dell’incubo raccontato da Primo Levi nel suo ultimo libro: l’atroce destino di chi scampa ad Auschwitz per rendersi conto, col passare del tempo, che più nessuno crede a ciò che ha visto.

Strano a dirsi, ma le tecniche della letteratura, unite al talento dei singoli, hanno un grande ruolo sia, come è facilmente intuibile, nel campo dell’immaginazione, sia in quello della testimonianza. La letteratura non «abbellisce» inutilmente i discorsi umani, ma ne sperimenta in direzioni inaudite l’efficacia storica, il carattere esemplare, la memorabilità. Inoltre, il suo punto di vista è sempre quello del singolo (solo la cattiva letteratura, cioè la propaganda, fa leva su un «noi» del tutto fittizio). La verità alla quale aspira è quella che può essere ottenuta, al termine di cammini che sono spesso lungi e tortuosi, dall’individuo, sempre in lotta contro il tempo e i limiti del suo talento.

È per questo motivo che i libri di Primo Levi risulteranno sempre non certo più «veri» degli atti del processo di Norimberga, ma sicuramente più «credibili». È la loro implicita debolezza a farne la forza. Affidandosi alla concretezza del destino personale, che è irripetibile e diverso da ogni altro, anche ciò che ormai credevamo risaputo in ogni minimo dettaglio si mostra visibile da prospettive che non sospettavamo.

Da questo punto di vista, avrebbe meritato una maggiore attenzione la traduzione italiana di un libro di Marcel Cohen intitolato La scena interiore, apparso da Gallimard nel 2013. Non si tratta solo della bellezza e dell’originalità dello stile e della struttura, che ne fanno un gioiello della prosa francese contemporanea, come è stato osservato da molti recensori in patria. Un incredibile concorso di circostanze ha fatto sì che Cohen incarnasse successivamente il ruolo di testimone diretto e quello di chi, scrutando la propria stessa vita dalla distanza siderale creata dal tempo, è costretto a indagare sul passato interrogando indizi talmente esili da sfiorare l’insignificanza assoluta.

Siamo a Parigi nel 1943: lo stesso cupo scenario mirabilmente evocato da Patrick Modiano in Dora Bruder, il suo romanzo più bello. Per tutti gli ebrei che non hanno potuto abbandonarla in tempo, la città si è trasformata in una trappola. La Gestapo, con la complicità attiva del regime di Vichy e della sua polizia, pattuglia ogni quartiere, ogni strada, ogni palazzo. Basta la soffiata di un vicino di casa per finire su un convoglio destinato ad Auschwitz. Ci sono addirittura dei giornali infami, come il «Je suis partout» di Robert Brasillach, che in un’apposita rubrica rivelano indirizzi e nascondigli. I Cohen vivono la vita grama e terrorizzata di chi, per uscire di casa, deve mostrare la stella gialla cucita bene in vista sui vestiti. Sefarditi, abili commercianti, devoti ma non bigotti, vengono da Istanbul. Il più anziano in famiglia è il nonno paterno di Marcel, Mercado Cohen, rispettato come un rabbino per la sua saggezza e la profonda conoscenza del Talmud. Nel 1943 ha settantanove anni. I suoi figli cercano di convincerlo ad abbandonare la sua poltrona nell’appartamento di boulevard de Courcelles, per sfuggire ai rastrellamenti. Lui risponde che «solo i ladri e gli assassini pensano a nascondersi». Ma sembra una disputa abbastanza accademica, perché per i Cohen un posto per nascondersi non esiste.

Al capo opposto dell’anagrafe familiare c’è Monique, la sorellina minore di Marcel, nata il 14 maggio 1943 e partita per Auschwitz con il convoglio del successivo 17 dicembre. Marcel, che è nato nel 1937 e nel 1943 era un bambino di cinque anni, è l’unico scampato dei Cohen, grazie a uno di quei casi fortuiti che possono diventare l’imperscrutabile sostanza di un intero destino. La mattina in cui la sua famiglia venne catturata, era uscito con la bambinaia, che lo aveva portato a giocare al Parc Monceau, a poche decine di metri da casa.

L’uomo che a settantaquattro anni ha deciso di erigere un monumento alla sua famiglia sparita nel nulla, ha vissuto intensamente la sua vita, diventando un critico d’arte, un inviato, un romanziere. Il suo stile scarno, ancorato ai dati di fatto, non importa quanto minimi, non è semplicemente una scelta letteraria fra le tante possibili, dettata dal gusto personale. Rappresenta in maniera perfetta l’assoluta scarsità dei materiali che gli hanno permesso di affrontare la sua impresa.

Nel testo, l’alternanza di corsivo e tondo rende evidente la duplice natura del suo punto di vista: da un lato quello del testimone diretto che raccoglie con fatica dal fondo di se stesso ricordi ormai lontanissimi, e dall’altro quello dell’archeologo che si interroga sul significato di un piccolo numero di sparsi frammenti scampati alla distruzione. Si tratta di una manciata di foto, o di un portauovo di legno con la vernice scrostata, di un vecchio violino senza corde, o ancora di una retina per capelli, di un portacenere di legno scolpito a forma di orso…

Che siano esistiti per i Cohen giorni normali e addirittura felici, solo quegli oggetti umili e levigati dal tempo possono dimostrarlo. Sono l’alfabeto di un linguaggio di «fatti» che lo scrittore tenta di far parlare limitando al massimo l’intervento personale. Si tratta, ovviamente, di un’impresa impossibile, perché non c’è linguaggio che possa parlare da sé, senza un soggetto vivo che lo manovri e, per quante cautele possa impiegare, finisca per deformarlo.

Come ammoniva Nabokov nel suo stupendo saggio su Gogol’, in realtà «i nudi fatti non esistono allo stato di natura », e la peggiore condizione in cui possa trovarsi uno scrittore è proprio quella di perdere «il dono di immaginare i fatti». Ma sono convinto che la struggente, indimenticabile bellezza del libro di Cohen consista proprio nel trarre il maggior partito artistico dalla contraddizione dei propositi e dei risultati. Una vera conoscenza è solo quella che accetta di caricarsi sulle sue spalle «l’ignoranza, l’inconsistenza e i vuoti» che paradossalmente la rendono possibile. La scena interiore è una grande lezione di stile, e dunque una lezione morale capace, tra tante inutili prediche, di convincere i suoi lettori.

Emanuele Trevi - La Lettura - Corriere della Sera (http://lettura.corriere.it/linvenzione-della-memoria/)


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