mercoledì 12 febbraio 2014

Come farsi comprare da un colosso. E vivere felici


Loris Degioanni
In Silicon Valley la chiamano "exit", uscita: è quel fenomeno in cui i colossi hi-tech, come Google, Twitter e Facebook, comprano piccole e grandi startup innovative a cifre con molti zeri. Per molti imprenditori delle nuove tecnologie farsi comprare è un punto di arrivo. E spesso di ripartenza. Vediamo alcune storie di italiani di successo che i colossi Usa si sono contesi.

Il fenomeno ha dimensioni enormi (si parla di 20 miliardi di dollari spesi ogni anno dalle 10 più grandi aziende). E nutre l'ecosistema della baia di San Francisco. Produce a ciclo continuo innovazione, ricchezza e posti di lavoro.
I fondatori delle startup sono liquidati con cifre a molti zeri e trattenuti nelle nuove società con contratti ricchi di incentivi che si chiamano golden handcuffs (manette d'oro), gli investitori prendono un moltiplicatore di 3-5 volte il capitale investito, i dipendenti sono assunti con nuovi contratti. Non a caso da un lato all'altro della baia più hi-tech del mondo echeggia: "No exit? No party!". In Italia, invece, il mercato delle exit è tutto da costruire. Qualcuno ce l'ha fatta (ma si contano sulle dita di una mano: Jobrapido, Buongiorno, Gioco digitale, 7Pixel…), qualcun altro per riuscirci è volato a San Francisco.
La storia di Loris Degioanni, 38 anni, è in questo senso paradigmatica. Loris è un tipo foolish and hungry alla Steve Jobs: immigrato per seguire la sua passione ha creato una startup tecnologica a Davis in California, partendo da zero. Zero competenze di business, zero soldi, zero finanziamenti dai venture capitalist. Ma molto talento. L'ha fatta crescere per cinque anni con un professore come socio, e l'ha venduta alla Riverbed, un'azienda quotata al Nasdaq, per 30 milioni di euro. Metà, li ha incassati il giorno dell'acquisizione nel 2010. L'altra metà gli sono stati dilazionati nei 24 mesi successivi. Tempo richiesto per trasferire tutto il proprio know how ai compratori. E pochi mesi fa è ripartito con una nuova startup. E un sogno. «Se la prima l'ho venduta, la seconda voglio portarla in Borsa».
La sua storia sembra una favola, ma se fosse rimasto in Italia cosa sarebbe successo? «Ho chiesto al fondatore di Riverbed, Steve McCanne: a parità di condizioni (stessa tecnologia, stessi fondatori, stesso fatturato, stesso numero di dipendenti), se fossi stato a Cinisello Balsamo, mi avresti acquisito? La risposta è stata: No. C'è un discorso di accesso e connessione.
Qui tutto succede in pochi giorni. La velocità è la base del business. Per vendere una startup devi avere un prodotto di qualità e qualcuno che lo compri. Avere un team tecnico e commerciale. Ma anche essere nel posto dove c'è il mercato che, per l'Information technology, sono gli Stati Uniti» ci spiega Degioanni. La storia di questo giovane imprenditore milionario («non chiamarmi startupparo, fare una startup non è un gioco, è un lavoro estremamente serio e pesante») è iniziata quando era studente al Politecnico di Torino. Per la tesi di laurea ha creato WinPcap, un software per la sicurezza della rete dei computer. Lo ha regalato al Web in open source. In sei mesi è stato scaricato 80mila volte. Lo ha usato anche John Bruno, professore della University of California Davis, che invita Loris a proseguire la ricerca negli Usa. «Quando ho ricevuto quella e-mail ho capito che la mia vita sarebbe cambiata per sempre» racconta Degioanni. «Sono arrivato nel 2005, per un anno ho lavorato con il "prof" al software per il Boeing 787 ("Per cui non volare sul quell'aereo", scherza). Poi abbiamo fondato la nostra startup. In Italia, quale accademico mollerebbe tutte per mettersi in società con un giovane ingegnere? Nei primi due anni, per avere un po' di ricavi facevamo consulenze per il settore avionico e intanto sviluppavamo i nostri prodotti. Quando abbiamo iniziato a venderli, il fatturato cresceva di milioni di dollari ogni anno. Siamo arrivati a 40 dipendenti, di cui 20 italiani, che ho chiamato dall'Italia offrendo loro il visto per lavorare negli Usa».
A quel punto gli investitori e gli acquirenti cominciano a bussare alla loro porta. 11 le proposte di acquisizione che ricevono. Racconta Loris: «Ho venduto per una serie di fattori. La startup era cresciuta, avevo trovato il prodotto e il mercato, bisognava solo espandersi. E questo mi appassionava meno. Poi, la cifra che mi veniva offerta era enorme». Ma anziché prendere i soldi e scappare a fare surf su una spiaggia delle Hawaii, Loris riparte con nuova startup. Si chiama Draios, si occupa di cloud computing, non ha ancora un prodotto in vendita, ma ha già raccolto finanziamenti milionari.
«Costruire un'impresa è come una corsa sulle montagne russe. Richiede un sacco di energia e ti cambia profondamente. Ma quando ci hai provato, sai che non potrai fare altro. Giochi tutto te stesso. Lo stress e l'adrenalina non ti mollano mai. Non è una vita romantica. Ma quando scopri che, dopo un lavoro mastodontico, alla gente piace quello che hai creato, la soddisfazione è enorme e capisci che ne è valsa la pena». Loris Degiovanni, ormai cervello in fuga, tiene sempre lo sguardo verso la sua Italia. «Tornerò? Non ora, ho due bambini piccoli. Ma mi piacerebbe restituire qualcosa al mio Paese, che tanto mi ha dato» conclude.

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