giovedì 18 febbraio 2010

Il progetto interrotto di Adriano Olivetti


di Paolo Bricco - Il Sole 24 ore

Adriano Olivetti era un uomo affettuoso, goffo e timido. Amava mangiare dolci e credeva che, indagando le pieghe della firma di una persona su un foglio bianco, si potesse intuirne la forza e le fragilità. Ma, soprattutto, era un industriale di grande abilità e allo stesso tempo aveva una passione politica che, con il suo carico di utopia, era insieme simile e profondamente diversa rispetto a quella del suo tempo.

Uno strano mix che lo avrebbe portato, il 23 aprile del 1955, in un discorso ai lavoratori, a formulare alcune domande, probabilmente ancora oggi rimaste inevase: «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».
I suoi 59 anni, conclusisi il 27 febbraio del 1960, ovvero mezzo secolo fa, su un treno che da Milano portava a Losanna, sono stati paradigmatici del secolo scorso, ma hanno rappresentato bene la contraddizione che egli ha incarnato per la cultura, la vita pubblica e l'industria del nostro paese.
Suo padre Camillo, che aveva fondato l'azienda a Ivrea nel 1908, era un ingegnere allievo di Galileo Ferraris e aveva idee socialiste. Anche l'ingegner Adriano era permeato dal rigore positivista del Politecnico di Torino e nutriva interesse per il socialismo. Un episodio spiega bene quanto questa posizione, nei tempi duri del fascismo, non fosse esclusivamente teorica, né la sua personalità fosse da "consenso di massa". L'8 dicembre del 1926, portò in macchina il leader socialista settantenne Filippo Turati e il pensatore liberal-socialista Carlo Rosselli fino al porto di Savona, da dove si sarebbero imbarcati per scappare dai sicari del regime. Dai diari di Ferruccio Parri, con cui Adriano si alternava alla guida dell'auto: «Una gelida e chiara notte di dicembre. Neve, strade difficili. Lunga notte di corse or precipitose, or caute, che si temevano i posti di blocco dei carabinieri».
In lui, un altro elemento coerente con cosa è stato il Novecento per noi è l'amore verso l'America: come già capitato in gioventù a suo padre, e anche a molti altri rampolli del capitalismo nascente (per esempio Gianni Agnelli), si reca a venticinque anni negli Stati Uniti dove resta affascinato dal fordismo, tanto che convincerà gradualmente il vecchio Camillo a riorganizzare l'impresa di Ivrea, ormai una realtà nella produzione di macchine da scrivere e da calcolo, secondo i criteri tayloristici del "tempi e metodi".
Dunque, nel suo profilo ci sono la cultura positivista, l'industrialismo fordista, il sottofondo socialista (pur temperato dalla conoscenza di Piero Gobetti) e l'America, tanta America. Tutta roba del Novecento. Anche se Adriano, alla fine della seconda guerra mondiale, scarta all'improvviso di lato. Il socialismo non basta. Come non bastano il pensiero liberale o per lui, ebreo da parte di padre e valdese da parte della madre Luisa, una interpretazione religiosa unitaria del mondo. Inizia infatti a elaborare una visione originale che condensa nell'Ordine politico delle comunità: una miscela di utopia e federalismo, autonomie locali e democrazia diretta. Una impostazione ignorata dalla politica italiana uscita dal fascismo, ma che avrebbe dato origine, al rientro a Ivrea, al movimento Comunità.
Sì, perché c'è un ritorno a Ivrea. Camillo è morto nel 1943. L'azienda, adesso, la guida lui. La crescita, dal 1946 al 1958, è significativa. Posto un indice iniziale pari a 100, l'esportazione sale a 1.787, il fatturato interno a 600, l'occupazione a 258, i salari reali medi a 386 punti. L'Olivetti è una multinazionale: in dodici anni le consociate estere salgono da quattro a diciannove. Cinque gli stabilimenti in Italia, altrettanti all'estero. Per ottenere questi risultati, Adriano Olivetti moltiplica i prodotti meccanici (la Divisumma costa 35mila lire e viene venduta a 350mila lire), chiama a Ivrea una serie di intellettuali (fra i tanti, impegnati in azienda e nelle attività culturali, lo scrittore Paolo Volponi, i poeti Franco Fortini e Giovanni Giudici, il critico letterario Renzo Zorzi, i sociologi Luciano Gallino e Franco Ferrarotti, il designer Ettore Sottsass), garantisce servizi sociali ai dipendenti (hai la depressione? L'azienda ti fa curare dai medici migliori e ti manda al mare in Toscana) e punta sulla prima elettronica. All'assemblea degli azionisti del 1959 l'imprenditore di Ivrea dice: «La tecnica elettronica potrà avere nel futuro notevoli ripercussioni sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica: esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica permetterà di trasformare alcuni nostri prodotti da meccanici a elettronici».
Fra il 1958 e il 1960 succede tutto, nell'accavallarsi di dimensioni diverse che caratterizza costantemente la sua vita. Nel 1958 partecipa, con il movimento di Comunità fattosi partito, alle elezioni politiche nazionali: si dissangua finanziariamente e viene eletto solo lui. Nel 1959 esce sul mercato il calcolatore elettronico Elea 9003. Nello stesso anno, compra la Underwood, compiendo la prima acquisizione italiana negli Stati Uniti (dovrà arrivare, a condizioni storiche completamente diverse, Sergio Marchionne con Fiat-Chrysler).
Il nodo, che si reciderà l'anno dopo con la sua morte, si aggroviglia proprio in quel 1959: l'impresa, che soffre di una sottocapitalizzazione strutturale tipica del capitalismo italiano, non ha la forza finanziaria per sostenere la doppia operazione. La crisi si avvita: a tre anni dalla sua morte, nel 1963, il patrimonio netto (61,8 miliardi di lire) è la metà dei debiti (118,5 miliardi di lire) e il gruppo sta per finire in mano a un pool di banche svizzere, che potrebbe escutere le azioni della famiglia avute in pegno in cambio di prestiti.
Il gruppo di intervento organizzato da Mediobanca, che non poteva fare a meno della Fiat come partner industriale, salverà una impresa ricca di prodotti, competenze, estetica e cultura internazionale, ma povera di capitali e molto indebitata. Le posizioni del presidente della Fiat Vittorio Valletta (per cui l'elettronica di Ivrea era un «neo da estirpare») e di Enrico Cuccia (convinto soprattutto della centralità della chimica per lo sviluppo italiano), con un mitizzato e fantomatico favore americano all'uscita dall'elettronica, fanno sì che, alla fine, si sacrifichi quest'ultima, ceduta alla General Electric, e si conservi la presenza negli Stati Uniti.
L'anomalia naturale, il progetto interrotto dalla morte, l'unicità in fondo della sconfitta e il seme che, quando tutto sembrava finito con Adriano scomparso e la grande elettronica venduta, nel 1965 avrebbe comunque generato la Programma 101, il primo personal computer da tavolo. È in questo modo che si forma una specie di icona del capitalismo diverso, un uomo così descritto da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare: «Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante l'occupazione tedesca. Era a piedi; andava solo, con il suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava». 

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