giovedì 11 luglio 2013

Cucinelli: ecco il vero valore aggiunto

VALORIZZANDO “IL TESORO NASCOSTO DELL’ANTICA VOCAZIONE DEL BELLO”, DICE IL RE DEL CACHEMIRE, IL PAESE SI SALVERÀ 


 Il capitalista visionario Brunello Cucinelli è convinto che sì, l’Italia ce la farà: perché è il paese più bello del mondo, patria di Leonardo, Michelangelo, Tiziano. Deve solo abbandonare il segmento medio e concentrarsi sui prodotti ad alto valore aggiunto, che incorporano stile, design, creatività. Insomma, «l’Italia deve fare l’Italia, la bella Italia» e smetterla di ripararsi dietro la crisi, il debito, la politica. Quanto a lui, con l’Ipo (il titolo ha guadagnato in un anno il 110%) ha azzerato il debito e concentrato le risorse nell’apertura di nuovi negozi. Oggi sono 80 nelle grandi città e nelle località del glamour: Aspen, Capri, St. Tropez, Porto Cervo. I ricavi 2012 sono cresciuti del 15% a 279 milioni, e il primo trimestre si è chiuso a 88,8 milioni (+14% sullo stesso periodo). Il marchio produce interamente in Italia e realizza il 20% delle vendite nel Belpaese: il 32% in Europa, il 31% negli Usa, il 6% in Cina e il resto negli altri Paesi del mondo. Nel 2012 Cucinelli ha investito 27,3 milioni (e altri 16,4 nel primo trimestre 2013) nello sviluppo della rete dei monomarca e nell’ampliamento del polo di Solomeo, in provincia di Perugia, cuore dell’azienda. Lo incontriamo a Treviso dove partecipa a Modesign, un progetto a supporto di Venezia Nordest capitale europea della cultura 2019, e ha voluto omaggiare i Benetton, «ai quali sono legato perché a loro mi sono ispirato quando ho deciso di fareil cachemire colorato ». 


Cucinelli, dove stiamo andando? «Come nel ‘500 i mercanti che tornavano dalle Americhe hanno portato il mais, la patata e il pomodoro cambiando il nostro modo di produrre, ci troviamo alla vigilia di un’altra rivoluzione, quella della conoscenza. Vede, mio babbo faceva l’operaio e così i miei fratelli. Nessuno di loro sapeva nulla dei profitti dell’imprenditore per cui lavoravano. Al massimo si sapeva che s’era comprato la Mercedes. Oggi non è più così: basta un clic dal più sperduto paese e chiunque può sapere dove abiti, quanto guadagni, cosa fai. E’ un cambiamento epocale perché ha messo in rete la conoscenza». Il mondo finanziario è pieno di bucanieri: pensa che questa stagione sia finita? «Con la circolazione della conoscenza, per essere credibile devi essere vero, non si può ingannare nessuno. Io credo che sia finito questo tipo di capitalismo. E che sia in arrivo una sorta di capitalismo umanistico contemporaneo. Aristotele sosteneva che l’etica è la parte più alta della filosofia. Abbiamo pensato di governare il mondo con la matematica e la finanza, ma è dall’unione con i saperi umanistici che sono nate le grandi università. È con le conoscenze umanistiche che ne usciremo». 


Oggi però la disoccupazione è ai record e l’Italia somiglia più a un paese in declino che a una potenza industriale. Non crede? «La nostra, prima che una crisi economica, è una crisi di civiltà, di valori, di cultura. Adesso stiamo ridisegnando la mappa del mondo: sul breve soffriremo ancora un po’, ci sarà crisi di lavoro. Ma grazie ai nostri saperi umanistici ne usciremo prima e meglio degli altri, ne sono convinto: il mondo è affascinato dal prodotto italiano, dalla nostra storia, dal nostro stile. Cerca e vuole i nostri prodotti. Come si fa a pensare che non abbiamo un futuro? Il problema che abbiamo davanti è come realizzare prodotti di grande qualità se non investiamo nel capitale umano. Le persone sono il fulcro. Bisogna tornare a dare dignità al lavoro: un giusto salario, l’ascolto delle persone che lavorano con noi, la condivisione ». 


Cosa fare in pratica? «Ci sono prodotti che non trovano più mercato. Non diamo la colpa alla crisi, alla politica: il mercato cambia, deve cambiare l’impresa. Se domani il cachemire italiano non lo comprasse più nessuno, bisognerà prenderne atto e mettersi a fare altro. Senza la parola fallimento: io abolirei questa parola dal codice civile, a meno che non vi sia del dolo. I ragazzi della Silicon Valley hanno chiuso cinque volte prima di sfondare». Gli imprenditori italiani sono maturi per cambiare il proprio modello industriale? «In un mondo come il nostro, il mercato cambia rapidamente: dobbiamo lasciare il segmento medio, che non è più di nostra competenza ma di altri, e salire di livello, cercando di produrre made in Italy, che peraltro nel mondo è ricercato. Cinesi, americani, russi adorano il prodotto italiano. E noi lo sappiamo fare meglio di tutti ». Dopo la quotazione, che programmi ha? «Sto investendo nel brand di segmento molto alto, e nei negozi: pochi, selezionati, nei posti giusti. Nessuno dei miei investitori mi ha chiesto di cambiare: voglio continuare così, a fare il cachemire più bello del mondo, nella mia Solomeo, con gli amici del circolo del paese».


Daniele Ferrazza - Affari & Finanza - Repubblica 


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