lunedì 10 febbraio 2014

I pendolari della guerra santa

Da La Stampa del 9 febbraio

Domenico Quirico: " I pendolari della Guerra santa"

Abituiamoci a pensarlo. Oggi è a Longarone. Ma diventerà sempre più una storia comune, quotidiana. Un bosniaco che incontravi ogni giorno sulle scale, al caffè, che ti aveva tinteggiato la casa, con un figlioletto dagli occhi vivaci. Dentro quel fervore, quella passione dello spirito che sono una delle particolarità della giovinezza. Un giorno non lo vediamo più, chiediamo… «E’ partito …ha detto che tornava al suo Paese..». O è il magrebino che faceva mazzo con i suoi connazionali, incupiti, sempre a parlar fitto.Anche lui scomparso: cancellato l’affitto della squallida stanza che abitava in qualche periferia, eliminati i pochi contatti di una vita ai margini di tutto ciò che siamo. E poi come per Ismar Mesinovic scopriamo che è morto, il kalashnikov in pugno, in qualche battaglia. Ismar in Siria.Oin Sahel.Oin Afghanistan.Un Martire. Storie del nuovo Jihad, delle Brigate internazionali islamiste. E par di leggere l’avvio di «Omaggio alla Catalogna» di Orwell, la caserma Lenin di Barcellona dove arrivavano, trafelati, per non perder l’occasione della rivoluzione, italiani e inglesi, polacchi e bulgari. 

L’internazionalismo, un tempo comunista, ora scandisce il nome di Dio. E’ composto di mille vite come quella del jihadista di Longarone. Passare dal materialismo storico a una concezione teologica o metafisica significa, in fondo, solo cambiar genere di provvidenzialismo. Ecco: hanno tagliato il legame con un mondo che per loro è bruciato da una malattia che distrugge la fede, come in alcune annate si vedono tutti gli olmi di una regione perdere le foglie. Si consacrano al servizio di un dio spietato, intrattabile; non perché lo amino ma per la sua assolutezza, per la sua intangibilità. Perché è un dio soddisfatto fino al delirio del sacrificio che impone. Eppure non è un culto cieco, è una scelta: il loro dio non lo subiscono. Lo hanno scelto. Per loro il Corano è un documento che respira come per noi, un tempo, il Vangelo. Qui è lo scandalo incomprensibile per i tiepidi. Sotto questa apparenza che vediamo e giudichiamo, che ci irrita o spaventa, c’è una vita che il mondo non vede, un segreto al quale è difficile iniziare gli indifferenti: il dolore. Ho incontrato tanti jihadisti «europei » in Siria e nel Sahel.Ragazzi diTolosa con le divise di al Faruq, o «l’americano » che ho cercato invano ad al Quesser, che abitava in una villetta miracolosamente indenne tra le rovine, dove sventolava la bandiera nera con le parole del Corano di un gruppo che lui stesso aveva fondato; o i belgi; o gli inglesi, dicono i più risoluti che hanno imparato il fanatismo nelle periferie di suaMaestà, forse a due passi dal parlamento che è il simbolo della nostra democrazia. 

Ci illudevamo di sedurli: e invece è come se un mattino si fossero svegliati e invece di due mondi possibili ne fosse rimasto loro, di colpo, uno solo, il ritorno alla terra amata o maledetta. È come se noi avessimo rovinato qualcosa negli uomini, anche se cosa effettivamente sia non si sa. Forse una speranza che non era mai stata vera, ma allo stesso modo dava sostegno. Nel loro destino c’è stato, qui, tra noi, uno strappo. Sono purtroppo figli delle nostre omissioni, delle nostre ipocrisie, della nostra viltà. Ci tendono questo specchio dal fondo delle loro tragedie, e vi vediamo riflesso il nostro viso. In Francia, in Gran Bretagna i guerrieri partiti dalle banlieues per le katibe della guerra civile siriana sono la seconda, la terza generazione di immigrati: i loro nonni, forse ancora i loro padri uccidevano il montone per far festa il giorno in cui riuscivano, scavalcando i reticolati che abbiamo posto all’ingresso del nostro paradiso, ad ottenere il pezzo di carta, l’autorizzazione, la cittadinanza. 

Molti dei nipoti, sempre di più, non vedono l’ora di rifiutarci, di tornare indietro a cercare Dio. Contro di noi. Il radicalismo islamista si nutre della sproporzione che c’è tra la umiliazione che l’Occidente ha imposto all’Islam fino a farla diventare quasi senso di fatalità e la nostra pochezza, la nostra fragilità attuale. Per questo la resistenza islamica non si declina con un eroismo quotidiano ma si immagina in termine di assoluto.


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