domenica 22 luglio 2012

La cultura vale quanto la finanza


D'accordo, l'Italia deve fronteggiare la crisi finanziaria e il debito pubblico. Ma la cultura, comunque. Perché come recita il Manifesto pubblicato da questo giornale il 19 febbraio niente cultura, niente sviluppo. Il risanamento dell'economia si può fare in tanti modi. Per Ermete Realacci, presidente di Symbola, quello migliore è farlo «con un'idea di futuro», come ha detto ieri nella prima giornata del seminario estivo della Fondazione, a Treia, vicino Macerata. E poi, se vuole guardare al domani «l'Italia deve fare l'Italia perché è quando sceglie come naturale collocazione della competitività economica il terreno della bellezza, dell'innovazione, della ricerca, del made in Italy, che spesso incrociano la green economy, che vince. Non è un caso che l'industria culturale sia molto forte nelle regioni e nelle province che hanno un manifatturiero evoluto».


Nel rapporto 2012 sull'industria culturale in Italia, intitolato "L'Italia che verrà" e fatto in collaborazione dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, 20 esperti, con la supervisione del professor Pierluigi Sacco, hanno percorso la penisola in lungo e in largo, alla ricerca delle esperienze più avanzate e delle tendenze emergenti di ogni settore. È stato, il loro, un viaggio tra cultura, creatività, tradizione, innovazione, genio, ingegno e saper fare che passa per un milione e mezzo di realtà. In mezzo a milioni di monumenti e opere d'arte, ricordiamolo. Dal biocarburante di seconda generazione del Piemonte, alle sartorie tradizionali di Ginosa di Puglia, dalla Brianza del mobile all'occhialeria di Belluno. O dall'Emilia dei motori alle ceramiche di Deruta, dall'arredo casa del Friuli Venezia Giulia al cashmere dell'Umbria. E poi ancora dall'Abruzzo dell'alta sartoria e della pasta alle calzature marchigiane fino a Napoli, dove si concentrano le migliori sartorie di capospalla del mondo. Per non dire della Toscana del vino e del marmo di Carrara, del tessile di Prato e della nautica di Lucca, o della nascente filiera dell'animazione fortemente votata all'export.



La geografia dell'industria culturale ha eletto Arezzo come propria capitale. Qui, infatti, il valore aggiunto della cultura è il più alto d'Italia: l'8,4% del totale prodotto dalla provincia. Seconde classificate a pari merito Pordenone e Milano con l'8%, terze ex equo Pesaro e Urbino e Vicenza col 7,9%. Seguono la provincia di Roma con il 7,6%, quella di Treviso al 7,5%, Macerata e Pisa, entrambe al 6,9%, e Verona con il 6,8%. Dal punto di vista dell'incidenza dell'occupazione del sistema produttivo culturale sul totale dell'economia c'è sempre Arezzo al primo posto. Nella provincia toscana infatti l'incidenza dell'occupazione culturale rispetto al totale dell'economia è del 9,8%. Ma subito dopo Arezzo troviamo la provincia di Pesaro e Urbino, con un'incidenza del 9,5%, quindi quella di Vicenza al 9,1 per cento.

Mettendo insieme tutte queste esperienze è emerso un quadro che porta Claudio Gagliardi, segretario generale Unioncamere, a dire che «la dimensione dell'industria culturale in Italia non si può trascurare per il valore aggiunto, addirittura superiore a quello della finanza e delle assicurazioni, ma anche per l'export e per gli occupati». Prendendo come riferimenti questi indicatori l'industria culturale frutta al Paese il 5,4% del Pil, equivalente a quasi 76 miliardi di euro. Ma dà anche lavoro a un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,6% del totale degli occupati del Paese. Superiore, ad esempio, al settore primario, oppure a quello della meccanica. «Pari al doppio della somma del comparto della finanza e delle assicurazioni messi insieme», insiste Gagliardi. E allargando lo sguardo dalle imprese che producono cultura in senso stretto a tutta la filiera, il valore aggiunto passa dal 5,4 al 15% del totale dell'economia nazionale e impiega ben 4 milioni e mezzo di persone, quasi un quinto (il 18,1%) degli occupati.

Per questo dal seminario di Symbola, è arrivata una richiesta forte di considerare questa industria come strategica, «non la si può considerare centrale solo quando si devono fare tagli alla spesa pubblica», osserva Realacci. Anche perché se guardiamo il trend del quadriennio 2007-2011 il settore può dirsi, sotto molto aspetti, anticiclico. La crescita nominale del valore aggiunto delle imprese del settore della cultura è stata dello 0,9% annuo, più del doppio rispetto all'economia italiana nel suo complesso (+0,4% annuo). E l'occupazione tiene, anzi aumenta, seppure in maniera contenuta, quando a livello generale cala. Tra il 2007 e il 2011, gli occupati nel settore sono cresciuti dello 0,8% annuo, a fronte della flessione dello 0,4% annuo subita a livello complessivo. E non è ancora finita. A completare il quadro c'è il saldo della bilancia commerciale: per la cultura nel 2011 l'attivo è stato 20,3 miliardi di euro, per l'economia complessiva, invece, -24,6 miliardi. Non sono solo numeri questi, «sono il frutto di uno sforzo per guardare all'Italia con occhi meno pigri». Niente cultura, niente sviluppo.


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