mercoledì 9 giugno 2010

Chiesa e Capitalismo

Ho letto con molto interesse questo libretto e l'ho trovato ricoo di spunti e riflessioni. Trovando un'ottima recensione sul Corriere della Sera, che rispecchia il mio pensiero, a cura del bravo Claudio Magris, la riporto di seguito.

I limiti (e i pregi) del capitalismo: proposte per correggere i difetti
Nuove regole e mentalità contro la speculazione selvaggia.
 
Nella Famiglia Moskat di Singer, un personaggio crede nel capitalismo, perché lo considera fondato su leggi di natura e sulla stessa natura umana. È facile obiettare che esso è una realtà storica, mutevole e transeunte come ogni altra; non per questo è meno «naturale», in quanto la Natura è l’incessante nascere e perire di tutte le cose, continenti che emergono, specie che si estinguono, imperi che dominano e si dissolvono, società che decadono, in tempi ora lunghi ora brevi. D’altronde la natura e la vita—e dunque pure un sistema economico — non vanno assecondati in ogni loro manifestazione: cerchiamo di combattere i terremoti, gli tsunami, le malattie e ciò che le provoca, la fame e le condizioni politiche e sociali che ne sono causa.

I DISASTRI DEL CAPITALISMO L’odierna crisi economica mondiale, che tamponata da una parte riesplode da un’altra come le fognature intasate fanno saltare ora l’uno ora l’altro tombino, non induce a contestare ideologicamente il capitalismo, ma a cercar di capire il perché di questi suoi disastri e come porvi rimedio. Nel suo saggio Chiesa e capitalismo—non un’endiadi né una contrapposizione, ma un dialogo alla ricerca di correttivi a quei disastri—Giovanni Bazoli sottolinea come all’espansione capitalista sia legato il progresso del tenore di vita di tante persone e regioni del mondo, mettendo altresì in evidenza la cresciuta diseguaglianza fra chi vive dignitosamente e gli innumerevoli dannati della terra. Cercare di correggere i difetti di un sistema non significa misconoscere i suoi pregi e tantomeno dichiararlo «fallito», nemmeno quando un suo determinato assetto storico appare inadeguato alla nuova realtà. C’è un diffuso compiacimento di dichiarare il fallimento di un movimento (politico, sociale o economico) quando la sua fase progressiva appare conclusa o declinante. Tutti, alla fine, perdono. Anche Luigi XIV, alla fine del suo regno, lascia una Francia spossata, pure Napoleone viene sconfitto a Waterloo ed esiliato. Dobbiamo considerare perdenti e fallimentari la politica del Re Sole o l’impero napoleonico che col suo codice ha propagato i diritti civili in quasi tutta Europa? Oggi c’è chi si sciacqua la bocca col fallimento —o l’eclissi—del socialismo, dimenticando, con un piccino risentimento ideologico, ciò che ha fatto e ciò che significa il socialismo nella sua storia, che cosa saremmo senza le sue conquiste, oggi premessa pure della possibilità di rivederle.

CHE FARE? Ma Bazoli si sofferma soprattutto sui mali prodotti da un capitalismo allegramente selvaggio, che si è nutrito e gonfiato di bolle d’aria più che di economia reale e rischia la rovina, perseguendo con miope avidità un profitto immediato, che alla fine si rivela controproducente per tutti. Anche il capitalismo pone dunque alla sua classe dirigente la domanda che a suo tempo il comunismo poneva alla propria: Che fare? Così s’intitola infatti il saggio di Lenin del 1902, derivato da un romanzo di Cernyševskij. Bazoli invoca sostanzialmente due cose: nuove regole e una trasformazione della mentalità di imprenditori e operatori economici. Il suo cattolicesimo lo induce a porre un forte accento sull’autorinnovamento spirituale e sull’impegno personale; il cristianesimo è essenzialmente «metanoia», radicale rinascita a nuova vita che comprende tutto l’uomo, in tutti gli ambiti della sua esistenza e dunque pure in quello del suo operare economico. Ma in questo caso la situazione è particolarmente complicata. Il singolo individuo può scegliere un modo più saggio e più umano, e alla lunga più soddisfacente, di condurre la propria vita e dunque pure i suoi affari, anche accettando un minore profitto immediato in cambio di prospettive più sicure e tranquille; per quel che lo riguarda personalmente, può fare questa scelta anche se gli altri si comportano diversamente. Ma se un imprenditore — dal cui guadagno dipende pure quello dei suoi dipendenti —opera in una situazione in cui domina una brada corsa al guadagno immediato anche a costo di pericolosi squilibri, difficilmente può permettersi di restare anche solo per un breve periodo indietro, col rischio di danneggiare irreparabilmente la sua azienda e coloro che da essa traggono lavoro e sostentamento.

VOLATA SELVAGGIA È come se in un cinema tutti si alzassero in piedi: è una stupidaggine, ma non si può restare seduti, se si vuole vedere il film. La frenetica assurdità di alzarsi in piedi al cinema è del resto un simbolo di tutto il nostro vivere e operare. Anche nella promozione culturale la necessità di apparire, di mettersi in mostra e di «partecipare» è di per sé una calamità—rovina la vita e i suoi piaceri legati all’ozio e alla libertà zingaresca, costringe a usare quasi tutto il tempo per parlare di ciò che si è e che si è già fatto, ostacolando l’invenzione e la ricerca di esperienze nuove. Ma questa calamità è inevitabile, perché un artista che resta seduto mentre tutti si alzano non solo non vede, ma, cosa ben peggiore, non viene visto. Il profitto selvaggio e immediato, perseguito con vantaggio a breve e svantaggio a lungo termine, non caratterizza solo il campo specificamente economico, ma impera in tutti gli altri e in particolare in quello, anch’esso economico, che è la produzione e il consumo culturale. Ormai la volata è così selvaggia, disordinata e spudorata, che è difficile sopravvivere, almeno provvisoriamente, senza stare al suo passo. È difficile saltar giù dal treno in corsa, specie per chi in tal modo ne trascinerebbe altri, anche se si sa che prima o dopo il treno deraglierà disastrosamente per tutti.

QUALI REGOLE? È dunque arduo affidarsi a quel pur auspicabile cambiamento di mentalità, di cultura e di etica per correggere la legge della jungla sempre più e sempre più dissennatamente sfrenata. Inoltre la crisi che investe—sembra alle radici—la nostra realtà economica, con tutte le conseguenze sociali e politiche immaginabili, rischia di rendere patetiche o almeno nobilmente astratte e retoriche le discussioni sul rinnovamento morale e spirituale. Restano, allora, le regole, quei meccanismi generali e freddi necessari alla società civile affinché ognuno, rispettandoli e venendone tutelato, possa vivere serenamente la sua calda vita, come la chiamava Saba. È un problema sempre più assillante, come hanno mostrato la recente discussione fra Guido Rossi e Giulio Tremonti sul libro di Michele Salvati e tanti dibattiti e interventi che continuano a susseguirsi. Ma quali regole, precisamente? E garantite da quale forza in grado di farle veramente rispettare? Le regole devono avere una loro almeno relativa stabilità e come possono fronteggiare i vertiginosi cambiamenti della crisi, come notava di recente sul «Sole 24 Ore» Giuliano Amato a proposito dell’atteggiamento europeo, mutato così rapidamente, nei confronti dei mercati finanziari? Un ignorante di economia come me, quando legge che occorrono misure di austerità, ma che un Premio Nobel dell’economia come Stiglitz, già consigliere di Clinton e ai vertici della Banca mondiale, le ritiene un disastro, ha l’impressione di una nave senza nocchiere in gran tempesta.

DOMANDE A parte tutto questo, il nuovo capitalismo, che così spesso si è sciacquato la bocca con la «deregulation », può accettare, senza incepparsi con rovina di tutti, regole forti e neutrali ossia limiti alla sua espansione, oppure è già andato troppo oltre per potersi fermare o anche per poter moderare la velocità della sua spirale? Può correggersi al fine di offrire delle possibilità a tutti, affinché non accada, come nella parabola evangelica degli operai della vigna, che alcuni, anzi molti non abbiano nessuna opportunità? Nella parabola evangelica, sottolinea Bazoli, gli operai che arrivano all’ultima ora vengono pagati come gli altri operai che hanno lavorato l’intera giornata, perché prima di quell’ora nessuno aveva dato loro la possibilità di lavorare. Ma come fa un imprenditore, anche il più onesto, a comportarsi da giusto come il Signore? Domande, domande, domande, diceva Brecht.

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